Non era facile scrivere un libro sulla vita di Leone Ginzburg e d’Orsi ammette di aver coltivato l’idea per molto tempo, continuando ad esplorare archivi e accumulare memorie e ricordi personali. Mi ha fatto venire in mente la biografia di Gobetti che Umberto Morra di Lavriano lasciò addirittura incompiuta, dopo averci lavorato una vita intera. Gobetti era vissuto ventiquattro anni, Ginzburg appena dieci di più. Due vite incompiute che proprio per questo era difficile e doloroso raccontare. Poi, d’Orsi aveva deciso di portare a termine il lavoro, dopo aver letto La corsara di Sandra Petrignani, dedicato a Natalia Ginzburg, la moglie di Leone e madre dei suoi figli. Appena arriva la notizia della morte di Leone, Natalia corre a Regina Coeli e chiede di vederlo. La fanno entrare. Chiede anche di prendere le sue scarpe come ricordo. D’ora in poi userà il nome del marito per firmare tutto ciò che scrive.
Il referto sulla morte di Leone lo dichiara " gregario" del Partito d’Azione. Era molto di più. La politica da sempre era al centro dei suoi interessi e ancor più nell’ora della sognata rifondazione del Paese: al piccolo Partito d’Azione aveva dedicato molto del suo tempo, partecipando anche al congresso clandestino di Firenze. Il partito si sarebbe sciolto nel ’47 e anche sul Pda non era facile scrivere, come ha ben documentato Giovanni De Luna che ne ha ricostruito la storia. Ginzburg, nato a Odessa nel 1909 da una famiglia benestante, arriva in Italia per la prima volta a soli diciotto mesi insieme alla madre Vera. L’Italia diventerà la sua patria adottiva, ma la Russia resterà sempre al centro dei suoi interessi. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1948, la casa editrice Einaudi, di cui era stato fondatore e in pratica poi direttore, riunirà in un volume intitolato Scrittori russi i suoi scritti sull’argomento. Un’asciutta avvertenza (che nasconde una forte commozione) precede il volume. « Fu uno dei più attivi e coraggiosi esponenti dell’antifascismo italiano » vi si dice tra l’altro, accennando al carcere che dovette subire. Angelo d’Orsi racconta la storia di Leone, bambino assai precoce e poi studente del Liceo D’Azeglio di Torino, lo stesso frequentato da Bobbio e da Einaudi, dove insegnava l’italianista e dantista Umberto Cosmo oltre ad Augusto Monti e a diversi altri, tra cui anche il giovanissimo Franco Antonicelli. È un capitolo molto denso di storia culturale di una città: Gobetti con le sue riviste era stato un polo d’attrazione e Giulio Einaudi ancora in tarda età, sul finire del secolo scorso, lo ricorderà come esempio di editore ideale. Ginzburg aveva cominciato presto anche lui: dopo uno strepitoso esame di maturità si era iscritto a Giurisprudenza, ma nel ’28 scriveva a Bobbio di aver terminato la traduzione di Anna Karenina per la Slavia di Alfredo Polledro e di aver maturato la decisione di passare a Lettere, forse dopo un incontro personale con Benedetto Croce. Torino con la Slavia e la Frassinelli era un polo culturale in fermento. La Frassinelli era diretta da Franco Antonicelli che si valeva del contributo di Ginzburg e di Pavese.Ci ha provato ora lo storico Angelo d’Orsi, già autore vent’anni fa di un dibattuto volume einaudiano sulla «cultura a Torino tra le due guerre». Ginzburg vi era dipinto come «la perla forse più luminosa di una collana che comprende alcuni martiri, pochi autentici combattenti e qualche decina di eroi». Intorno a questi, s’estendeva un’ampia «zona grigia» fatta di silenzi, cedimenti e compromissioni, in cui rientravano anche alcuni intellettuali insospettabili (onde l’uso strumentale che di quelle pagine fece il variegato fronte anti-antifascista).
Tanto minuzioso e scientificamente distaccato era quel libro, quanto simpatetico è questo nuovo lavoro di d’Orsi, accolto da un impressionante coro di consensi. Ginzburg vi brilla non solo come un genio precoce (vedi il rapporto paritetico instaurato con Benedetto Croce) e come un «suscitatore di cultura» dalla curiosità insaziabile, ma anche come l’intellettuale italiano antifascista par excellence. Per inquadrare la sua formazione, occorre calarsi nella Torino degli anni Trenta, ancora investita dall’«aura gobettiana» e segnata dal passaggio di Gramsci: una città risorgimentale in cui il magistero di Croce è sempre molto in auge.
D’Orsi ha avuto il merito di salvare parecchi documenti su Leone, in parte oggi perduti. E anche di scoprire alcuni episodi pressoché ignoti. Non molti, ad esempio, conoscevano l’identità del giudice di sorveglianza che «con abilità e dottrina» nella settimana di ferragosto del ’38 revocò il provvedimento di libertà vigilata a Ginzburg. Era un giovane magistrato antifascista, suo coetaneo. Sostituiva un collega in ferie, e si chiamava Alessandro Galante Garrone.
Peraltro, nonostante sia frutto di una lunga e ardimentosa ricerca, questo libro ha a tratti un’andatura rapsodica, che fa inciampare il lettore in svariate incongruenze. Dirigenti di Giustizia e Libertà che d’Orsi dipinge quali fuggiaschi dall’Italia fascista attraverso il guado periglioso di fiumi alla frontiera svizzera: fiumi che hanno tuttavia il difetto di non scorrere affatto dove lui dice. L’uso indifferenziato della parola «ebreo», applicata a Mario Attilio Levi, Franco Fortini, Carlo Levi, Paolo e Piero Treves: guarda caso tutti «disebraizzati» (come lo stesso Leone, il quale non fu neppure sionista). Regi decreti «razziali» che non risultano essere stati emanati nelle date indicate. Riunioni fondative del Movimento Federalista Europeo sorprendentemente confuse con l’uno o l’altro convegno del Partito d’Azione. Scritti di Cesare Pavese presentati come inediti a tutt’oggi, mentre circolano a stampa da diversi decenni, in memorabili volumi Einaudi. Un medico impegnato nella Resistenza scambiato per «il medico di Regina Coeli». Una rivista del calibro della «Cultura» di cui si ignora beatamente l’editore e ispiratore, ossia il banchiere Raffaele Mattioli. Sino al paradosso di rappresentare un Benedetto Croce affranto per la scomparsa di Ginzburg già all’indomani della sua morte a Regina Coeli: laddove qualunque lettore dei Taccuini crociani può constatare come don Benedetto apprese «la notizia straziante» della sua fine con ben tre mesi e mezzo di ritardo.
La responsabilità di tutto ciò è in parte da attribuire anche a una cura editoriale non soddisfacente. A riprova, l’indice dei nomi copre a singhiozzo le quasi 60 pagine di note, cosicché occorre munirsi di un lanternino per sapere, ad esempio, quel che d’Orsi pensa («di scarsa utilità») del romanzo di Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita (2015), il cui protagonista è proprio Leone Ginzburg. Per tacere dei prenomi scambiati per cognomi, delle citazioni fra virgolette senza fonte, delle sin troppe ripetizioni, delle didascalie che, al pari di bugiardini, millantano personaggi in realtà assenti dalle foto.
Tutte imperfezioni che stonano con le pagine che d’Orsi dedica giustamente al Ginzburg redattore einaudiano, intransigente anche sul piano dell’accuratezza filologica e sempre aspirante a un libro «privo di mende»: uno dei suoi lasciti maggiori, insieme all’invito che, ancora sanguinante dopo l’ultimo interrogatorio delle SS, rivolse a Sandro Pertini, suo compagno di prigionia a Regina Coeli: «Guai a noi se domani (…) nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. (...) Le nostre sofferenze non saranno servite a nulla».
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