venerdì 4 maggio 2018

Il bicentenario di Marx in un mondo diviso tra carioti e negrieri

Doppia interlinea per un’opera aperta 
Anniversari. Il filosofo francese alle prese con il pamphlet più emblematico della tradizione marxista. Un testo che mantiene la sua forza alternando critica filosofica e analisi sociale del capitalismo. Anticipazione dalla nuova edizione del «Manifesto comunista» per Ponte alle Grazie

Etienne Balibar Manifesto 3.5.2018, 0:03 
Pur non essendo l’opera «comunista» più diffusa della storia (la palma in questo senso va al «libretto rosso» di Mao, titolo divulgativo delle Citazioni del Presidente Mao Tse Tung, che contende da vicino il primato di diffusione al Corano e alla Bibbia), il Manifesto del 1848 resta il testo più emblematico della tradizione marxista rivoluzionaria. Quello che ne dichiara e ne rende esplicite le intenzioni, ne getta le fondamenta teoriche, attraverso un excursus storico integrato con un’analisi sociale, per arrivare infine a elaborare un programma politico. Nel Manifesto vengono formulate le parole d’ordine attorno alle quali si organizzerà e svilupperà (ma anche, come accade nella storia di tutte le grandi «fedi», si scinderà e si riformerà) un movimento di massa che, pur non avendo trasformato il mondo come nelle sue intenzioni, è comunque stato determinante più di ogni altro nello scenario politico di tutto il XIX secolo e di buona parte del XX. Inoltre, il Manifesto ha fatto di Marx e Engels l’incarnazione di quella figura intellettuale da sempre ricercata dalla tradizione filosofica (per lo meno quella occidentale, che è stata in seguito universalizzata), almeno da Platone in poi: quella del «filosofo Re», ossia di un discorso che produce effetti concreti sulla vita degli esseri umani.
La figura, insomma, di un certo assoluto, non trascendente ma storico e politico, in cui l’obiettività sociale e la soggettività rivoluzionaria si sviluppano e si determinano l’una con l’altra. In queste circostanze, non desta sorprese il fatto che il Manifesto sia finito per diventare, più di ogni altro documento «letterario», l’incarnazione di quella idea di rivoluzione che gli uomini e le donne ancora oggi nel XXI secolo continuano a temere o a sognare. 
È QUI CHE COMINCIANO le difficoltà, tuttavia. Ora che il basamento storico delle esperienze su cui poggiava quest’idea è stato quasi completamente scalzato – non soltanto dall’usura del tempo, ma anche per effetto di drammatiche vicissitudini – o ancora (metafora alternativa usata da Michel Foucault) ora che il testo e le sue idee sono, nella storia, come «pesci fuor d’acqua» e fanno fatica a respirare, quale può essere lo statuto di questo testo, non soltanto per chi continuerà a leggerlo, ma per tutti coloro che vorranno ancora leggerlo come la sintesi del marxismo? Il grande rischio è che si finisca per oscillare tra due poli antitetici. Da un lato, considerarlo come un documento, un reperto da museo al quale senz’altro si devono dedicare tutte le cure filologiche, ideologiche e sociologiche, ma che per definizione non designa nient’altro che un «futuro passato»; dall’altro lato, interpretarlo come una profezia senza tempo o, meglio, come un baluardo di speranza più forte di ogni «dato di fatto» (quei dati di fatto che, come diceva Rousseau, si devono «mettere da parte» per pensare la possibilità dell’emancipazione) e che si potrebbe definire come un’Idea (l’«Idea Comunista»). (…) 
Il quarto capitolo del Manifesto esprime la «posizione» dei comunisti riguardo ai «diversi partiti di opposizione». Nello svolgimento del capitolo questa denominazione viene allargata a «ogni movimento rivoluzionario contro la situazione sociale e politica attuale», «ovunque» si sviluppi. Come già nel secondo capitolo, questa formula sancisce in modo chiaro che i comunisti non sono un «partito particolare», distinto in senso organizzativo. Funzionano piuttosto da istanza di collegamento, da capacità «soggettiva» che opera una sintesi tra i vari «partiti» rivoluzionari: una sorta di «partito dei partiti», o «movimento dei movimenti», che deve totalizzarli per spingere la loro azione al livello della totalità, ovvero sul piano del mondo unificato dal capitalismo. Questo significa anche che i movimenti che hanno l’obiettivo di rovesciare l’ordine esistente possono essere pensati tutti sotto un unico punto di vista. 
QUESTA LOGICA ha tuttavia molte sfaccettature, e ce ne accorgiamo quando esaminiamo il modo in cui il Manifesto arriva al celebre slogan conclusivo «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» In primo piano spicca l’antagonismo «violento» tra il proletariato e la borghesia, la quale dà vita e organizzazione all’ordine capitalistico. Questo antagonismo affonda le sue radici nel meccanismo stesso dello sfruttamento del lavoro – che in questa sede viene caratterizzato come lavoro operaio, opera di una classe operaia alla quale l’appellativo di «proletariato» conferisce il significato di classe radicalmente sfruttata, senza alcuna riserva di autonomia – per mezzo della proprietà privata degli strumenti di produzione e del lavoro salariato.
L’esito inevitabile di tutto questo è il rovesciamento o l’abolizione della proprietà capitalistica. (…). 
Lo slogan ha altri due sensi, facce che il resto del testo, nella misura in cui descrive un «movimento» e non soltanto un «regime», ci porta a considerare come veri e propri correlati di questo primo senso, quindi come elementi a pieno titolo della concezione di comunismo esposta nel Manifesto. Si tratta dell’internazionalismo e del radicalismo politico, che prescrive di «sostenere» i partiti democratici, criticandone le «illusioni rivoluzionarie», per orientarli verso il «futuro» oggettivo del movimento, cioè verso la rivoluzione comunista. Questi due aspetti sono strettamente legati l’uno all’altro, nella misura in cui le forme di internazionalismo concretamente evocate nel testo servono precisamente a catalizzare la «tendenza» della democrazia radicale (ugualitaria, rivoluzionaria) a superarsi in rivoluzione sociale (o comunque a farle superare i suoi «limiti borghesi»). È chiaro tuttavia che queste due facce non hanno esattamente lo stesso statuto, il che diventa ancora più evidente se guardiamo alla loro genealogia nel sistema del testo. 
L’INTERNAZIONALISMO, da un lato, è immediatamente connesso all’idea stessa di proletariato: questa correlazione si fonda sull’analisi del carattere transnazionale dello sviluppo del capitale (e del lavoro come sua controparte). Il capitale è, per definizione, mondiale, e «gli operai non hanno patria» (secondo capitolo). Si può dire che nel Manifesto esista un’unità «analitica» tra comunismo e internazionalismo: l’uno non si può pensare senza l’altro. Al contrario, l’unità tra comunismo e democrazia è «sintetica» in quanto congiunge due termini distinti, il che non significa tuttavia che essa sia contingente. Perché senza la lotta per la democrazia il comunismo non esiste (è la democrazia a costituire l’educazione politica dei proletari) e senza «conquista della democrazia» (secondo capitolo) non si può operare il passaggio alla società senza classi, in cui i valori di libertà e uguaglianza implicati nell’ideale democratico vengono senz’altro conservati e, anzi, intensificati.
Tuttavia, il termine «democrazia» può sembrare non designare altro che un mero «mezzo» politico, una mediazione dialettica che il movimento comunista deve operare per raggiungere il suo scopo. Mediazione che poi svanisce nel suo stesso risultato. 
Una lettura corale per svelarne la sua attualità 
Un’operazione editoriale e politica ambiziosa dal punto di vista del metodo. Prendere il «manifesto comunista» e commentare i capitali che lo compongono allo scopo di svelare l’attualità dei temi lì affrontati. L’esito, pubblicato da Ponte alle Grazie, è un volume (pp. 352, euro 19,80) che raccoglie i materiali che il gruppo di studio C17 (lo stesso che ha organizzatoa Roma agli inizi del 2017 un convegno internazionale sul centenario della Rivoluzione russa) ha accumulato nella sua attività di ricerca teorica-politica.
Ne emerge una sorta di commento interlineare del celebre libro di Karl Marx e Frederich Engels e, cumulativamente, una lettura del testo marxiano che si discosta dalle interpretazioni dominanti su Marx sia tra i suoi detrattori che dei suoi apologeti: il profeta sconfessato dalla Storia o, all’opposto, il testimone senza tempo e disincarnato dalla realtà di un’attitudine critica del capitalismo.
Accanto a questi materiali, il gruppo c17 ha chiamato alcuni filosofi e teorici marxiani a confrontarsi con il «manifesto comunista». Il volume presente così i saggi di Etienne Balibar (ne pubblichiamo in questa pagina alcuni stralci), Slavoj Zizek, Toni Negri, Sandro Mezzadra, Partha Chatterjee, Pierre Dardot , Christian Laval, Alisa Del Re, Silvia Federici, Verónica Gago, Michael Hardt.
Un libro, dunque ambizioso e risuscito. Un modo adeguato e controcorrente per questo anniversario che sta però affastellando nelle librerie ristampe dei materiali marxiani e saggi che restituiscono le attività di solitari «cantieri marxiani».

Karl Marx, laboratori politici per il presente KARL MARX. In occasione del bicentenario, percorso di letture sul pensatore di Treviri 
Benedetto Vecchi Manifesto 17.5.2018, 0:02 
Una ricorrenza iniziata in sordina. Alcuni articoli diffusi in Rete, l’annuncio di prossime uscite da parte di alcune case editrici, notizie frammentarie sullo stato dell’arte per quanto riguarda le nuove traduzioni ed edizioni delle sue opere. Ma in occasione del primo maggio il ritmo degli interventi sulla sua eredità è diventato frenetico. Difficile, a questo punto, censire tutti i testi, saggi, libri e articoli dedicati fin qui al bicentenario della nascita di Karl Marx e altrettanto impossibile è segnalare gli annunci per la seconda parte del 2018. Va però ricordato che in Italia il filosofo di Treviri è stato festeggiato in anteprima ad aprile con la proiezioni del film del regista haitiano Raoul Peck dedicato all’«esilio» prima parigino e successivamente belga dell’autore de Il Capitale durante il quale Marx ha scritto saggi rilevanti come Miseria della filosofia e quello firmato con Engels, ma dalla elaborazione corale, collettiva passato alla storia come Il manifesto del partito comunista. 
IL TESTO che con radicalità si pone la domanda sull’attualità dell’opera marxiana e che va dunque segnalato è quello della filosofa americana Wendy Brown che ha caratterizzato il suo percorso teorico nell’analisi della crisi dei sistemi politici liberali a partire da una prospettiva femminista. Scritto tre anni fa per la rivista «Dissent» (www.dissentmagazine.org/article/marxism-for-tomorrow-wendy-brown) all’interno di un numero speciale sulle prospettive presenti e future di una sinistra e riproposto agli inizi di maggio propone un ritratto di Marx come autore imprescindibile per comprendere la natura di classe del potere politico nel capitalismo maturo e per mettere a fuoco che la produzione della ricchezza è basata sullo sfruttamento del lavoro. E tuttavia Wendy Brown non esita ad affermare che l’opera marxiana non riesce a svelare l’arcano dell’«era della finanziarizzazione». Questo non significa però gettare alle ortiche Marx. Piuttosto, propone la filosofa americana, si tratta di riaprire il laboratorio marxiano frettolosamente chiuso durante gli anni dell’egemonia neoliberista e di colmare le assenze e i limiti di un’opera maturata duecento anni fa e che non poteva certo prevedere gli attuali sviluppi del capitalismo. 
Un Marx, quello di Wendy Brown, che non ha dunque nulla di profetico. Semmai è un filosofo senza il quale è difficile, se non impossibile orientarsi in un mondo certo complesso ma che non cancella, bensì accentua le disuguaglianze sociali e di potere. Dunque un autore da leggere e rileggere al di là della miseria rappresentata dalla sua demonizzazione. È questa la stessa «metodologia» – leggere Marx oltre la polemica politica corrente – che muove il volume di Jonathan Wolff, un altro filosofo, questa volta però inglese, che insegna alla Oxford University. 
IL SAGGIO, da poco pubblicato dalla casa editrice Il Mulino, può essere considerato espressione del cosiddetto marxismo analitico anglosassone così chiamato perché che unisce le tesi di Marx sullo sfruttamento alla riflessione liberal sulla forma stato capitalista. Il libro, dal titolo Perché leggere Marx (pp. 120, euro 12) è un compendio dell’opera marxiana pensato per studenti e lettori che poco sanno chi era e cosa ha scritto Marx. Vengono così illustrati i concetti di classe sociale, lavoro, plusvalore, evidenziandone l’attualità nella spiegazione di come funziona il capitalismo. 
Wolff dichiara sin dall’introduzione i suoi timori che le lezioni preparatorie a questo testo incontrassero l’indifferenza dei suoi studenti a causa della frequentazione facoltative, cioè svincolate dal corso universitario. Sono ormai vent’anni che il docente inglese organizza seminari su Marx e il numero degli studenti è aumentato nel tempo nonostante si siano svolti nel pieno della controrivoluzione neoliberista che ha visto l’egemonia culturale del partito conservatore e il tentativo del New Labour di cancellare la sua tradizione politica socialista. 
Il saggio di Wolff attinge esplicitamente alla tradizione laburista inglese, testimoniata dall’omaggio che l’autore fa allo storico delle idee Jerry Cohen, il capostipite proprio del marxismo analitico inglese. Quasi inesistenti, invece, i riferimenti alla new left degli anni Sessanta e Settanta, al decano del marxismo inglese Eric J. E. Hobsbawm, mentre sono significativamente citati i libri e le biografie di Marx maturati nel marxismo italiano vicino al Pci. 
Chi invece propone una lettura genealogica dell’opera marxiana è la filosofa ungherese Agnes Heller con il libro, da poco pubblicato da Castelvecchi, Marx. Un filosofo ebreo-tedesco (pp. 230, euro 22). Nella descrizione della costellazione culturale del filosofo di Treviri, le sue origini ebraiche di Marx sono propedeutiche a mettere in evidenza la dimensione messianica, profetica della sua critica dell’economica politica, cioè quell’elemento indispensabile affinché, come hanno sostenuto Walter Benjamin e Ernst Bloch, il materialismo storico possa sviluppare una filosofia della Storia alternativa a quella dominante. Ma gran parte di questi saggi, scritti quando l’allieva di Gyorgy Lukacs non aveva ancora preso le distanze dal marxismo, approfondiscono non tanto la necessità di uno spirito dell’utopia o di un messianesimo rivoluzionario, bensì i temi che hanno reso Agnes Heller un’autrice nota fuori dai confini ungheresi. 
LA TEORIA DEI BISOGNI, ovviamente, ma anche lo sviluppo di una antropologia filosofica che prenda l’avvio da una fenomenologia dei sentimenti. Ne emerge una visione dell’opera fortemente ancorata al panorama filosofico e culturale degli anni Settanta e Ottanta, dove Marx viene salvato dall’oblio per la sua attitudine utopica. Insomma, un classico della filosofia ottocentesca da leggere ma che ha ben poco da dire sul presente, mentre fallimentari sono stati tutti i tentativi di tradurre operativamente la sua critica al capitalismo. 
Più spregiudicata, e utile, è invece la riproposizione di due classici di Karl Marx. La prima è della casa editrice Feltrinelli – l’editore milanese ha recentemente pubblicato un importante saggio di David Harvey, Marx e la follia del capitale (recensito dell’edizione del manifesto del 18/04/2018) – che sta per mandare in libreria la ristampa dei Manoscritti economico-filosofici del ’44 curati da Enrico Donaggio e Peter Kammerer e corredati da alcuni materiali poco conosciuti in Italia che Marx scrisse sulle tesi di James Mill e che i due curatori ritengono utili per comprendere cosa il filosofo intendesse per un lavoro che superasse l’alienazione che lo contraddistingue nella sua forma salariata. 
LA SECONDA riproposta riguarda invece L’Introduzione alla critica dell’economia politica del ’57 della casa editrice Shake di Milano. Un libro importante, sia per l’introduzione che ricostruisce la rilevanza di queste pagine per comprendere il metodo usato da Marx nella sua critica all’economia politica che per i materiali che ricostruiscono la ricezione, travagliata, di questo scritto marxiano firmati da Sergio Bologna, Raf Valvola Scelsi, Franz Mehring e Eval’d Vasil’evic Il’enkov, lo studioso marxista che per primo curò la diffusione di queste pagine marxiane. 
Due volumi che hanno l’obiettivo di rendere attuale l’opera marxiana. In attesa delle pubblicazioni annunciate da molte altre case editrici, va segnalata la nuova edizione del Manifesto comunista per Ponte alle Grazie (pp. 350, euro 19, 80) che si compone, oltre del testo di Marx ed Engels, di una lettura interlineare del manifesto svolta dal collettivo c17 e dai saggi di Etienne Balibar, Sandro Mezzadra, Slavoj Zizek, Veronica Gago. Alisa Del Re, Silvia Federici, Michael Hardt, Pierre Dardot, Christian Laval, Toni Negri (il manifesto del 03/05/2018 ha anticipato il brano di Etienne Balibar). Il volume manifesta la forte intenzionalità teorica-politica non solo per l’attualizzazione della riflessione marxiana, ma per aprire collettivamente un vero e proprio laboratorio marxiano che eviti le trappole del passato – il Marx maturo contrapposto al Marx giovane, la scientificità o meno dell’opera marxiana, la tenuta o meno della teoria del valore/lavoro -, approfondire la critica dell’economia politica nell’era del capitalismo cognitivo, della globalizzazione e della crisi dello stato-nazione. 
Come argomenta il sito di Dinamo Press (www.dinamopress.it/news/marx-finalmente/) nel presentare il volume non si tratta di ribadire la fedeltà a Marx o meno, ma di mettere in opera la cassetta degli attrezzi marxiana. Cioè, come sostiene Paolo Virno, di ribadire la piena leggibilità di Marx, oltre e in buona parte contro il marxismo consolidato dalla tradizione del movimento operaio.

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