martedì 4 febbraio 2020

George Steiner 1929-2020


L’uomo della «Weltliteratur»

Gabriele Pedullà
Se, poco più che trentenne, George Steiner aveva conosciuto la notorietà internazionale con Morte della tragedia (1961) e, grazie a Dopo Babele (1975), aveva contribuito alla nascita di un inedito campo di ricerca (i così detti translation studies), è solo negli anni Ottanta che la stima diffusa si sarebbe trasformata in qualcosa di più, facendo di lui – assieme ad Harold Bloom e a Fredric Jameson – il critico letterario per antonomasia. Dei tre, il più in linea con il nuovo spirito del tempo era però proprio Steiner, in quanto il più talentuoso come prosatore e il più portato per l’affabulazione. Dietro ai suoi libri non c’era meno filosofia, ma la sua pagina scorreva leggera, senza quelli che un pubblico divenuto intollerante verso la teoria poteva giudicare i lacciuoli dell’ermeneutica biblica (nel caso di Bloom) e del marxismo (nel caso di Jameson).
Erano gli anni in cui i grandi intellettuali francesi che avevano a lungo dominato la cultura internazionale cominciavano a scomparire a uno a uno, ma in cui, soprattutto, era il loro stile idiosincratico e spesso infarcito di tecnicismi a infastidire gli stessi lettori che sino poco prima ne erano stati incantati. Adesso toccava agli americani. E come era diverso Steiner! Niente più pareti a sesto acuto, con lui. Ecco un critico che non scriveva solo per la Scienza. Steiner sembrava infatti interessarsi anzitutto ai propri lettori: persino quando, da grande narcisista, si metteva in scena come personaggio. Si faceva capire e dava da pensare. Suadente e affabile, a volte paradossale, in casi eccezionali persino provocatorio. E tanto tanto colto. Come non avrebbe potuto essere il suo decennio, quello?
Per Steiner questo imprevisto riconoscimento su scala globale fu doppiamente propizio. Non a tutti gli scrittori capita di incontrare tanto pienamente lo Zeitgeist – già questa è una fortuna rara. Ma un intellettuale importante può ottenere la fama con qualche opera minore, o per aver scelto cinicamente di giocare la partita della bassa divulgazione, come nel caso di Bloom, al quale la compiuta celebrità giunse con Il canone occidentale (1994), quando da tempo aveva smesso di scrivere saggi di rilievo. Steiner ha conosciuto invece la buona sorte di essere letto da tutti nel momento della sua massima creatività, con due libri importanti: Antigoni (1984) e, a proposito di provocazioni, Vere presenze (1989). Quest’ultimo infatti è una acutissima requisitoria contro l’industria critica e la pubblicazione seriale di articoli e monografie. Quanto aiutano davvero a comprendere meglio Shakespeare le migliaia di titoli su di lui? E quanto, invece, essi oppongono una barriera al confronto diretto e vivificante con i suoi testi? Si può essere meno sospettosi verso la “cultura del commento” di quanto non fosse Steiner allora, ma chiunque abbia attraversato una grande biblioteca universitaria statunitense riconosce l’abissale sensatezza della sua domanda.
Se Antigoni era un modo di tornare al suo primo amore, il teatro, da altri punti di vista poteva sembrare anche un modo di celebrarne, nonostante tutto, la sopravvivenza. Da giovane, in anni in cui tanti altri (da Friedrich Dürrenmatt a Pier Paolo Pasolini) si stavano interrogando sulla compatibilità della forma tragica con il mondo moderno, in Morte della tragedia Steiner aveva posto la questione con la massima radicalità (in sostanza attribuendo al cristianesimo e al marxismo, con le loro spiegazioni razionali dei conflitti e della sofferenza umana, un ostacolo alla creazione di nuovi capolavori). Antigoni racconta invece la storia delle maggiori messe in scena di un’unica opera, seguendola nel tempo e nello spazio con una ricchezza di dettagli e un’acutezza di interpretazione che all’epoca impressionò tutti. I lettori rimasero affascinati specialmente dalla scoperta di come un singolo dramma canonico potesse rifrangersi in tante interpretazioni diverse (in linea con un certo clima decostruzionista di quegli anni); su un altro piano, però, Antigoni poteva essere letto come la prova che, almeno sulle scene, le tragedie (di ieri) avevano ancora un futuro. Al contrario della inerte cultura del commento accademico, la moltiplicazione di un testo a opera dei registi (come, in un altro campo, dei traduttori) aveva dunque una funzione positiva.
Lo Steiner indispensabile è senza dubbio in questi quattro volumi. Pure dopo non sono mancati però scritti ingegnosi, da Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (2005) a I libri che non ho scritto (2008). Quest’ultima opera, tra l’altro, permette di cogliere un tratto fondamentale del carattere di Steiner: la tensione irrisolta tra una bulimia conoscitiva che rifiuta i limiti disciplinari e la consapevolezza di ogni serio studioso che una ricerca degna di questo nome richiede lustri di lavoro. Se i colleghi più accademici hanno spesso disapprovato il dongiovannismo intellettuale di chi non ha mai temuto di spaziare lungo l’intera tradizione culturale dell’Occidente, in nessuno dei suoi libri importanti il rifiuto dello specialismo si traduce in superficialità, e uno dei rimproveri che Steiner si muove nella sua autobiografia (Errata, 1997) è proprio la fretta di giungere a una conclusione nei saggi giovanili raccolti in Linguaggio e silenzio (1967). Ars longa, vita brevis, certo. Ma il vecchio adagio latino è vero anche di più per chi non ammette confini alla propria ansia di conoscenza.
La decisione di studiare l’italiano a quarant’anni passati (sui romanzi di Luigi Malerba!) sarebbe nata da una simile volontà di allargare ancora gli orizzonti, e di lì a poco avrebbe portato Steiner a diventare uno dei massimi sostenitori di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, da lui giudicato uno dei massimi romanzi, non solo italiani, dell’intero Novecento.
Steiner scrisse una volta che la letteratura comparata, come disciplina accademica, è figlia della diaspora ebraica, con quelle famiglie disseminate tra tre o quattro paesi europei e abituate ad apprendere le lingue dei vicini perché era sempre meglio tenersi pronti a emigrare, se le cose si fossero messe male in patria... Pensava, certo, anche alla propria vicenda biografica di ebreo francese riparato in America da bambino per sfuggire alla Shoah. Di sicuro, in anni in cui ancora non si parlava di globalizzazione, nessuno ha incarnato quanto lui il sogno di una Weltliteratur fatta a stretto contatto con i testi. Per chi comincia ora, difficilmente sarà possibile fare di meglio.
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