Amitav Gosh: L’isola dei fucili, Neri Pozza
Risvolto
Commerciante di libri rari e oggetti d’antiquariato, Deen Datta vive e
lavora a Brooklyn, ma è nato nel Bengala, terra di marinai e pescatori.
Non c’è stato perciò tempo della sua infanzia in cui le leggende fiorite
nelle mutevoli piane fangose del suo paese, affascinanti storie di
mercanti che scappano al di là del mare per sfuggire a dee terribili e
vendicatrici, non siano state parte del suo mondo fantastico.
In uno dei suoi ritorni a Calcutta, o Kolkata come viene detta oggi,
Deen ha la ventura di incontrare Kanai Dutt, un lontano parente
ciarliero e vanesio che, per sfidarlo sul terreno delle sue conoscenze
del folklore bengali, gli narra la storia di Bonduki Sadagar, che nella
lingua bengali o bangla significa «mercante di fucili».
Bonduki Sadagar era, gli dice, un ricco mercante che aveva fatto
infuriare Manasa Devi, la dea dei serpenti e di ogni altra creatura
velenosa, rifiutando di diventare suo devoto. Tormentato dai serpenti e
perseguitato da alluvioni, carestie, burrasche e altre calamità, era
fuggito, trovando riparo al di là del mare in una terra chiamata
Bonduk-dwip, «Isola dei fucili». Braccato, infine, di nuovo da Manasa
Devi, per placare la sua ira, era stato costretto a far erigere un
dhaam, un tempio in suo onore nelle Sundarban, nelle foreste di
mangrovie infestate da tigri e serpenti.
La leggenda del mercante dei fucili resterebbe tale per Deen, una
semplice storia, cioè, da custodire nell’armadio dei ricordi d’infanzia,
se il vanesio Kanai non aggiungesse che sua zia Nilima Bose ha visto il
tempio e sarebbe ben lieta se Deen l’andasse a trovare.
Comincia così, per il commerciante di libri rari di Brooklyn, uno
straordinario viaggio sulle tracce di Bonduki Sadagar che dalle
Sundarban, la frontiera dove il commercio e la natura selvaggia si
guardano negli occhi, il punto esatto in cui viene combattuta la guerra
tra profitto e Natura, lo porterà dall’India a Los Angeles, fino a
Venezia.
Un viaggio mirabolante, che attraverserà secoli e terre, e in cui
antiche leggende e miti acquistano un nuovo significato in un mondo come
il nostro, dove la guerra tra profitto e Natura sembra ormai non
lasciare più vie di scampo al di là dei mari.
Il mondo secondo Gosh
Migranti, clima che cambia, confini Torna lo scrittore indiano che per primo parlò della nostra " grande cecità"
di Stefano Massini Robinson 9 11 2019
Qualche anno fa, in occasione di un nostro incontro pubblico a Bologna, Arundhati Roy mi disse che le migrazioni non possono essere definite "un fenomeno dei nostri anni", è un modo di derubricarle a fase transitoria, quasi si trattasse di un’influenza stagionale che passerà con l’antistaminico. Condivisi le sue parole in pieno. C’è in noi una fretta furba di circoscrivere ciò che ci inquieta, allineando la tubercolosi al raffreddore pur di illuderci che ogni malanno in fondo è curabile. No: le migrazioni sono il baricentro di quest’epoca, ciò da cui non puoi prescindere, al cui confronto tutto il resto assume un profilo marginale. Per tornare alle parole di Arundhati Roy: il Terzo Millennio è la fine della stanzialità.
Non è quindi un caso che adesso io mi trovi a recensire L’isola dei fucili, ultimo titolo di un altro grande scrittore indiano, Amitav Ghosh, nelle cui pagine ho ritrovato la stessa riflessione sulla centralità migratoria. Dirò di più: questo è sì un romanzo ( intriso peraltro di una felicissima vena narrativa, per ampi tratti perfino avventurosa), ma l’ho percepito al tempo stesso come un saggio più che mai toccante sull’abbandono della propria terra, sullo strazio del viaggio senza meta, sul mercimonio della disperazione.
Basterebbe, uno per tutti, il racconto del bengalese Bilal, che mentre taglia i carciofi in un mercato veneziano, riavvolge per noi il nastro drammatico di quelle migliaia di chilometri dal Bangladesh alla Libia, e da lì il naufragio nel Mediterraneo. Ma andiamo con ordine. Premetto che di Ghosh sono da sempre un lettore attento, ben da prima che egli si esponesse sulla battaglia climatica con La grande cecità, meritoriamente ampliando il bacino del suo uditorio.
Di lui apprezzo in particolare la ricerca linguistica, quel ricreare un coacervo babelico con relitti di dialetti indiani, parlate di minoranze etniche e religiose, a testimonianza di quanto ormai le identità siano confuse e ibridate ai limiti dell’indefinibile. Ghosh scrive in inglese, è vero, ma la sua lingua è un sistema complesso, per il quale è vitale una traduzione complice e sensibile ( si deve ad Anna Nadotti e Norman Gobetti). Perfino in un libro come L’isola dei fucili, in cui l’antiquario Datta rincorre le tracce di un tempio indù dedicato alla dea dei serpenti Manasa Devi, Ghosh riesce a non serrarsi mai nella roccaforte del proprio folklore (in teoria redditizio perché ancora oltremodo affascinante), ma sposta l’asse dell’opera sui contrasti di una memoria slegata, sconnessa, incapace di irradiare senso a un presente di abomini e amnesie.
E infatti, proprio come nella trilogia marinara dell’Ibis il navigare si scopriva condizione esistenziale di un’umanità in fuga, così c’è tutto il pianeta Terra in questa nuova inchiesta di Ghosh sul viaggio e sulle radici: ci sono Los Angeles e New York, c’è Calcutta e c’è Venezia, ma è come se ogni luogo fosse remoto e vicinissimo, sprofondato su quei tentacoli di terra fra i fanghi delle Sundarbans, le foreste di mangrovie che già furono scenario de Il paese delle maree. D’altronde, si narra che le isole nascessero dai capelli di Shiva dopo che egli sciolse la sua treccia, e mi chiedo quale migliore metafora possa connotare un luogo cruciale per il Ghosh antropologo prima ancora che per lo scrittore.
Le Sundarbans rappresentano un passato disciolto, una landa estrema in cui mare e terra si confondono e lottano strenuamente, rispecchiando questa loro guerra nello sfaldarsi della tribù umana. Ed eccoci al punto di partenza: questo è un libro sul migrare, scritto da un uomo che fino da bambino ha conosciuto il significato profondo del verbo, vivendo e studiando fra India, Bangladesh, Iran, Inghilterra, Stati Uniti, e di recente, Italia. Gli siamo adesso debitori di quest’opera spiazzante perché tanto vera quanto non immediata, prodiga di suggestioni, lampi improvvisi, evocazioni e presagi, perché « se non credi nel soprannaturale non puoi credere neanche al naturale».
Ed è questa la formula possente di una scrittura rabdomantica, capace di far corto circuito fra il nome arabo della Sicilia e un toponimo bangla, o di passare nel giro di una pagina dai poemi indiani alla taranta di Ernesto De Martino, dagli sciacalli turchi all’Ospedale Civile di Venezia, sempre illuminando a sprazzi il buio in cui ci dibattiamo, affaccendati come siamo a erigere muri e muriccioli imbarazzanti sulla cruciale linea di frontiera di cui scrisse Alessandro Leogrande. Sembra un romanzo, ripeto. Ma è un trattato sul perdersi e ritrovarsi, sulla partenza e sul ritorno, e soprattutto sulla maledizione di una dea spietata che un tempo perseguitava i mercanti di fucili con diluvi e cataclismi, mentre oggi infierisce col più crudele supplizio di una transumanza criminale fra documenti falsi, alloggi clandestini, scafisti e picchiatori skinhead. La signora dei serpenti sta tormentando così gli abitanti di un pianeta su cui scaglia, simultaneamente, inondazioni e apocalissi climatiche. È solo una leggenda? Per acquietarne l’ira, non basterà erigerle un tempietto.
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La furia ecologica della dea dei serpenti
Amitav Gosh. Tra l’India e Venezia, «L’isola dei fucili» parla del clima
Boccali Domenicale 02 02 2020
Nei primi anni del XXI secolo, mentre lavora a
Il paese delle maree
(Neri Pozza 2005, BEAT 2019), Amitav Ghosh si rende conto che i
mutamenti repentini, talora catastrofici, che caratterizzano l'ambiente
del romanzo – un argine poteva sparire in una notte, trascinando con sé
case e persone – stanno per generare un cambiamento irreversibile:
l'impatto accelerato del surriscaldamento globale è giunto ormai a
minacciare l'esistenza di numerose zone costiere della terra. Lo
scrittore si interroga perciò sull'indifferenza diffusa della
letteratura di fronte a questo stato di cose. Perché le catastrofi
naturali e le conseguenti migrazioni di popoli non fanno parte
dell'immaginario dei romanzieri contemporanei?
Ghosh risponde alla sfida implicita nella sue domanda con
L'Isola dei fucili,
uscito due mesi or sono da Neri Pozza nell'elegante traduzione di Anna
Nadotti e Norman Gobetti. Qui lo scrittore e antropologo prende le
distanze dal nostro abituale (occidentale, borghese) logocentrismo (suo
il termine) per spalancare le porte all'immaginario, al mito, da sempre
luogo dell'improbabile, dell'inaudito, dell'eccessivo e da sempre
autentica realtà totale per la sua cultura di origine, quella indiana,
ancora fino al romanzo anglo-indiano attuale. “Potrei dire che L'Isola
dei fucili è una storia che parla del potere misterioso delle storie”,
ha appunto dichiarato Ghosh in una recente intervista.
Così il
racconto è liberamente incorniciato dentro un'antica leggenda bengalese
che narra del conflitto fra Manasa Devi, la dea dei serpenti e di ogni
altra creatura velenosa, e il ricco commerciante Bonduki Sadagar, cioè
in bengali “Mercante di fucili”, che ne aveva scatenato l'ira
rifiutandosi di venerarla. Perseguitato accanitamente, il mercante fugge
e finisce col ripararsi al di là del mare in una terra detta “Isola dei
fucili”. Raggiunto anche lì da Manasa Devi, per placarne l'ira è
costretto a far erigere un tempio in suo onore nelle Sundarban,
l'immenso arcipelago ricoperto di mangrovie alle foci congiunte di
Gange, Brahmaputra e Meghna. Cioè nell'ambiente già teatro de
Il paese delle maree; come analogamente diversi dei personaggi principali de
L'Isola dei fucili sono gli stessi personaggi dell'altro romanzo.
La
leggenda evoca dunque il conflitto tra la Dea che rappresenta il bene,
l'essenza della Terra, e il mercante che incarna il profitto. Sulle
tracce della leggenda, il protagonista del romanzo Deen Datta,
commerciante di libri rari e oggetti di antiquariato che vive a
Brooklyn, ma è nato nel Bengala, compie un viaggio tra l'India, Los
Angeles e Venezia. Ghosh è un narratore straordinario e, come spesso
accade per i romanzi indiani non solo suoi, l'opera è fittissima di
trame e personaggi inanellati. Fra questi Cinta, anziana e affascinante
professoressa veneziana di fama internazionale; oppure la commovente
Rani, una femmina di delfino perfettamente adattata al suo ambiente
fluviale delle Sundarban, ma costretta dalle catastrofi ecologiche a
scoprire che i luoghi familiari non sono più in grado di sostentare lei e
i suoi piccoli, anzi si rivoltano obbligandola a cercare nuovi
territori di caccia. Lo stesso accade alla gente che abbandona le
Sundarban: il mondo appare drammaticamente cambiato, nessuno sa più a
quale luogo appartiene, non gli animali e nemmeno gli esseri umani.
Così
diversi capitoli raccontano del viaggio clandestino di due amici di
infima casta, Tipu e Rafi, prima insieme, ben presto separati dagli
eventi, dal Bangladesh nativo attraverso India, Iran, Turchia fino
all'Europa in Austria e poi in Italia a Venezia, sempre in balia degli
sciacalli che speculano sui più deboli. Emblematicamente a Venezia è
come se tutti i fili e i tempi dell'avvincente intreccio si riunissero:
proprio Venezia, infatti, si rivela essere l'isola del mercante di
fucili, o meglio lo è il Ghetto, isola dentro l'isola; a Venezia si leva
la Chiesa della Salute che può essere considerata “un monumento alla
catastrofe, un memoriale delle calamità che funestarono la ‘Piccola età
glaciale'” e sempre a Venezia si sente che la natura è viva, come il
soffice fango della laguna che nel corso del tempo tende a spostarsi
modificando l'assetto degli edifici sovrastanti. E da Venezia infine
partirà la motonave
Lucania a recuperare Tipu che si trova su un
miserabile peschereccio di rifugiati… fra gli insulti degli attivisti
anti-immigrazione e un tripudio beneaugurante di bioluminescenza,
cetacei e grandi uccelli marini. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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