martedì 23 ottobre 2018
E' morto Faurisson, negazionista dello sterminio nazista degli ebrei
Ripubblico su Faurisson un articolo di Domenico Losurdo uscito ormai diversi anni fa [SGA].
Condanna dell’ebreicidio e condanna delle infamie
coloniali del Terzo Reich
Vera e
falsa critica del negazionismo
di
Domenico Losurdo
«Giammai Hitler ha ordinato o permesso di uccidere
una persona in ragione della razza o della religione»: questa difesa dell’onore
del Führer e del Terzo Reich si può leggere nel più recente intervento di
Robert Faurisson. Dopo aver criminalizzato la vicenda iniziata con la
rivoluzione d’Ottobre e aver proceduto alla riabilitazione più o meno esplicita
di Mussolini, di Franco, dei «ragazzi di Salò», il revisonismo storico che
infuria da decenni giunge alle sue logiche conlusioni.
1.
Negazionismo anti-ebraico e negazionismo filo-colonialista.
Per comprendere l’assurdità della presa di
posizione di Faurisson, basta metterla a confronto con la descrizione che della
guerra condotta dalla Germania nazista in Europa orientale fa un altro
esponente di spicco del revsionismo storico, e cioè David Irving. Nonostante le
sue reticenze e le sue piroette, questi non riesce a occultare l’essenziale:
accenna ai «barbari massacri di ebrei sovietici» e riconosce che, pur «coperta
da eufemismi sottili», l’«intera attività omicida dei nazisti» era comunque
chiamata a uccidere «senza distinzioni di classe sociale, di sesso o di età»;
le stesse squadre speciali riuscivano a portare a termine il loro compito
«soltanto sotto l’effetto dell’alcool». Tali ammissioni sono però gravemente
indebolite dalla tesi secondo cui Hitler era forse all’oscuro di tutto! Eppure,
è lo stesso Irving ad osservare che il Führer considerava «eccellente» e
meritevole della più ampia diffusione il proclama con cui il generale W. von
Reichenau chiariva ai suoi soldati un punto essenziale: occorreva esigere «un
duro ma giusto tributo dai subumani ebrei». La de-umanizzazione delle vittime,
degradate a Untermenschen, apre le
porte alla «soluzione finale». Se ridicole sono le contorsioni di Irving, un
vero e proprio insulto alla verità storica e alla memoria delle vittime si può
leggere nelle parole di Faurisson.
Come contrastare la deriva revisionista, più o
meno radicale, che si manifesta in settori non trascurabili della cultura
occidentale? Poniamoci un’ulteriore domanda: sono soltanto gli ebrei ad essere
insultati dalla riabilitazione più o meno esplicita del fascismo e persino del
Terzo Reich? Riflettiamo sulla dichiarazione di Faurisson da me riportata
all’inizio: «Giammai Hitler ha ordinato o permesso di uccidere una persona in
ragione della razza o della religione». Abbiamo visto la sorte riservata agli
ebrei nel corso della guerra contro l’Unione Sovietica. Ma ora leggiamo le
diposizioni impartite dal Führer alla vigilia dell’aggressione contro la
Polonia: s’impone l’«eliminazione delle forze vitali» del popolo polacco;
occorre «procedere in modo brutale» senza lasciarsi inceppare dalla
«compassione»; «il diritto è dalla parte del più forte». Analoghe o forse
ancora più drastiche sono le direttive che presiedono all’operazione
Barbarossa: una volta catturati, occorre eliminare immediatamente i commissari
politici, i quadri dell’Armata Rossa, dello Stato sovietico e del partito
comunista; in Oriente s’impone una «durezza» estrema e gli ufficiali e i
soldati tedeschi sono chiamati a «superare le loro riserve» e i loro scrupoli
morali. Nell’ambito del suo progetto di edificazione di un grande impero
continentale in Europa orientale, Hitler per un verso assimila gli abitanti di
quest’area ai pellerossa: essi devono essere espropriati e decimati in modo da
consentire l’espansione coloniale della razza bianca e ariana; per un altro
verso la popolazione residua è destinata ad erogare lavoro servile al servizio
della razza dei signori. Ma perché popoli di antica civiltà possano essere
ricondotti alla condizione di pellerossa (da espropriare e decimare) e di neri
(da schiavizzare), «tutti i rappresentanti dell’intellettualità polacca» e
russa – sottolinea il Führer – «devono essere annientati»; «ciò può suonare
duro ma è pur sempre una legge della vita». Si spiega così la sorte riservata
in Polonia al clero cattolico, in Urss ai quadri comunisti, in entrambi i casi
agli ebrei, ben presenti tra i ceti intellettuali e sospettati di ispirare e
alimentare il bolscevismo. Come si vede, il negazionismo di Faurisson è un
insulto alla memoria sì degli ebrei, ma anche dei polacchi, dei russi ecc:
siamo in presenza di «razze» a cui la hitleriana «razza dei signori» è chiamata
ad imporre, con modalità diverse, un destino tragico.
Non mancano però le critiche che da alcuni
ambienti vengono rivolte a queste considerazioni. Argomentare in tal modo, dicono
costoro, significherebbe procedere ad un’intollerabile moltiplicazione del
numero dei negazionismi. E’ l’obiezione classica dei dogmatici, che rifiutano
di riflettere sulle categorie da loro utilizzate: nella formulazione di regole
generali del discorso essi vedono una minaccia alla loro pretesa di atteggiarsi
a giudici sovrani e inappellabili. Resta il fatto che la denuncia a senso unico
del negazionismo di Faurisson risulta affetta essa stessa da negazionismo. Ed è
proprio quest’ultimo negazionismo quello oggi più diffuso e più pericoloso.
2. Come gli
storici di corte rimuovono la guerra coloniale di sterminio contro l’Unione
Sovietica
Si prenda uno storico di successo nella corte
imperiale di Washington, che scrive sul «Wall Street Journal» e che risponde al
nome di Robert Conquest. Questi, parlando di Hitler, afferma perentoriamente:
«Benché odiasse il comunismo “ebraico”, egli non odiava i comunisti». Tutti
sanno che, sin dal suo avvento, il Terzo Reich scatena una sanguinosa
repressione contro i comunisti. E questa verità non è per nulla smentita dal
patto di non aggressione in vigore tra Germania e Unione Sovietica tra il 1939
e il 1941. Come ho ricordato nel mio ultimo libro (Il linguaggio dell’Impero), già quattro anni prima del patto di non
aggressione i sionisti hanno stipulato nel 1935 un accordo per il trasferimento
in Palestina di un numero consistente di ebrei tedeschi con una parte
considerevole dei loro beni; ma ciò non sminuisce in nulla la ferocia
antisemita del regime hitleriano. D’altro canto, per i nazisti ebraismo e
bolscevismo tendono a fare tutt’uno: non a caso la rivoluzione d’Ottobre viene
bollata come il risultato del complotto ebraico-bolscevico. Ma lo storico di
corte rimuove questo capitolo di storia, così come ignora il fatto che il
furore anticomunista del nazismo è strettamente intrecciato al suo programma
colonialista: i comunisti che stimolano la rivoluzione delle «razze inferiori»
sono individuati come l’ostacolo principale al progetto di costruzione in
Europa di un grande impero continentale. Si comprendono allora le modalità con
cui il Terzo Reich conduce l’aggressione contro l’Unione Sovietica. Le
ricostruiamo sulla scia del recente e coraggioso libro di Geoffrey Roberts:
«Alla fine del 1941 i tedeschi avevano catturato 3 milioni di prigionieri
sovietici. Nel febbraio 1942 erano morti 2 milioni di questi prigionieri, per
lo più a causa dell’inedia, delle malattie e dei maltrattamenti. In aggiunta a
ciò, i tedeschi hanno proceduto direttamente all’esecuzione dei prigionieri
sospettati di essere comunisti». E cioè, già nei primissimi mesi
dell’operazione Barbarossa, i nazisti uccidono o provocano la morte di oltre
due milioni di sovietici, colpendo in primo luogo i comunisti. E non è tutto.
Mentre è costretto a nascondersi per sfuggire alla «soluzione finale», un
eminente intellettuale tedesco di origine ebraica (Victor Klemperer) scrive una
nota di diario sulla quale conviene riflettere. Siamo nell’agosto 1942 e la
Zeiss-Ikon ricorre al lavoro coatto di operaie polacche, francesi, danesi,
ebree e russe; la situazione di queste ultime è particolarmente dura: «Soffrono
tanto la fame che le compagne ebree intervengono in loro aiuto. Ciò è proibito;
ma si lascia cadere una fetta. Dopo un po’ la russa si piega e poi scompare col
pane nel bagno». Dunque, stando a questa testimonianza, la condizione delle
schiave russe (o sovietiche) era talvolta persino peggiore di quella delle
schiave ebree. Ma Conquest sorvola in modo disinvolto sulla questione
coloniale. In tal modo egli si preclude la comprensione dello stesso
ebreicidio: comunisti e ebrei, spesso identificati, sono colpiti da una
violenza particolare, perché sono bollati come i principali responsabili della
rivolta dei popoli coloniali. In Hitler e nel suo principale ideologo (Alfred
Rosenberg) si sprecano le messe in guardia contro la minaccia che l’Untermensch, il sotto-uomo bolscevico o
meglio ebraico-bolscevico rappresenta per il predominio della razza bianca,
ovvero dell’Occidente ovvero della razza ariana, in una parola del mondo che
solo rappresenta la causa della civiltà.
Lo storico caro al «Wall Street Journal» è
impegnato ad infrangere quella solidarietà (così bene illustrata da Klemperer)
che le vittime, in condizioni tragiche, hanno saputo stabilire dinanzi ai loro
carnefici. Siamo in presenza di un negazionismo particolarmente ripugnante.
3. Il
negazionismo come mito genealogico degli Stati Uniti
A subire l’insulto del negazionismo sono le
vittime del colonialismo non solo hitleriano. Alcuni anni fa, un altro storico
acclamato alla corte imperiale di Washington, John Keegan, ha pubblicato un
libro il cui contenuto è stato così sintetizzato nel titolo del maggiore
quotidiano italiano: Indiani egoisti e
cattivi. Viva Custer. In effetti, c’imbattiamo qui in un omaggio, almeno
indiretto, a Custer, il generale che nella sua corrispondenza privata,
riecheggiando gli umori ampiamente diffusi nella comunità bianca del tempo, si
pronuncia per una «guerra di sterminio». Nel bollare come un «ricco egoista»
l’indiano che vorrebbe monopolizzare per sé una terra scarsamente popolata e
che si oppone all’espansione bianca, Keegan non si accorge di riprendere la
teoria dello «spazio vitale», la teoria in base alla quale Hitler ha
legittimato la sua guerra di sterminio contro gli «indigeni» dell’Europa
orientale.
Ben si comprende l’indulgenza dell’ideologia
dominante nei confronti del negazionismo che rimuove gli orrori della
tradizione coloniale, dai conquistadores
della «scoperta» dell’America sino al Terzo Reich. In primo luogo richiamare
l’attenzione su questa lunga vicenda storica significa rendere in qualche modo
omaggio alla tradizione rivoluzionaria, dai giacobini (che abliscono la
schiavitù nelle colonie francesi) ai bolscevichi (che fanno appello ai popoli
delle colonie a spezzare le loro catene) e all’Armata Rossa che a Stalingrado
infrange il sogno hitleriano di rinverdire nella stessa Europa i fasti
sanguinosi della tradizione coloniale.
In secondo luogo è da notare che il negazionismo,
talvolta esplicito talaltra implicito, della tragedia subita dagli amerindi e
dagli afroamericani è un essenziale elemento costitutivo del mito genealogico
degli Stati Uniti, i quali possono autocelebrarsi come «la più antica
democrazia del mondo», solo a condizione di considerare implicitamente
irrilevante la sorte riservata alla massa di coloro che per secoli sono stati
esclusi, oppressi o annientati dal popolo dei signori. Al di là delle
personalità impegnate in prima fila nella lotta politica e quindi,
comprensibilmente, poco interessate a mettere in discussione il mito
genealogico (e l’ideologia della guerra) del paese-guida dell’Occidente e
dell’Occidente in quanto tale, il negazionismo caratterizza anche l’alta
cultura degli Stati Uniti e dell’Europa. Si rifletta sull’aureola di santità
che sulle due rive dell’Atlantico circonda la figura di Tocqueville. Questi
visita gli Stati Uniti, mentre presidente è Jackson, proprietario di schiavi (a
somiglianza di quasi tutti i presidenti dei primi decenni di vita del nuovo
paese), protagonista della deportazione dei Cherokee (il 25% muore già nel
corso del viaggio di trasferimento) e campione della lotta ad oltranza contro
quei «cani selvaggi» che sono gli indiani: egli ama infierire anche sui loro
cadaveri, per ricavarne souvenir da distribuire ad amici e conoscenti. Aveva
ragione Tocqueville ad additare come esempio di «democrazia» gli Stati Uniti di
Jackson, più in generale il paese che è tra gli ultimi ad abolire la schiavitù
sul continente americano e che anzi reintroduce questo istituto nel Texas
strappato con la guerra al Messico? E’ sintomatico che questa domanda
elementare continui a essere elusa.
In terzo luogo, è ben difficile per l’Occidente e
soprattutto per il suo paese-guida fare i conti sino in fondo con la tradizione
coloniale, in un momento in cui Washington si arroga il diritto di esportare
con la forza delle armi la civiltà in ogni angolo del mondo.
Infine. Staccato dalle infamie di cui Hitler si
macchia a danno degli «indiani» e dei «negri» dell’Europa orientale,
l’ebreicidio è chiamato a giustificare non solo la fondazione di Israele, ma
anche la sua politica di espansione coloniale. L’orrore incancellabile subito
dagli ebrei nel Terzo Reich è utilizzato per rimuovere l’oppressione e la
tragedia che, certo in condizioni e con modalità del tutto diverse, da decenni
subiscono i palestinesi. Nell’Ottocento, con Bernard Lazare, la grande cultura
ebraica di sinistra ha cercato di promuovere l’emancipazione degli ebrei non
già strappando qualche concessione coloniale alle grandi potenze del tempo,
bensì inserendo in un complessivo progetto rivoluzionario di orentamento
anticolonialista e antimperialista la lotta degli ebrei e quella degli altri
popoli oppressi, la lotta contro l’antisemitismo e quella contro il razzismo
coloniale. Di qui in Lazare il paragone tra le sofferenze subite dagli ebrei e
quelle inflitte ai neri nelle colonie africane della Germania o di altri paesi,
agli arabi investiti dall’espansione coloniale dell’Italia o agli irlandesi da
secoli oppressi dall’Inghilterra. Nel Novecento abbiamo visto Klemperer
sottolineare la solidarietà tra schiave ebree e schiave russe e sovietiche del
Terzo Reich. E’ questa grande tradizione che ora si cerca di isolare e mettere
a tacere.
4. L’Appello
degli storici per la libertà di espressione
A questo punto occorre riflettere sulla
legislazione già in atto in paesi come la Francia, la Germania, l’Austria e che
ora tende ed estendersi anche all’Italia e all’Unione Europea nel suo
complesso. Contro questa eventualità si è pronunciato un Appello promosso da
storici eminenti quali Angelo d’Orsi, Enzo Traverso ecc, che ha raccolto
massicce adesione nella comunità degli storici e che anch’io ho sottoscritto:
occorre rispettare la libertà di opinione e di espressione; la verità storica
non è una dottrina o religione di Stato, da imporre col ricorso ai poliziotti e
ai giudici. Non c’è da stupirsi che a tali argomenti si rivelino sordi gli
ideologi ufficiali dell’Occidente «democratico»; più sorprendente è la scarsa
sensibilità di cui danno prova gli ambienti di una certa sinistra, i quali
amano generalmente vantarsi di aver rotto con la sottovalutazione della
«libertà formale» che inficiava il «socialismo reale». La legislazione
liberticida ci deve lasciare indifferenti perché colpisce Irving, Faurisson e
altri personaggi dello stesso tipo? Almeno alla sinistra a cui prima accennavo
vorrei rammentare la condanna nel 1925 formulata da Gramsci della legge
mussoliniana contro le logge massoniche: essa in realtà mirava a spianare la
strada per la repressione del movimento operaio. Ai giorni nostri dà pensare la
caccia anticomunista alle streghe che caratterizza il clima politico
dell’Europa orientale…
Ma alla giusta difesa della libertà d’opinione e
di espressione, che è al centro dell’Appello degli storici e che sola può
garantire una lotta credibile ed efficace contro il revisionismo storico e il
negazionismo, vorrei aggiungere un’ulteriore argomentazione. La cosiddetta
legislazione anti-negazionista, già in atto o da varare, sancisce una duplice,
intollerabile discriminazione: Irving, che sia pure in modo parziale e contorto
ha riconosciuto le infamie anti-ebraiche del Terzo Reich, ha trascorso un anno
in carcere; gli storici che si fanno beffe delle vittime sovietiche della
barbarie nazista ovvero che trasfigurano la guerra di sterminio contro gli
indiani (assunta come modello da Hitler), sono gli eroi della scena
mass-mediatica occidentale. La seconda e più grave discriminazione è quella tra
le vittime: è garantita la memoria di alcune ma non di altre. Assistiamo anzi a
un fenomeno su cui vale la pena di riflettere: mentre si vuole estendere
all’intera Unione Europea la legislazione anti-negazionista, ecco che in
Estonia è rimosso il monumento che rende omaggio alla memoria dei soldati
sovietici. A quanto pare, non mancano neppure i tentativi di riabilitazione o
di comprensione del Terzo Reich. C’è un episodio rivelatore del clima che si
sta affermando da alcuni anni. Nell’aprile del 2000 l’allora ambasciatore della
Lettonia in Norvegia scriveva una lettera all’«International Herald Tribune» in
cui così spiegava la domanda di ammissione all’Eu e alla Nato: il paese
intendeva ribadire le «radici europee» e occidentali e i «legami culturali
Nordici». C’è da trasecolare: ecco riemergere un motivo caro in particolare a
Rosenberg e in generale al Terzo Reich, che ha condotto a Est la sua guerra
coloniale di schiavizzazione e di sterminio per l’appunto celebrando la
superiore civiltà europea e nordica, in contrapposizione alla barbarie
asiatica. E, d’altro canto, il Conquest che già conosciamo mette al centro del
suo discorso la celebrazione della superiorità degli «anglocelti» rispetto a
tutti gli altri popoli del mondo. E’ un motivo razziale che, con qualche
variante, avrebbe suscitato l’entusiasmo di Hitler. Una conclusione si impone:
per essere efficace, la lotta contro il negazionismo va fatta sino in fondo e
senza riprodurre, anche involontariamente, nuove discriminazioni. Si tratta
comunque di una lotta che non si può condurre mettendosi alla coda dei responsabili
della deriva revisionista che da decenni infuria in Occidente!
Bibliografia
Robert
Faurisson, Vittorie revisioniste,
Effepi, Genova, 2007, p. 12; Robert Conquest, Stalin Breaker of Nations (1991), Penguin Books, New York, 1992, p.
174; Geoffrey Roberts Stalin’s Wars. From
World War to Cold War, 1939-1953, Yale Universitry Press, New Haven and
London, 2006, p. 85; Victor Klemperer, Ich
will Zeugnis ablegen bis zum letzten, Aufbau, Berlin, 1996 (quinta
edizione), vol. II, p. 194; Adolf
Hitler, Reden und Proklamationen
1932-1945, a cura di Max Domarus, Süddeutscher Verlag, München, 1965 (si
vedano soprattutto i discorsi del 22 agosto 1939, del 28 settembre 1940 e del
30 marzo e dell’8 novembre 1941; Valdis Krastins, Latvia’s Past and Present, in «International Herald Tribune» del 7
aprile 2000, p. 7. Per quanto non risulta dai testi qui citati, rinvio al mio
libro da poco uscito: Il linguaggio
dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari.
(pubblicato in «L’Ernesto. Rivista comunista»,
2007, pp. 82-85).
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