domenica 16 febbraio 2020

Il meccanismo di Anticitera e la meccanica antica: Jones e Di Pasquale


Alexander Jones: La macchina del cosmo. La meraviglia scientifica del meccanismo di Anticitera, Hoepli, Milano, pagg. 338, € 24,90

Risvolto
Rinvenuto casualmente da pescatori di spugne nel 1901 al largo dell'isola greca di cui porta il nome, il meccanismo di Anticitera si presentava come un insieme di resti corrosi e malconci di un dispositivo a ingranaggi risalente all'antica Grecia. Dal giorno della scoperta a oggi, gli esperti sono riusciti a ricostruirne la struttura e il funzionamento, combinando osservazione diretta, strumenti radiografici sempre più potenti e surface imaging. Il meccanismo riproduceva di fatto l'universo così come lo concepivano i Greci, era una macchina dotata di una mezza dozzina di quadranti per illustrare le orbite nello spazio di Sole, Luna e pianeti, e i conseguenti cicli del tempo. Nella Macchina del cosmo, il meccanismo di Anticitera diventa la chiave per capire l'astronomia e la tecnologia dell'antica Grecia e il loro ruolo nel contesto socioculturale grecoromano. Considerato a lungo un congegno eccentrico per l'epoca, le ricerche più recenti hanno mostrato che si tratta in realtà di una macchina del cosmo concepita in tarda età ellenistica sulla base di raffinate, consolidate e diffuse conoscenze meccaniche e astronomiche. Oltre a essere un capolavoro nel genere delle macchine strabilianti, create per imitare la natura senza rivelare il proprio funzionamento allo spettatore, il meccanismo era anche una sorta di manuale animato di divulgazione scientifica.


Giovanni Di Pasquale: Le macchine nel mondo antico. Dalle civiltà mesopotamiche a Roma imperiale, Carocci, Roma, pagg. 241, € 18

Risvolto
L'antichità è immaginata come un'epoca di straordinaria fioritura artistica e architettonica, letteraria e filosofica. La presunta marginalità delle conoscenze scientifiche, l'incapacità di porre in proficua relazione scienza e tecnica, oltre all'ampia disponibilità di schiavi, hanno costituito i pilastri della resistentissima tesi della "stagnazione tecnologica" del mondo antico. L'autore cerca di confutare tale ipotesi mettendo a frutto studi e ricerche degli ultimi anni. L'antichità, epoca in cui tutto venne ideato dal nulla, è caratterizzata dalla presenza di personaggi capaci di costruire e adoperare strumenti per portare a compimento sfide a lungo apparse come sogni impossibili. Vasche per la premitura delle uve, torchi, macine, gru, ruote idrauliche, dispositivi da guerra e per il teatro definiscono il paesaggio del Mediterraneo come un vero e proprio "paese delle macchine".



Il marchingegno d’Anticitera

Vincenzo Barone Domenicale 16 2 2020
Nella primavera del 1900 un gruppo di pescatori di spugne greci scoprì lungo le coste dell’isoletta di Anticitera, a metà strada tra il Peloponneso e Creta, il relitto di una nave naufragata duemila anni prima. Nel corso dei mesi successivi la nave restituì agli scopritori il suo ricco carico: «vasi, frammenti di sculture e altre cose», come scrissero i giornali. Inizialmente furono soprattutto i frammenti di un bellissimo Efebo a destare interesse, ma in seguito ci si accorse che tra le «altre cose» ce n’era una sorprendente: un insieme di pezzi di metallo corrosi, con iscrizioni di carattere astronomico, che sembravano comporre un meccanismo a ingranaggi - qualcosa di mai visto e di inconcepibile fino ad allora.
Le prime interpretazioni dello straordinario reperto furono alquanto superficiali: qualcuno, posticipando di secoli la data del naufragio, pensò a un astrolabio, che era l’unico strumento astronomico noto del mondo antico, attestato però solo a partire dal IV secolo d.C. Questa rimase la teoria dominante per mezzo secolo, fino a che, nel 1958, non comparve sulla scena un giovane fisico inglese appassionato di storia della scienza, Derek de Solla Price (oggi famoso anche per aver introdotto il termine Big Science e inaugurato gli studi scientometrici). Price analizzò in dettaglio i vari pezzi del meccanismo e riuscì a capire finalmente come andavano assemblati. Da un attento esame delle ruote dentate e dei loro rapporti concluse che il congegno simulava i movimenti del Sole e della Luna: era insomma un «calcolatore» meccanico dei moti celesti.
In anni più recenti, analisi strumentali estremamente sofisticate hanno permesso - grazie al concorso di svariate competenze: fisica, archeologia, paleografia, storia della scienza ecc. - di correggere e perfezionare il lavoro di Price, ricostruendo in maniera pressoché definitiva il funzionamento del meccanismo. Uno dei protagonisti di queste ricerche, lo statunitense Alexander Jones, racconta ora la storia della macchina di Anticitera in un libro avvincente e ricco di informazioni, corredato di splendide fotografie dei frammenti del congegno.
Com’era fatta la macchina e a che cosa serviva? Nella sua configurazione originale era una scatola di legno con due facce in bronzo: sulla faccia anteriore c’era un quadrante circolare con un sistema di lancette; su quella posteriore una scala graduata a spirale con tre quadranti più piccoli. Il tutto era azionato da una manopola laterale, che metteva in moto un complesso sistema di ingranaggi dentati. Il meccanismo svolgeva numerose funzioni: non solo riproduceva i moti del Sole, della Luna e dei pianeti, ma permetteva anche di prevedere le eclissi solari e lunari, e di seguire vari cicli cronologici. Un punto interessante, evidenziato da Jones, è la stretta corrispondenza tra queste funzioni e gli argomenti trattati in un’opera astronomica del I secolo a.C., l’Introduzione ai fenomeni di Gemino. Ciò induce a pensare che la macchina avesse una finalità essenzialmente educativa e culturale: che servisse a favorire «la diffusione dell’astronomia presso gli studenti di filosofia e i membri delle élite colte», esemplificando in maniera concreta un’immagine dell’universo come sistema soggetto a princìpi di regolarità.
«Così profondamente diverso e strano da essere quasi impossibile»: fu questa l’impressione che fece a Richard Feynman, nel 1980, il meccanismo di Anticitera, esposto al Museo Archeologico di Atene. La prima idea che venne in mente al grande fisico, e che viene in mente a chiunque guardi quei frammenti, è che si trattasse di «una qualche forma di falso». A ben pensarci, però, è un’idea che non ha molto senso. I falsari non realizzano opere apparentemente impossibili, bensì opere possibili, che si inseriscono (o perlomeno tentano di inserirsi) con naturalezza in un’epoca o in un ambiente culturale: opere che ci aspetteremmo, e persino spereremmo, di scoprire.
Non è il caso del congegno di Anticitera, che sembra provenire da un altro mondo (e non si contano, in effetti, le fantasie pseudoscientifiche cui ha dato luogo). Ma Jones dimostra che lo strumento è in realtà figlio del suo tempo, perfettamente inscritto «nel contesto delle complesse invenzioni meccaniche greco-romane». Certo, è un oggetto unico, molto più avanzato di tutti i dispositivi meccanici per l’astronomia descritti nei testi greci e latini che conosciamo, ma «i suoi costruttori appartenevano senza dubbio a quella tradizione artigianale che ci hanno tramandato i manuali di meccanica antica».
Una delle fonti più autorevoli sull’esistenza di dispositivi di tal genere è Cicerone, il quale parla in varie occasioni di una sphaera costruita dal filosofo stoico Posidonio di Apamea, che forse aveva visto di persona durante il suo viaggio in Asia Minore, tra il 79 e il 77 a.C.: non un semplice globo, ma un meccanismo che riproduceva i moti dei corpi celesti per mezzo di un singolo movimento rotatorio – qualcosa di molto simile allo strumento di Anticitera. La nave che trasportava il congegno naufragò più o meno in quegli anni, sulla rotta dall’Egeo al Mediterraneo Occidentale.
La tentazione di immaginare che il prezioso oggetto fosse una versione perfezionata della sphaera di Posidonio, destinata proprio a Cicerone, è forte (e Price non si trattenne dall’ipotizzarlo). Ma, indipendentemente dall’identità del suo costruttore e del suo destinatario, la macchina di Anticitera è una testimonianza straordinaria, e per il momento unica nel suo genere, di una civiltà scientifico-tecnologica ricchissima, di cui sono giunte fino a noi solo poche vestigia.
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Viaggio in una civiltà tecnologicamente avanzata
Franco Giudice Domenicale 16 2 2020
Sono davvero pochi, soprattutto in Italia, i libri dedicati alla scienza nel mondo antico. E ancor meno quelli che ne prendono in considerazione gli aspetti connessi all’invenzione, alla costruzione e all’uso delle macchine e degli strumenti scientifici. La rappresentazione che di solito se ne dà è infatti quella di un’epoca caratterizzata da straordinarie acquisizioni artistiche, architettoniche, letterarie e filosofiche, ma dove scienza e tecnologia appaiono del tutto marginali. Un mondo insomma senza macchine e strumenti, o quasi. Anzi, secondo una resistentissima tesi storiografica, condannato a una «stagnazione tecnologica», dovuta al disprezzo del lavoro manuale, all’ampia disponibilità di schiavi e alla presunta incapacità di mettere in proficua relazione teoria e pratica.
Con una notevole padronanza delle fonti primarie e avvalendosi dei risultati delle ricerche condotte negli ultimi anni, Giovanni Di Pasquale smentisce questa tesi. E ci racconta una storia diversa, dalla quale l’antichità emerge come una realtà assai dinamica, dove le conoscenze scientifiche e tecnologiche rivelano un grado di sviluppo più elevato di quanto si pensi.
Certo, delle macchine antiche non si è conservato quasi nulla, essendo fatte prevalentemente di legno e di corde di nervo, ossia di materiali deperibili. E la stessa sorte è toccata agli strumenti scientifici, come quelli impiegati nell’osservazione astronomica, che erano molto più delicati e dunque ancor meno resistenti.
Ma qual è dunque l’immagine che dobbiamo farci delle civiltà che si affacciavano sulle sponde del Mediterraneo durante l’epoca classica, ellenistica e romana? Di Pasquale non ha dubbi. Già dal III secolo a.C., un viaggiatore che avesse attraversato in lungo e in largo questo grande mare si sarebbe trovato di fronte a un paesaggio che era stato costruito e trasformato dall’uomo: vasche per la premitura delle uve, ruote idrauliche, torchi a leva, macine, segherie per il taglio delle lastre di pietra, gru, botteghe, officine, cantieri edili e navali. Ma si sarebbe anche imbattuto negli spettacolari teatrini di automi, così come in torri d’assedio mobili, catapulte e baliste, che venivano sfoggiate negli arsenali del tempo, smontate e pronte per essere assemblate.
Il libro di Giovanni Di Pasquale è una sorta di invito al viaggio tra le isole e le penisole che si addentrano nel Mediterraneo, che non esita a definire il «paese delle macchine». Tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C., Archimede, Filone di Bisanzio, Vitruvio ed Erone di Alessandria ci hanno lasciato testimonianze preziose sui principi che ne governavano il funzionamento e il processo costruttivo. Ma le loro opere rappresentano l’elaborazione più alta, l’ambizione teorica, dietro cui si celano le fondamentali esperienze di generazioni e generazioni di tecnici rimasti anonimi, di quelli cioè che le macchine e gli strumenti li facevano con le loro mani. Se ci si dimentica di questi tecnici, della perfezione esecutiva da essi raggiunta, osserva Di Pasquale, i complicati congegni pneumatici e i raffinati meccanismi a ingranaggi astronomici continueranno a essere considerati oggetti misteriosamente estranei alla civiltà antica.
Giovanni Di Pasquale non si limita a presentare un’analisi dettagliata, approfondita e perspicace della scienza e della tecnologia antica. Ci invita anche, facendo proprio l’insegnamento di Braudel, a rivolgere uno sguardo «ai gesti ripetuti, alle storie silenziose e quasi dimenticate dagli uomini, alle realtà di lunga durata il cui peso è stato immenso, ma il rumore appena percettibile». Sono i «gesti» e le «storie silenziose» di tutti quegli artigiani del passato che sono rimasti senza nome e che, costruendo macchine e strumenti, hanno realizzato sogni e vinto sfide considerate impossibili.
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