giovedì 6 febbraio 2020
Una storia degli Asburgo e una storia della loro strategia militare
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Il tempo lungo degli Asburgo
XIX secolo /1. Un flessibile ma intelligente sistema di alleanze, accanto alla scelta strategica di battaglie sempre difensive, ha consentito all’impero di rimanere al centro della scena
Luigi Mascilli Migliorini Domenicale 29 3 2020
Avendo
lungamente combattuto al servizio degli Asburgo, Eugenio di Savoia
aveva le idee ben chiare. «Fate attenzione –scriveva al suo imperatore -
la vostra monarchia è un po’ sparpagliata: si estende a Nord, a Sud e a
Est. Ed è anche al centro dell’Europa». Siamo a cavallo tra il XVII e
il XVIII secolo e la monarchia asburgica si è già da tempo insediata nel
cuore frammentato del nostro continente, dove i secoli hanno, più che
altrove, spiaggiato in disordine popoli, lingue, etnie.
Si
trova, cioè, nel bel mezzo di un «caos geopolitico» come lo definisce
l’autore di questo libro che sembra riprendere a distanza di quasi
settant’anni quell’autentico capolavoro che rimane ancora oggi A world restored (La diplomazia della Restaurazione
nell’assai meno suggestivo titolo dell’edizione italiana) di Henry
Kissinger. Anche Wess Mitchell è americano e, sebbene abbia studiato
alla Freie Universitat di Berlino,non ha le radici europee che aveva
Kissinger e che conferivano alle sue pagine uno straordinario sapore di
dialogo interiore di un uomo nel quale vivevano due mondi e due culture.
Come lui, però, ha avuto importanti responsabilità nell’amministrazione
degli Stati Uniti. Dal 2017 al 2019 è stato Assistant Secretary State
per gli affari europei ed eurasiatici e come Kissinger ha sentito il
bisogno di studiare da vicino i meccanismi di quello che rimane –ce lo
ricorda lui stesso- uno dei più longevi Imperi della storia
dell’Occidente: seicento anni, cioè due secoli e mezzo più dell’Impero
britannico, due secoli più dell’Impero romano e tre secoli e mezzo, di
quello americano. Allo stato attuale, perché il problema degli Stati
Uniti è arrivarci, cioè durare, e questo rende irresistibile il mondo
degli Asburgo agli occhi di un analista d’Oltre Atlantico del XXI secolo
e fa di questo libro l’esatto contrario di quel melanconico tramonto,
di quel mito del “mondo di ieri” o della finis Austriae, a cui da buoni intellettuali europei noi, invece, non riusciamo o non vogliamo sottrarci.
Risulta,
insomma, assai stimolante la sorte di un Impero che quasi al suo
nascere (pare che la frase appartenga a Mattia Corvino, l’elegante
sovrano rinascimentale di Ungheria che fu anche re di Boemia e duca
d’Austria) già reca a sua insegna un motto - Gerant alii bella, tu Felix Austria nube -
che si può considerare il più straordinario manifesto di pacifismo
dinastico o, se si preferisce, la più innocente dichiarazione di
debolezza militare che una grande forma politica si sia concessa. Le
guerre, infatti, in cui si distinse il coraggio di Eugenio di Savoia
furono tra le non molte, e tra le più vittoriose, che l’Impero degli
Asburgo si trovò ad affrontare nella sua storia plurisecolare. Quelle
vittorie coincisero, peraltro, con quello che Mitchell chiama
«l’apertura del secondo fronte» destinato a rappresentare, per
l’Austria, un totale cambiamento di prospettiva.
Agli inizi del
Settecento, con la fine del ramo spagnolo della dinastia, e l’ascesa sul
trono di Madrid di un sovrano francese della dinastia Borbone, quella
che in geopolitica si definisce una potenza a collocazione geografica
interstiziale e che gli intellettuali austriaci della metà
dell’Ottocento amavano più poeticamente chiamare «la Cina dell’Europa»,
viene a trovarsi pericolosamente esposta su più e più fronti. Non si
tratta più di essere il baluardo cattolico contro l’avanzata dell’Impero
ottomano islamico. Ora gli Asburgo sono davvero “al centro
dell’Europa”, governando un territorio assai esteso (ai primi
dell’Ottocento un reggimento di fanteria impiegava dalla capitale 31
giorni per raggiungere Verona, 24 per arrivare a Belgrado e 42 a
Budapest) popolato da una dozzina di nazionalità di diverse lingue,
tradizioni e credi religiosi, dalle limitate risorse economiche e dalla
strutturale fragilità dei suoi apparati militari. È più un arcipelago
che un sistema politico –osserva Mitchell- costruito a grappolo intorno a
quel cuore dell’Impero, intorno al Danubio che sono gli Stati ereditari
di casa d’Austria e poi le terre della corona di Boemia e il regno di
Ungheria. Eppure questo arcipelago, esposto a tutti i conflitti del
XVIII secolo, della Rivoluzione e di Napoleone, cent’anni più tardi, nel
congresso che si tiene appunto a Vienna, è diventato la potenza-chiave
dell’Europa, il centro di gravitazione dell’equilibrio continentale e
mediterraneo.
Tutto questo è accaduto grazie alla costruzione di
un flessibile, ma intelligente sistema di alleanze. Il conte di Kaunitz
prima e il principe di Metternich poi, sono gli eroi di una diplomazia
raffinata, una vera e propria arte, spinta fino alla spregiudicatezza
come accade in quel capolavoro che è il matrimonio di Napoleone con
Maria Luisa, giovanissima figlia dell’imperatore d’Austria Francesco,
che nel mobile sistema degli equilibri europei consente all’Impero di
Vienna di rimanere sempre in piedi e al centro della scena. Vi si è
accompagnata una filosofia, per così dire, dell’uso delle armi, una
scelta strategica di guerre e di battaglie sempre difensive che farà
indignare, negli anni in cui Napoleone mieteva vittorie grazie a una
spiccata propensione offensiva, quel genio dell’arte della guerra che è
Clausewitz. Ma dà ragione all’arciduca Carlo d’Asburgo, che pure di
eserciti, soprattutto di quello che aveva al suo comando, ne capiva e
che mentre Clausewitz strepitava, scriveva piuttosto: «il principale
compito della guerra difensiva è guadagnare tempo».
Tempo è la
parola segreta di un Impero che Metternich non solo riesce a portare
all’apice della sua potenza proprio all’indomani di tre catastrofiche
sconfitte e due occupazioni della capitale, inflittegli da Napoleone, ma
riesce a farlo durare ancora per cento anni. Il sistema di Metternich,
ricorda Paul Schroeder, un altro storico americano sedotto dalla felix Austria,
era un catamarano, «una imbarcazione leggera, fragile ma mobile e
capace di stare a galla col suo vulnerabile centro tenuto al di sopra
dei flutti da bilancieri collocati su ambo i lati e bisognoso di
costante attenzione marinaresca per non essere travolto». Nessuna
sorpresa se questo agile vascello ondeggi quando in Europa comincia
soffiare di nuovo un vento forte, quando il sentimento nazionale gira a
burrasca e un giovane, smanioso conte di Bismarck va dicendo che ci
vogliono il sangue e il ferro e non le felpate armi del principe di
Metternich per risolvere il problema della Germania. Ondeggia fino al
naufragio, come raccontano le immagini di Senso, come scrive
Musil della sua “Cacania”? Mitchell su questo non è d’accordo. La sua
attenzione all’Impero asburgico come modello lo porta a credere che per
l’Austria allora, per l’Occidente e per l’Europa oggi, per sistemi cioè
di grande complessità e di circoscritte possibilità di risposta militare
i problemi –sono le ultime righe del suo libro- «di rado possono essere
risolti, più spesso gestiti».
Il tempo impone, quindi, un totale
rovesciamento del metro di giudizio. Tentati di concludere tra Visconti e
Roth, Mitchell ci obbliga, guardando ad oggi, ad un’altra citazione. È
di Churchill, che anche lui di diplomazia e di guerra se ne intendeva:
«Non c’è uno dei popoli o delle province che costituirono l’impero degli
Asburgo a cui conquistare l’indipendenza non abbia causato le torture
che gli antichi poeti e teologi riservavano ai dannati». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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