smodato dei social networks, che diventano la non-tribuna dalla quale il leader fonda il suo rapporto col popolo. Un luogo immateriale nel quale si riproducono in scala uno a uno anche gli aspetti più prosaici della quotidianità. Una quotidianità, va dà sé, posticcia ma funzionale ad amplificare l’illusione che il “capo” sia parte del “vero” popolo e non un pezzo del detestato establishment.
venerdì 24 gennaio 2020
Il libro di Nadia Urbinati sul populismo e la crisi della democrazia moderna
Se il populismo si radica nella democrazia
Nadia Urbinati. L’analisi di dinamicheormai sganciate da partiti e ideologie
Campus Domenicale 02 02 2020
Il trasferimento del populismo dalla periferia al centro della politica occidentale rappresenta una delle linee d’analisi più floride della letteratura storica e politologica. La ragione di ciò è di per sé evidente, considerato il grado di diffusione delle forze che aggiornano il repertorio per così dire “classico” del populismo. Tali ragioni sono poi alimentate dall’arrivo di forze siffatte al governo di alcune fra le maggiori democrazie europee.
Si tratta di una traiettoria che si è sviluppata costantemente negli ultimi venticinque anni e che in alcuni contesti geografici si è giustapposta al sistema dei partiti che aveva dato attuazione alle costituzioni postbelliche. Su questi temi il lavoro di Nadia Urbinati si è negli anni segnalato fra i più originali nel definire i mutevoli contorni della fenomenologia populista. Questo libro è la sintesi di un impegno pluridecennale che evita di concettualizzare il populismo rubricandolo nella famiglia degli autoritarismi. Da tale premessa nasce un ragionamento teorico che precisa il profilo peculiare del populismo quale elemento della prassi politica contemporanea, profondamente distante dal fascismo poiché non programmaticamente antidemocratico.
Con ciò l’autrice ridimensiona le generalizzazioni adoperate per definire i processi che mettono in moto (e ingrossano) il consenso al populismo e analizza le conseguenze della sua applicazione sulla democrazia costituzionale. Sulla base della definizione dei suoi contorni l’autrice sviluppa un modello che lo rende riconoscibile e compatibile con le sue diverse declinazioni contemporanee. Infatti, uno dei nessi analitici più ambigui nella definizione del populismo è proprio chi sia apertamente populista e, invece, chi – pur non ascrivendosi formalmente a quel registro – attinge dagli stilemi essenziali dello stesso. Dall’intersezione di questi due punti fermi emerge una nuova forma di governo rappresentativo: la democrazia populista. Tale concetto declina il populismo quale elemento della dialettica democratica senza necessariamente considerarlo interno a dinamiche ideologiche. Il connotato autentico che tale forma del fenomeno ha è, infatti, il suo non appartenere necessariamente alla destra ma intaccare ugualmente il linguaggio e la cultura della sinistra. La democrazia populista non si qualifica dunque come un progetto teso a scardinare i fondamenti della democrazia rappresentativa (all’interno della quale nasce), ma tende a trasformarla senza desiderare di rovesciarla. Il consenso si esprime attraverso la delega a un leader che da solo sostituisce il partito tradizionale, cioè il luogo di sintesi di una linea e di un’azione politica. Il fenomeno noto come “disintermediazione” – quello che ha spudoratamente fatto dire a Trump di essere lui la “bocca del popolo” – si struttura intorno a un uso
smodato dei social networks, che diventano la non-tribuna dalla quale il leader fonda il suo rapporto col popolo. Un luogo immateriale nel quale si riproducono in scala uno a uno anche gli aspetti più prosaici della quotidianità. Una quotidianità, va dà sé, posticcia ma funzionale ad amplificare l’illusione che il “capo” sia parte del “vero” popolo e non un pezzo del detestato establishment.
smodato dei social networks, che diventano la non-tribuna dalla quale il leader fonda il suo rapporto col popolo. Un luogo immateriale nel quale si riproducono in scala uno a uno anche gli aspetti più prosaici della quotidianità. Una quotidianità, va dà sé, posticcia ma funzionale ad amplificare l’illusione che il “capo” sia parte del “vero” popolo e non un pezzo del detestato establishment.
Non ha dunque importanza che l’interlocutore del “popolo” rappresenti un partito, poiché egli da solo è il leader cui è affidato il ruolo di oltrepassare il confine che separa chi esercita il potere e chi no. Ne vengono fuori campagne elettorali permanenti innervate di personalizzazioni, eccessi propagandistici propalati elettronicamente, e il ricorso al bagno purificatore dei referendum quale salvacondotto anche quando il populista di turno ha responsabilità di governo.
La tesi sviluppata in queste pagine prende le distanze dalle analisi che vedono nell’affermazione del populismo il cattivo funzionamento della democrazia parlamentare. In realtà il populismo usa i mezzi che la democrazia moderna offre, e non pretende di delegittimarne i fondamentali. Esso è però il segnale più evidente di una crisi tipica della contemporaneità, che affonda le sue ragioni nella scomparsa di elementi costitutivi delle società occidentali postbelliche. Prime fra tutte, quelle dei due Paesi dove l’autrice vive: gli Stati Uniti e l’Italia.
Il populismo produrrebbe, dunque, una distorsione della democrazia, ma non costituisce il suo stadio finale. Del resto, come non vedere che, per quanto il successo del verbo populista si installi al centro di un quadro deteriorato, i momenti di crisi e di delegittimazione della democrazia caratterizzano la sua storia dal momento stesso della sua comparsa sulla scena politico-filosofica?
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