Il ruggito del Leone
Ginzburg pagò con la vita il no al fascismo e da allora Natalia ne prese il cognome Esce la biografia del grande intellettuale
di Paolo Mauri Robinson 18 1 2020
«Leone è morto senza dire la sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci, né perdonare » . Così Norberto Bobbio, che gli era stato amico fin dall’adolescenza, ricordava Leone Ginzburg, morto il 5 febbraio del ’ 44 a Regina Coeli nel braccio governato dai nazisti, probabilmente in seguito ai maltrattamenti subiti ( gli avevano rotto una mascella), ma forse anche perchéera già debilitato (tra l’altro si era ammalato di morbillo da poco) e aveva assunto farmaci che un medico complice gli aveva somministrato per provocare una reazione e ricoverarlo in infermeria. Lo storico Angelo d’Orsi, autore di una dettagliatissima biografia di Ginzburg, ( L’intellettuale antifascista — ritratto di Leone Ginzburg) appena uscita da Neri Pozza, non esita a far sue le parole di Bobbio e chiude il libro ripetendo: « No, non possiamo rassegnarci, né perdonare».
Non era facile scrivere un libro sulla vita di Leone Ginzburg e d’Orsi ammette di aver coltivato l’idea per molto tempo, continuando ad esplorare archivi e accumulare memorie e ricordi personali. Mi ha fatto venire in mente la biografia di Gobetti che Umberto Morra di Lavriano lasciò addirittura incompiuta, dopo averci lavorato una vita intera. Gobetti era vissuto ventiquattro anni, Ginzburg appena dieci di più. Due vite incompiute che proprio per questo era difficile e doloroso raccontare. Poi, d’Orsi aveva deciso di portare a termine il lavoro, dopo aver letto La corsara di Sandra Petrignani, dedicato a Natalia Ginzburg, la moglie di Leone e madre dei suoi figli. Appena arriva la notizia della morte di Leone, Natalia corre a Regina Coeli e chiede di vederlo. La fanno entrare. Chiede anche di prendere le sue scarpe come ricordo. D’ora in poi userà il nome del marito per firmare tutto ciò che scrive.
Il referto sulla morte di Leone lo dichiara " gregario" del Partito d’Azione. Era molto di più. La politica da sempre era al centro dei suoi interessi e ancor più nell’ora della sognata rifondazione del Paese: al piccolo Partito d’Azione aveva dedicato molto del suo tempo, partecipando anche al congresso clandestino di Firenze. Il partito si sarebbe sciolto nel ’47 e anche sul Pda non era facile scrivere, come ha ben documentato Giovanni De Luna che ne ha ricostruito la storia. Ginzburg, nato a Odessa nel 1909 da una famiglia benestante, arriva in Italia per la prima volta a soli diciotto mesi insieme alla madre Vera. L’Italia diventerà la sua patria adottiva, ma la Russia resterà sempre al centro dei suoi interessi. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1948, la casa editrice Einaudi, di cui era stato fondatore e in pratica poi direttore, riunirà in un volume intitolato Scrittori russi i suoi scritti sull’argomento. Un’asciutta avvertenza (che nasconde una forte commozione) precede il volume. « Fu uno dei più attivi e coraggiosi esponenti dell’antifascismo italiano » vi si dice tra l’altro, accennando al carcere che dovette subire. Angelo d’Orsi racconta la storia di Leone, bambino assai precoce e poi studente del Liceo D’Azeglio di Torino, lo stesso frequentato da Bobbio e da Einaudi, dove insegnava l’italianista e dantista Umberto Cosmo oltre ad Augusto Monti e a diversi altri, tra cui anche il giovanissimo Franco Antonicelli. È un capitolo molto denso di storia culturale di una città: Gobetti con le sue riviste era stato un polo d’attrazione e Giulio Einaudi ancora in tarda età, sul finire del secolo scorso, lo ricorderà come esempio di editore ideale. Ginzburg aveva cominciato presto anche lui: dopo uno strepitoso esame di maturità si era iscritto a Giurisprudenza, ma nel ’28 scriveva a Bobbio di aver terminato la traduzione di Anna Karenina per la Slavia di Alfredo Polledro e di aver maturato la decisione di passare a Lettere, forse dopo un incontro personale con Benedetto Croce. Torino con la Slavia e la Frassinelli era un polo culturale in fermento. La Frassinelli era diretta da Franco Antonicelli che si valeva del contributo di Ginzburg e di Pavese.
La Slavia, tra l’altro, apriva orizzonti impensabili prima sulla letteratura russa, con traduzioni dall’originale: non si dimentichi che con la Rivoluzione d’Ottobre la Russia era balzata in primo piano ed è noto l’interesse di Gobetti e naturalmente di Gramsci. Quando Einaudi progetta con Ginzburg di aprire una nuova casa editrice ha in mente la Laterza di Bari, ispirata da Croce. L’Einaudi vorrà essere una piccola Laterza, ma gli inizi sono difficili, la polizia vigila e per gli antifascisti è pronto il carcere o il confino. Intanto Ginzburg è diventato libero docente all’Università di letteratura russa, ma sceglie di non giurare fedeltà al regime fascista, concludendo così quasi prima di cominciarla la sua carriera di professore. Ginzburg fu dunque un grande direttore editoriale della nascente casa editrice Einaudi, versando la sua passione culturale nella scelta e nella " cucina" dei libri senza mai fermarsi, anche quando era in carcere o al confino a Pizzoli con la famiglia, come mai si era interrotta la sua attività politica. Bobbio era tornato più volte a parlare dell’antico compagno di liceo con il quale aveva diviso le prime passioni culturali e non è un caso che proprio Bobbio abbia incitato d’Orsi, suo allievo, a scrivere la biografia di Leone. Racconta d’Orsi che era «quasi un cruccio per lui, e un impegno che in qualche modo, non potendo assolvere egli stesso, qualcun altro avrebbe dovuto assumere».
Forse in Bobbio pesava l’essere stato iscritto al Pnf e l’aver scritto, come si sa, a Mussolini per non compromettere la sua carriera. Nella lettera, pubblicata da Giorgio Fabre su Panorama negli anni ‘90 suscitando un vespaio di commenti, Bobbio accenna al fatto di avere avuto in tasca, al momento dell’arresto, una fotografia di Leone Ginzburg. Per lui era ancora Lollo, il Lollo dell’adolescenza liceale, che lo chiamava Bindi. Insieme avevano fatto mille progetti, avevano letto gli stessi libri per discuterne a scuola o in vacanza. Bobbio aveva poi condotto una vita riparata, badando agli studi, e occultando il suo antifascismo mentre Ginzburg si era, per così dire, buttato nel fuoco. Sapeva guardare avanti, Leone Ginzburg. Persino nel momento più tragico non aveva perso la sua grande lucidità, avvertendo che non si doveva considerare la Germania perduta per il nazismo. Angelo d’Orsi ha scritto un libro necessario, il libro che ci mancava.
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La complessità di Leone Ginzburg
Biografie/2. Lo studio sull’intellettuale è meritorio ma non scevro da inciampi
Raffaele Liucci Domenicale 22 03 2020
Era
da almeno mezzo secolo che si attendeva una biografia organica di Leone
Ginzburg, spentosi a neppure 35 anni nel carcere di Regina Coeli la
mattina del 5 febbraio 1944, torturato a morte dai nazisti. Un compito
arduo per chiunque, vista la difficoltà di fondere in un unico profilo
il bambino nato a Odessa nel 1909 in un’agiata famiglia di origini
israelitiche, trasferitosi ben presto nel nostro Paese; il compagno di
classe di Giorgio Agosti e Norberto Bobbio al liceo d’Azeglio di Torino;
il fondatore nel 1933 con Giulio Einaudi dell’omonima casa editrice; il
traduttore e libero docente in Letteratura russa, che perse il titolo
per essersi rifiutato nel 1934 di giurare fedeltà al regime fascista; il
militante di Giustizia e Libertà che scontò il carcere e il confino;
l’amorevole marito di Natalia Levi, sposata nel 1938; il responsabile di
«Italia Libera» (giornale del Partito d’Azione), nella cui tipografia a
Roma subì il fatale arresto del 20 novembre 1943. Per non parlare dei
suoi vasti interessi storici, artistici, musicali e teatrali.
Ci
ha provato ora lo storico Angelo d’Orsi, già autore vent’anni fa di un
dibattuto volume einaudiano sulla «cultura a Torino tra le due guerre».
Ginzburg vi era dipinto come «la perla forse più luminosa di una collana
che comprende alcuni martiri, pochi autentici combattenti e qualche
decina di eroi». Intorno a questi, s’estendeva un’ampia «zona grigia»
fatta di silenzi, cedimenti e compromissioni, in cui rientravano anche
alcuni intellettuali insospettabili (onde l’uso strumentale che di
quelle pagine fece il variegato fronte anti-antifascista).
Tanto
minuzioso e scientificamente distaccato era quel libro, quanto
simpatetico è questo nuovo lavoro di d’Orsi, accolto da un
impressionante coro di consensi. Ginzburg vi brilla non solo come un
genio precoce (vedi il rapporto paritetico instaurato con Benedetto
Croce) e come un «suscitatore di cultura» dalla curiosità insaziabile,
ma anche come l’intellettuale italiano antifascista par excellence.
Per inquadrare la sua formazione, occorre calarsi nella Torino degli
anni Trenta, ancora investita dall’«aura gobettiana» e segnata dal
passaggio di Gramsci: una città risorgimentale in cui il magistero di
Croce è sempre molto in auge.
D’Orsi ha avuto il merito di
salvare parecchi documenti su Leone, in parte oggi perduti. E anche di
scoprire alcuni episodi pressoché ignoti. Non molti, ad esempio,
conoscevano l’identità del giudice di sorveglianza che «con abilità e
dottrina» nella settimana di ferragosto del ’38 revocò il provvedimento
di libertà vigilata a Ginzburg. Era un giovane magistrato antifascista,
suo coetaneo. Sostituiva un collega in ferie, e si chiamava Alessandro
Galante Garrone.
Peraltro, nonostante sia frutto di una lunga e
ardimentosa ricerca, questo libro ha a tratti un’andatura rapsodica, che
fa inciampare il lettore in svariate incongruenze. Dirigenti di
Giustizia e Libertà che d’Orsi dipinge quali fuggiaschi dall’Italia
fascista attraverso il guado periglioso di fiumi alla frontiera
svizzera: fiumi che hanno tuttavia il difetto di non scorrere affatto
dove lui dice. L’uso indifferenziato della parola «ebreo», applicata a
Mario Attilio Levi, Franco Fortini, Carlo Levi, Paolo e Piero Treves:
guarda caso tutti «disebraizzati» (come lo stesso Leone, il quale non fu
neppure sionista). Regi decreti «razziali» che non risultano essere
stati emanati nelle date indicate. Riunioni fondative del Movimento
Federalista Europeo sorprendentemente confuse con l’uno o l’altro
convegno del Partito d’Azione. Scritti di Cesare Pavese presentati come
inediti a tutt’oggi, mentre circolano a stampa da diversi decenni, in
memorabili volumi Einaudi. Un medico impegnato nella Resistenza
scambiato per «il medico di Regina Coeli». Una rivista del calibro della
«Cultura» di cui si ignora beatamente l’editore e ispiratore, ossia il
banchiere Raffaele Mattioli. Sino al paradosso di rappresentare un
Benedetto Croce affranto per la scomparsa di Ginzburg già all’indomani
della sua morte a Regina Coeli: laddove qualunque lettore dei Taccuini crociani può constatare come don Benedetto apprese «la notizia straziante» della sua fine con ben tre mesi e mezzo di ritardo.
La
responsabilità di tutto ciò è in parte da attribuire anche a una cura
editoriale non soddisfacente. A riprova, l’indice dei nomi copre a
singhiozzo le quasi 60 pagine di note, cosicché occorre munirsi di un
lanternino per sapere, ad esempio, quel che d’Orsi pensa («di scarsa
utilità») del romanzo di Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita
(2015), il cui protagonista è proprio Leone Ginzburg. Per tacere dei
prenomi scambiati per cognomi, delle citazioni fra virgolette senza
fonte, delle sin troppe ripetizioni, delle didascalie che, al pari di
bugiardini, millantano personaggi in realtà assenti dalle foto.
Tutte
imperfezioni che stonano con le pagine che d’Orsi dedica giustamente al
Ginzburg redattore einaudiano, intransigente anche sul piano
dell’accuratezza filologica e sempre aspirante a un libro «privo di
mende»: uno dei suoi lasciti maggiori, insieme all’invito che, ancora
sanguinante dopo l’ultimo interrogatorio delle SS, rivolse a Sandro
Pertini, suo compagno di prigionia a Regina Coeli: «Guai a noi se domani
(…) nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. (...) Le
nostre sofferenze non saranno servite a nulla».
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