Racalmuto Leonardo Sciascia, Racalmuto. Nient’altro. La spedivano a questo indirizzo la posta, che fossero le lettere di Calvino e Vittorini oppure la rivista di una parrocchia di Caltanissetta o la copia di un giornalino stampato sulle Madonie. E la posta, puntualmente, arrivava sul tavolo dello scrittore, un po’ come accadeva a Victor Hugo, al quale nel suo esilio nell’isola di Guernsey al largo della Normandia, arrivava la posta spedita all’indirizzo: Victor Hugo, Oceano.
Racalmuto, però, per Leonardo Sciascia era tutt’altro che il luogo dell’esilio. Piuttosto, era il luogo del ritorno. Era la sua casa, la finestra dalla quale leggere il mondo, l’inizio della sua ispirazione da scrittore. « Le case erano allora luoghi privilegiati per l’osservazione delle cose e delle persone, io vi restavo in mezzo alle donne, ascoltavo senza aprir bocca, e finivo per sapere tutto ciò che avveniva in paese, dal primo all’ultimo pettegolezzo, dalla minima maldicenza, all’ultima diceria… Ed è così che sono diventato scrittore». Chi, oggi che sono passati trent’anni dalla sua morte, si avventurasse attraverso strade scandalosamente rimaste incompiute fino a questo paese svuotato — come tutti i paesi siciliani — dall’emigrazione, troverebbe queste parole fissate su una targa sul muro della casa dove Leonardo Sciascia visse da giovane e che uno dei racalmutesi che lottano per conservarne la memoria ha deciso di acquistare e di attrezzare in forma di avventuroso, piccolo museo.

Si chiama Pippo Di Falco, è un ex consigliere comunale del Pci e oltre a — come dice lui — essersi occupato sempre di agricoltura, ha risposto alla sua compulsiva passione per i libri accumulando oltre centomila volumi. Così, nella casa che fu dello scrittore da giovane trovi libri ovunque. I cassetti traboccano di libri, ci sono libri sugli scaffali, sul tavolo nella sala da pranzo, nelle stanze da letto, sulla scrivania davanti alla finestra oltre la quale, mentre scriveva Le parrocchie di Regalpetra, Sciascia vedeva l’accrocco dei tetti («Il paese è umido. Non una di queste case è nata dall’occhio di un architetto; murate a gesso si intridono di nebbia come carta assorbente » ) e, in alto, quella che era la centrale elettrica e oggi è la sede della fondazione a lui intitolata.
Nella stanze della fondazione c’è il vero tesoro, il cuore della memoria di Sciascia. C’è la collezione di ritratti di scrittori, da Moravia a Manzoni, a Casanova, fino all’amatissimo Stendhal, duecento quadri che Sciascia comprò o ricevette in dono e ci sono, soprattutto, le lettere. Dodicimila fogli, corrispondenze con editori, altri scrittori, giornalisti, una miniera — nella terra dove nella miniera di salgemma c’è ancora chi ci lavora — per studiosi, bibliofili, turisti colti e curiosi delle cose di letteratura. Di tutte le lettere lasciate in eredità alla fondazione, però, ne sono state catalogate pochissime. E pochissime sono quelle esposte e consultabili. Ecco perché intorno al tesoro della memoria di Sciascia si è accesa la disputa. E ad accenderla sono stati quelli che, ancora oggi che fanno i giornalisti, gli avvocati, gli scrittori, sono conosciuti come gli " Sciascia- boys". Quando erano giovani si arrampicarono fino alla casa di campagna della Noce, la contrada nella quale lo scrittore passava le estati, riceveva Marco Pannella, si intratteneva col fotografo Ferdinando Scianna, e gli chiesero di scrivere un pezzo per il primo numero del giornale che avevano in mente di mandare in stampa. Avevano deciso di chiamarlo Malgrado tutto quel giornale che oggi sopravvive sul web e — la storia è nota — quel nome non poteva non piacere a Sciascia. Lo scrittore non solo scrisse il pezzo per il primo numero, ma ne seguì con affetto le vicende. Gigi Restivo, che fa l’avvocato e che è stato sindaco di Racalmuto nei primi anni duemila, è uno di loro. «Su Malgrado tutto — racconta — abbiamo aperto il dibattito sulla fondazione Sciascia che, a nostro parere, non sta adempiendo ai suoi compiti. Le dodicimila lettere lasciate dallo scrittore non sono ancora state catalogate e questa è una follia. Non sono stati messi in ordine i carteggi e questo impedisce agli studiosi di accedere a quello sterminato patrimonio». Per tacere delle celebrazioni per i trent’anni dalla morte. Per il decennale venne a Racalmuto e tenne la sua lectio Vincenzo Consolo, per il ventennale il ricordo fu affidato ad Andrea Camilleri che è stato anche direttore artistico del teatro di Racalmuto. Quest’anno, porte aperte solo per un convegno («al quale partecipano 40 università di tutto il mondo», ci tiene a precisare il sindaco Vincenzo Maniglia). C’è, insomma, un tesoro in gran parte nascosto, Lo scontro tra quelli di Malgrado tutto e i vertici della fondazione — nella quale siedono in rappresentanza della famiglia anche i due generi dello scrittore — è culminato nell’allontanamento dal consiglio di amministrazione del giornalista Felice Cavallaro che aveva raccolto le perplessità degli "Sciascia-boys" chiedendone il coinvolgimento nella gestione dell’ente e, soprattutto, chiedendo che la fondazione rendesse quel tesoro fruibile e consultabile e ricevendo in cambio l’accusa di "attivismo invasivo" e il conseguente strascico di interrogazioni parlamentari, esposti e annunciate ispezioni della Regione.
Di certo, Leonardo Sciascia non immaginava questo quando consegnò la frase che voleva scritta sulla tomba: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". Una citazione da Auguste de Villiesr de l’Isle d’Adam che secondo Gesualdo Bufalino esprimeva "una insopprimibile volontà di memoria". Ecco, appunto, cosa resta trent’anni dopo di Sciascia? A Racalmuto, tra le altre cose, resta il circolo " Unione", luogo di immaginazione e di chiacchiere che adesso viene gestito proprio dai ragazzi di Malgrado Tutto, e resta quella statua dello scrittore a grandezza naturale sul corso del paese. A differenza di quella di James Joyce a Dublino, non è su un piedistallo, sembra che passeggi davvero, con la sigaretta tra le dita, per il corso del paese. Salvatore Picone, che quando Sciascia morì seguì il funerale con indosso il grembiule da alunno delle elementari, ma che poi ha fatto l’assessore comunale, quella statua non la voleva. Adesso si è ricreduto: « Serve quella statua. I giovani, almeno quelli che non sono andati via, ce l’hanno come punto di riferimento. Si danno appuntamento " da Sciascia". E questo serve a tenere viva la memoria » . " Un paese ci vuole...", i ragazzi di Sciascia, hanno appeso su un muro del circolo " Unione" la frase di Cesare Pavese. Perché loro al paese e alla sua memoria ci tengono. Come ci teneva il maestro di Regalpetra. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Sciascia da vicino Controcorrente, criticato, querelato, eretico. L’autore del " Giorno della civetta" ricostruito da Felice Cavallarodi Mario Pintagro Robinson 30 11 2019
Il giudice antimafia e lo scrittore che fece scoprire la mafia agli italiani, si trovarono una sera faccia a faccia, nel palazzo di giustizia deserto, scoprendo di non amarsi. Giovanni Falcone aveva intercettato una lettera in cui gli emissari di Michele Sindona chiedevano a Leonardo Sciascia di impostare una campagna in difesa del bancarottiere e per questo Falcone decise nell’ 81 di interrogare lo scrittore, nel frattempo eletto senatore nelle liste dei Radicali. Sciascia si mostrò infastidito per la convocazione. Qualche tempo dopo lo scrittore si sfogò: « Come si può anche solo pensare che io abbia a che fare con simili personaggi? » . Il particolare emerge nel libro Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo,
scritto dal giornalista Felice Cavallaro, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore. Inviato del Corriere della sera, Cavallaro ricostruisce passo dopo passo la vita dello scrittore e intellettuale siciliano. Lo fa con dettagli spesso minuziosi, con particolari che denotano una frequentazione assidua.
Cavallaro è un osservatore privilegiato perché ha vissuto i primi anni proprio a Racalmuto, nel paese agrigentino dello scrittore. Lì, in contrada Noce, a quattro chilometri dal paese, Sciascia trovò l’ispirazione per i suoi primi romanzi, da Le parrocchie di Regalpetra a Il giorno della civetta. Ispirato al capitano dei carabinieri Roberto Candida e all’uccisione del sindacalista Accursio Miraglia, Il giorno della civetta presentava don Mariano Arena, il boss del paese che divideva l’umanità in cinque categorie, dagli uomini ai quaquaraquà. Fu censurato il romanzo e la circostanza amareggiò lo scrittore. Trent’anni fa ci fu chi affibbiò l’epiteto quaquaraquà a Sciascia, dopo le polemiche suscitate dall’articolo sui " professionisti dell’antimafia": un articolo in cui Sciascia metteva in guardia sui rischi del paravento antimafia per far carriera, in politica come in magistratura. « Ma Sciascia era stato profetico – sottolinea Cavallaro – per capire la portata della questione è sufficiente l’esame introspettivo praticato nel 2016 da Francesco Forgione, per alcuni anni al vertice della commissione antimafia, che in un suo libro analizza i motivi profondi di una scelta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata ».
Sciascia eretico, dunque. Controcorrente. Criticato, contestato, querelato. Tra i pochi a dirsi disponibile a una trattativa con i terroristi per liberare Aldo Moro. E l’unico a difendere Enzo Tortora al momento del suo arresto. Era la battaglia « per difendere il diritto di ogni cittadino a non essere privato della libertà e a non essere esposto al pubblico ludibrio senza convincenti prove della sua colpevolezza » . E la difesa del popolare presentatore, nell’estate dell’83, mentre si era ancora alla fase istruttoria, fu espressa da un incisivo articolo sul Corsera: " Non mi chiedo: e se Tortora fosse innocente?: sono certo che lo è". Sciascia e la politica. Approdò al consiglio comunale di Palermo come indipendente del Pci, insieme all’artista Renato Guttuso e ad Achille Occhetto. Ci mise poco per capire che erano altri i luoghi i cui si decidevano le sorti della città diventata " una fungaia cementizia", una città irredimibile in mano a Ciancimino e ai suoi affiliati. Paolo Guzzanti nel ’ 79 lo intervistò e gli chiese cosa avrebbe fatto se al governo del Paese ci fosse stato lui e Sciascia espresse un giudizio tranciante: « Intanto rimanderei a casa Andreotti che riunisce in sé il peggio nei secoli della storia d’Italia » . Poi, con i radicali di Pannella, continuò la sua battaglia «per far prevalere la ragione e il diritto in un Paese che ha spesso preferito le scorciatoie e i gattopardismi».
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