lunedì 16 marzo 2020

Alcuni testi di Tony Judt 10 anni dopo

Tony Judt: Quando i fatti (ci) cambiano, Laterza,Bari-Roma, pagg. 412, € 28

Quanto ci manca Tony Judt
Grandi storici. Gli scritti dello studioso scomparso dieci anni fa ne confermano profondità d’analisi e preveggenza:dalla Guerra fredda alla crisi della socialdemocrazia, dall’ascesa del neoliberismo ai limiti del progetto europeo
Mario Ricciardi Domenicale 15 3 2020
«La Londra postbellica, dove sono cresciuto, era un mondo alimentato dal carbone e azionato dal vapore, nel quale i venditori ambulanti usavano ancora i cavalli, le automobili erano rare e i supermercati (e gran parte di ciò che vendono) sconosciuti. Per la sua geografia sociale, il clima e l’ambiente, le relazioni di classe e gli allineamenti politici, le attività industriali e l’abitudine alla deferenza sociale, nel 1950 Londra sarebbe stata immediatamente riconoscibile a un osservatore di mezzo secolo prima». Questo brano, che apre la recensione di un libro di John Lewis Gaddis sulla Guerra Fredda, restituisce con efficacia una delle caratteristiche di Tony Judt. Storico della contemporaneità, una categoria dai confini continuamente rimessi in discussione, Tony aveva il dono di riportare alla vita il passato recente, mostrando quanto esso sia ancora qui, a condizionare il nostro modo di parlare, di pensare e di vivere. Quando si venne a sapere della malattia che lo avrebbe portato alla morte, a soli sessantadue anni, nel 2010, ne fui profondamente colpito.
Tony era un uomo straordinariamente attivo e vitale, sempre in movimento tra le due sponde dell’Atlantico, e si scopriva affetto da un male che lo avrebbe lentamente privato della possibilità di muoversi, e infine di parlare, ma senza togliergli la lucidità, per poi ucciderlo. Un destino crudele. Chiunque altro sarebbe stato schiacciato da questa sentenza di morte, ma non lui. Al contrario, gli ultimi mesi di vita, ormai confinato a letto, privo della possibilità di parlare, furono una lotta contro il tempo per portare a termine il libro sul Ventesimo Secolo che poi vide la luce postumo nella forma di un’intervista con Timothy Snyder (Novecento, Laterza, 2012).
Lo stesso editore che ha pubblicato quel volume, e buona parte dei lavori più importanti di Tony Judt, ci mette ora a disposizione una raccolta di scritti (recensioni e saggi) del periodo che va dal 1995 al 2010. Si tratta di un genere letterario poco praticato dagli storici italiani, che prediligono le monografie, ma che si adattava splendidamente alla inesausta curiosità di Tony, un lettore instancabile e vorace, che padroneggiava diverse lingue, e aveva familiarità con buona parte dei grandi dibattiti della cultura europea del Novecento. Con lui si poteva conversare di teoria politica e di letteratura, di istituzioni e di fenomeni di costume, sempre imparando qualcosa.
Era cresciuto nella Londra del dopoguerra, traendo beneficio, come egli stesso ha ricordato, da un sistema di educazione pubblica (ormai quasi del tutto smantellato da anni di riforme neoliberali) il cui scopo era dare opportunità a giovani promettenti ma privi di mezzi. Diversamente da buona parte dei suoi colleghi (aveva studiato a Cambridge) si era lasciato alle spalle il Regno Unito per misurarsi con altri ambienti. Parigi, dove si era formato all’Ecole Normale Supériore, e poi gli Stati Uniti. Quando l’ho conosciuto era professore di European Studies alla New York University, dove dirigeva il Remarque Institute, un centro il cui compito era promuovere il dialogo tra Stati Uniti ed Europa. Tra le iniziative cui teneva di più c’erano i seminari residenziali di Kandersteg, in Svizzera, dove giovani studiosi provenienti da diversi Paesi si incontravano per discutere di temi di interesse comune. Dopo le sessioni di lavoro, cui partecipava con intelligente discrezione, facendo in modo che la discussione procedesse fluida, anche quando si affrontavano argomenti “sensibili” (poco dopo l’11 settembre c’era solo l’imbarazzo della scelta), Tony proponeva spesso una passeggiata nei dintorni, per continuare la conversazione.
Sfogliando Quando i fatti (ci) cambiano, ritrovo molti dei temi che ci appassionavano nel corso di quelle passeggiate: il 1989 e le sue conseguenze, la Guerra Fredda, le diverse culture politiche europee, l’ascesa del neoliberalismo e la crisi della socialdemocrazia. Grandi intellettuali come Leszek Kolakowski, François Furet, e Isaiah Berlin. Un autore amato da entrambi, col quale credo Tony avvertisse una speciale affinità, per via di un percorso simile: ebrei europei le cui famiglie erano state private di una patria dal Nazismo e dalla guerra, che avevano trovato rifugio in un’Inghilterra che, prima ancora che un Paese, era un luogo dello spirito. Quel Paese sospeso tra un passato di grande potenza e un presente di declino, che affiora in diversi saggi di questa collezione, e che tuttavia riscattava il proprio passato coloniale con la sua cultura liberale.
Tra gli altri, credo siano due i saggi da segnalare in questa raccolta per la loro attualità. In primo luogo «Europa: la grande illusione», una disamina lucidissima e urticante dei limiti del progetto europeo, scritta da un intellettuale che, come lui stesso diceva, non era affatto un euroscettico, ma un europessimista. Cioè una persona che cercava di andare oltre la retorica per portare alla luce i conflitti di interesse, le miopie, gli errori che mettevano in pericolo il sogno europeista. Pagine che rilette oggi, dopo la crisi del 2008, mentre i migranti vengono respinti al confine greco, e in un’Italia in lockdown per via del coronavirus, sono sinistramente preveggenti.
Seguendo l’esempio dei grandi intellettuali del Novecento alla cui lezione si era formato, Tony Judt era convinto che il compito dell’intellettuale non sia di fare l’apologeta di una politica, anche se il progetto di cui si parla è animato dalle migliori intenzioni. Chi studia e ragiona deve mantenere la capacità di mettere in luce gli errori della politica, per aiutarla a correggerli. Per questo non si può avere una democrazia sana senza intellettuali indipendenti e senza una sfera pubblica vivace.
L’altro saggio che consiglio ai lettori è «Che cosa è vivo e cosa è morto nella socialdemocrazia?». Anche in questo caso si tratta di un testo profetico. Scritto nel 2009, a pochi mesi dal crollo di Lehman Brothers, denunciava con efficacia il vuoto lasciato, dopo il 1989, dall’eclissi del socialismo nella politica occidentale. Un vuoto che andava colmato in qualche modo, ammoniva Judt, perché solo così saremmo riusciti a preservare il compromesso virtuoso che ci ha regalato decenni di coesistenza pacifica tra Capitalismo e democrazia. Quando Tony scrisse quel saggio, Bernie Sanders era un politico democratico quasi sconosciuto fuori dal Vermont, e Alexandria Ocasio-Cortez una ventenne alle prese con la scelta di un futuro. L’ammonimento con cui si chiude quel saggio sulla socialdemocrazia fa riflettere: «Perché abbiamo avuto tanta fretta di indebolire le dighe laboriosamente innalzate dai nostri predecessori? Siamo così sicuri di non andare incontro a inondazioni?». Come molti altri, in questi anni mi sono chiesto cosa avrebbe detto Tony della Brexit, di Trump, dei muri (lui che era uno che intellettualmente non conosceva confini, e sapeva costruire ponti tra culture).
Leggere questo libro non può colmare il vuoto che Tony Judt ha lasciato, ma ci aiuta a guardare avanti, come lui ha sempre fatto, perché «se si vuole davvero cambiare il mondo, bisogna essere pronti a lottare a lungo». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Se la Storia viaggia contromano 
In questa raccolta postuma di articoli Tony Judt, studioso d’alta scuola anglosassone, ripercorre gli errori commessi dalla sinistra occidentale: dalla caduta del Muro di Berlino alle Torri Gemelle a, quasi, oggi. Una lezione imperdibile
di Pino Corrias Robinson 4 4 2020
Una trentina di saggi imperdibili, scritti per sciogliere il labirinto del nostro ultimo mezzo secolo di Grande Storia che ci ha infine accerchiato. Dalla caduta del Muro di Berlino a quasi oggi, passando per la cenere delle Torri Gemelle, il terrorismo globale, il capitalismo globale, l’insicurezza globale respirata come una malattia ( e molto in anticipo su quella vera) da opinioni pubbliche che sognano il mondo di prima, mentre precipitano in quello di domani. E poi il groviglio che imprigiona il Medio Oriente, culla di tutte e tre le religioni avvelenate dall’odio e dal petrolio, l’estremismo islamico, il superpotere di Israele e il superpotere dell’America, entrambe rischiando il comune destino di finire sconfitte dalle loro stesse vittorie.
È una boccata di ossigeno questa raccolta postuma di articoli di Tony Judt, storico d’alta scuola anglosassone, scomparso dieci anni fa, per malattia senza rimedio, titolo: Quando i fatti ci cambiano — Saggi 1995- 2010, appena pubblicati da Laterza ( traduzione di Paola Marangon, 440 pagine). Un prezioso rendiconto, specialmente per il lettore italiano, su come e dove la sinistra occidentale ha progressivamente smarrito la sua identità, convertendosi, dopo l’ 89 e gli equivoci sulla fine della storia, al libero mercato come unico perimetro sociale. Accettando in modo acritico la globalizzazione, il precariato di massa, la riduzione del Welfare e dei diritti, “ l’illusione di una crescita senza fine”, il “ disprezzo per il settore pubblico” stigmatizzato per la sua inefficienza. E insomma la « religione dell’unico modello di sviluppo » narrato negli anni di Margareth Thatcher e Ronald Reagan — quando dicevano: « una cosa chiamata società non esiste, esistono gli individui» — e poi recitato in copia conforme da Bill Clinton e Tony Blair arresi anche loro al nuovo motore della storia. Una storia piegata non più alla prospettiva sociale, ma solo « a favore di quella economica » . Senza curarsi delle diseguaglianze che stavano avvelenando il Ventunesimo secolo, nel quale « le ricchezze si accumulano e gli uomini vanno in rovina » . E l’autoritarismo populista forza « le lentezze della democrazia » sotto le spinte emotive degli elettorati. Tutto visto in anticipo, tutto narrato con lucidità. Compresa la moltiplicazione dei conflitti, la rinascite delle polizie private, dei mercenari, scomparsi con gli Stati nazione, e rinati in forma di Contractor e dispiegati sui fronti delle “ guerre umanitarie”.
Pensatore indipendente, ebreo cosmopolita, Tony Judt nasce a Londra nel 1948 con radici polacche, lituane, belghe. Si forma alla scuola di Eric Hobsbawm, ultimo grande storico marxista, da cui si distaccherà con il suo lavoro più celebre Postwar — 1945- 2005, opera monumentale con le sue mille e passa pagine, probabilmente il miglior libro mai scritto sulla Guerra Fredda che congelò l’Europa e il mondo in due blocchi inconciliabili, eppure complementari.
Ammiratore di George Orwell e specialmente di Albert Camus, di pensatori eccentrici come Hanna Arendt e Primo Levi, insegnerà nelle università americane, dopo una esperienza in Israele ( nei kibbutz) e a Cambridge, maturando un distacco sempre più critico nei confronti del neoliberismo, dell’America ossessionata dalle armi e dal narcisismo, dell’aggressività territoriale israeliana che non consente soluzioni. Tema al quale, anche in questo libro, dedica una intera sezione, “ Israele, l’Olocausto e gli ebrei”, rimproverando agli israeliani la loro ostinazione a considerarsi ancora oggi « una piccola comunità di vittime che si difende con moderazione e controvoglia da immani avversità » e non la quarta potenza militare del mondo, armata di dissuasione nucleare.
Innamorato dei fatti, analizzati con levigata scrittura — «scriveva per otto ore filate al giorno con la porta chiusa » , ricorda la moglie Jennifer Homans nell’introduzione — Judt è uno di quegli storici che insegnano a fare storia, mentre la raccontano, svelando come si usano gli archivi e le fonti, come si analizza la cronologia, quanto possano ingannare le diatribe strumentali o ideologiche. Senza per questo negarsi la soddisfazione di non stare dalla parte del torto: « Chi fra noi si oppose all’invasione dell’Iraq, oggi non può trovare conforto nelle sue catastrofiche conseguenze » . Perché sono le conseguenze il fine ultimo dello storico, il passato che spiega il presente, preparando il futuro. Sul quale Tony Judt, nei suoi ultimi due anni di malattia, non si faceva troppe illusioni: « Stiamo assistendo alla dissoluzione di un sistema internazionale » , scrive nel 2003, con la fine degli impegni internazionali sui rifugiati, le convenzioni sul controllo delle armi, contro i genocidi e i crimini di guerra. Un futuro che ci riguarda talmente da essere già diventato il nostro passato.
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Cambiare le opinioni quando cambiano i fatti
Sebastiano Maffettone Domenicale 5 4 2020
Per Tony Judt (1948-2010), grande intellettuale e storico, confesso di avere sempre avuto un debole. Il suo libro Postwar è un formidabile manifesto eretto alla capacità di ricostruzione dell’Europa dopo il 1945, che si può ben leggere oggi anche con il pensiero rivolto al futuro dopo il coronavirus. I suoi saggi su «New York Review of Books» e gli articoli sul «New York Times» hanno sempre spaziato, con intelligenza acuta e profonda cultura, sui grandi problemi del mondo.
Tratto comune del tutto una enorme semplicità stilistica congiunta alla serietà delle analisi che ritroviamo inalterato in questo Quando i fatti (ci) cambiano. Un libro di saggi su temi vari che vanno dall’Olocausto alla politica di Israele (su cui lui, Judt, pur ebreo, è molto critico), l’Europa e i suoi non pochi problemi, il declino del superpotere americano e il formarsi del nuovo ordine mondiale, il tramonto della socialdemocrazia e i problemi dell’innovazione, alcuni ritratti di intellettuali (Furet, Kolakowski, Elon).
Sull’intero arco di questioni, possiamo dire che Judt prenda sul serio il monito di Keynes che ispira il titolo del libro «Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Lei che fa?».
Letterariamente parlando, forse il capitolo più notevole è il 14, Sulla Peste. In esso, Judt discute de La Pestecdi Albert Camus, cosa che costituisce purtroppo un’occasione in più per leggerlo di questi tempi. La peste di cui parla Camus ha luogo a Orano in Algeria (Camus era nato in Algeria). Il libro fu letto a suo tempo (1947), e con ogni probabilità giustamente, come una metafora del periodo dell’occupazione nazista della Francia. Il Nazismo è la Peste, in altre parole. Ma i protagonisti sono gli appestati, cioè i francesi e le loro reazioni all’invasione. Camus è molto moderato nei suoi giudizi e per niente moralistico. L’eroe della storia, se così si può dire, il dottor Rieux, ha per caratteristica principale quella di essere «stanco del mondo in cui viveva» e sente un’unica certezza, quella di provare «un debole per i suoi simili».
Sull’Europa, Judt insiste sul declino post 1989 in un serrato dialogo critico con Hossbawm. Quest’ultimo, per ragioni politiche, avrebbe sostanzialmente sottovalutato gli effetti nefasti della dittatura sovietica a casa e in Europa Orientale. La critica alla politica dello stato di Israele è -come si diceva- aspra e senza indulgenze. Per Judt, i palestinesi hanno tutto sommato ragione a considerare gli israeliani più o meno alla stregua di come gli algerini consideravano i francesi ai tempi della guerra di liberazione. E gli israeliani devono smettere di considerarsi come una piccola minoranza di vittime (dell’Olocausto) ricompensati da un diritto divino al territorio dove ora stanno. La crisi dell’egemonia statunitense, che Judt riprende sulla scia di Joseph Nye, si somma a quella dell’ordine mondiale a cominciare dal declino dell’Onu. Tra le righe, Judt arriva a sostenere anche che il supercapitalismo ha divorato la democrazia, e che l’innovazione può essere pericolosa.
Intrigante appare anche l’analisi della crisi della socialdemocrazia. Fatto è però che una lista di temi interessanti, trattati per giunta in maniera intelligente, non esaurisce di certo il valore di questo libro. Per chi non ci credesse, l’invito è leggerlo magari con la stessa simpatia da cui io stesso ho preso le mosse. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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