domenica 29 aprile 2018
Il curioso Filosofo marxista americano che ci parla di narcisismo e "politiche dell'identità" ma non dice una parola sulle guerre coloniali liberal
Roberto Veneziani Manifesto 28.4.2018, 0:05
Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da una crescente polarizzazione nella società e da forti oscillazioni elettorali. Da un lato, l’elezione del primo Presidente afro-americano e i movimenti di massa con piattaforme radicali (Occupy Wall Street, Black Lives Matter, e la campagna #metoo); dall’altro lato, l’elezione di Donald Trump e l’ascesa dell’estrema destra. Diverse nazioni sembrano convivere all’interno degli stessi confini, e la distanza tra esse cresce a vista d’occhio.
Due sono le spiegazioni ricorrenti di questa polarizzazione: il ritorno delle classi sociali al centro dell’arena politica (dimostrato dalla vittoria di Trump negli stati deindustrializzati della «Rust Belt») e i limiti della cosiddetta identity politics. La «politica dell’identità» è una strategia di definizione delle posizioni politiche e di costruzione dei blocchi sociali basata su elementi identitari quali etnia, genere, età, religione, orientamento sessuale. Nel tentativo di costruire una coalizione basata sulla politica dell’identità, il Partito democratico – e la sinistra Usa in generale – avrebbe perso di vista i problemi economici, consegnando il tema delle divisioni di classe alla destra.
Il ruolo delle classi sociali e dell’ideologia, e la relazione fra religione, etica e politica, sono al centro della ricerca di Brian Leiter. Filosofo della morale, della politica e del diritto, Leiter è professore ordinario alla Facoltà di giurisprudenza dell’università di Chicago. È anche un intellettuale pubblico e interviene regolarmente nei dibattiti accademici e politici, sui principali mezzi di comunicazione Usa e nella blogosfera. Il suo nuovo libro su Marx sta per essere pubblicato da Routledge.
Come definirebbe la politica dell’identità e quanto è centrale nella sinistra (mainstream e radicale) e nella società statunitense?
La politica dell’identità consiste nella richiesta di vari gruppi storicamente marginalizzati negli Usa – neri, donne, omosessuali – di essere «riconosciuti» e di ottenere rispetto per le proprie identità costruite su etnia/genere/sesso anche all’interno di relazioni di produzione di tipo capitalistico. La politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, che desiderano sedersi alla tavola della società capitalista e ottenere la propria quota di riconoscimento nel linguaggio e nella cultura. (Si pensi alle controversie grottesche sul numero di artisti neri che hanno ricevuto l’Oscar.) Nella misura in cui è ostaggio della politica dell’identità, la cosiddetta sinistra negli Usa è impotente contro i veri ostacoli al progresso umano.
L’enfasi posta sulla politica dell’identità ha spesso portato a spostare l’attenzione dalle disuguaglianze economiche alla sfera culturale e linguistica. Quali sono i limiti di questo slittamento da un punto di vista politico? E possono spiegare, almeno in parte, il fenomeno Trump e la sconfitta della sinistra mainstream Usa?
La sinistra statunitense è defunta da decenni, a cominciare dalla caccia ai comunisti negli anni Cinquanta per continuare con la rivoluzione neoliberale e la guerra al movimento sindacale degli anni Ottanta. Trump è il sintomo e non la causa dell’assenza della sinistra negli Usa. Non c’è un’unica causa che spieghi la sua vittoria, ma un fattore determinante è stato la diffusa insicurezza economica delle vittime della globalizzazione – per lo più membri della classe operaia. Trump ha vinto perché circa 100mila operai hanno abbandonato i Democratici in tre stati industriali. Trump ha offerto una «spiegazione» dell’insicurezza economica: i posti di lavoro sono andati a migranti, minoranze, e lavoratori di altri paesi. Aveva ragione su questi ultimi, ma è troppo stupido per capire che nel capitalismo è inevitabile: se la manodopera costa meno in altri paesi, le imprese delocalizzano. Puntando il dito contro migranti e minoranze, ha giocato anche sulla retorica a volte ottusa dei sostenitori della politica dell’identità, ma non è stato un fattore determinante in questa elezione, al confronto con le ampie sacche di razzismo che ancora persistono. Bisogna ricordare che negli Stati uniti sono passate solo due generazioni da quello che era un vero e proprio regime di apartheid.
La politica dell’identità ha svolto un ruolo anche in recenti dibattiti all’interno della sinistra, generando controversie su temi come l’etica nella ricerca e la libertà di opinione. La tendenza è quella di sorvegliare i confini disciplinari e gli argomenti di discussione considerati legittimi…
Se si tiene a mente che la politica dell’identità è il narcisismo degli aspiranti borghesi, questo fenomeno è meno sorprendente. Negli Usa la stragrande maggioranza degli accademici proviene da famiglie benestanti, e, da un punto di vista economico, le loro vite sono molto diverse da quelle della classe lavoratrice; alcuni accademici poi sono membri, o aspiranti tali, delle classi dominanti. Come altri componenti della loro classe sociale fuori dall’accademia – nel mondo degli affari, per esempio, – vogliono la loro quota del capitale culturale, di rispetto e riconoscimento. La tragedia è che in America l’unico posto in cui posizioni di dissenso radicale sono possibili è proprio l’università. I narcisisti della politica dell’identità conducono una guerra sulla lingua e contro le idee che urtano la loro sensibilità nell’accademia. Non si rendono conto che questo semplicemente legittimerà l’esclusione delle idee che non si limitano a urtare le suscettibilità ma minacciano realmente lo status quo e il sistema economico dominante. Come diceva Marcuse, le università devono essere luoghi di «tolleranza indiscriminata» di tutte le idee che sono parte di una scienza (Wissenschaft).
Ma se un appello a concetti normativi, quali uguaglianza, solidarietà e libertà, non può spingere gli oppressi a ribellarsi contro il sistema capitalista, allora cosa può farlo?
Gli ideali politici e morali sono molto importanti per gli esseri umani, ma non c’è alcuna prova che gli scritti teorici (spesso incomprensibili) degli accademici su questi temi facciano alcuna differenza. Marx, che era un ottimo scrittore (a differenza di Habermas), catturò l’immaginazione dei rivoluzionari del XIX secolo perché spiegò loro le cause di fenomeni a loro visibili e indicò una strada da seguire; non dovette convincerli che stavano soffrendo. Nessuno che legga Marx può confonderlo con Habermas. Ma tornando alla sua domanda: cosa può motivare una resistenza al capitalismo? Su questo concordo con Marx: la miseria. E tuttavia Marx sottovalutò i capitalisti in un aspetto cruciale: essi riconobbero presto la necessità di evitare che la ricerca del profitto spingesse troppe persone in miseria, almeno non nei loro paesi (da questo punto di vista, Trump è in piena continuità). Ovviamente, la miseria da sola non basta: la gente deve comprendere le cause reali della propria situazione. Ed è per questo che Marx è importante, mentre Habermas è importante solo per i professori universitari.
Lei ha scritto che una delle cose su cui «Marx ha avuto ragione ben più dei suoi critici è la secolare tendenza nelle società capitaliste all’impoverimento della maggioranza delle persone» e il compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra si rivelerà presto una mera parentesi. Perché, dunque, la sinistra è in piena crisi in quasi tutti i paesi avanzati?
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