lunedì 16 marzo 2020

Compagnia delle Indie e Impero britannico: Dalrymple

William Dalrymple: The Anarchy. The East India Company, Corporate Violence and the Pillage of an Empire, Bloomsbury, London, pagg. 544, € 33

Compagnia delle Indie, tra fatti e misfatti
Ugo Tramballi Domeniale 15 3 2020
Nel 1614 la potenza di Jahangir rivaleggiava con i Ming cinesi, quando alla sua corte si presentò Sir Thomas Roe, in nome di un’impresa fondata quindici anni prima a Londra mentre William Shakespeare scriveva l’Amleto. Dall’Afghanistan all’attuale Bangladesh, l’imperatore Mogul governava su 100 milioni di sudditi e produceva un quarto della manifattura mondiale. La popolazione inglese era il 5% della sua.
L’azienda di Sir Roe, chiamata Compagnia delle Indie Orientali, possedeva un ufficio con cinque finestre nel centro di Londra e i suoi 218 soci faticavano ad armare una nave che tornasse dall’Asia con «fine cotone, indaco e chintz». Pochi anni dopo la Compagnia avrebbe garantito dividendi del 3.600 per cento; un secolo dopo avrebbe preso l’intero subcontinente indiano con un esercito di 200mila uomini in gran parte sepoy, mercenari locali. Nel 1786 il filosofo e statista Edmund Burke avrebbe definito la Compagnia «uno stato a guisa di mercante». Fu il suo tè esportato dal Bengala e buttato dai ribelli nelle acque del porto di Boston, a innescare la Rivoluzione americana. Come scrisse John Dickinson, uno dei fondatori degli Stati Uniti, la Compagnia «voleva mettere gli occhi sull’America come nuovo teatro, dove esercitare il suo talento per il saccheggio, l’oppressione e la brutalità». Prima di diventare duca di Wellington e battere Napoleone a Waterloo nel 1815, il giovane Arthur Wellesley aveva guidato l’esercito della Compagnia e conquistato «più territori in India, e più rapidamente, di quanto Napoleone stesse facendo in Europa».
«Il loro business assomiglia più a una rapina che a un commercio»; hanno «assassinato, deposto, saccheggiato, usurpato», secondo Horace Walpole, contemporaneo di Bur-ke. Ma la Compagnia fu il motore dell’imperialismo britannico. «Isolati dai vicini campi di battaglia» dell’Europa cattolica, «gli inglesi furono costretti a setacciare il globo per trovare opportunità commerciali. Lo fecero con entusiasmo piratesco», scrive William Dalrymple in The Anarchy. La sua storia della East India Company non è solo il racconto di una vicenda drammatica e ripugnante. È anche un grande affresco della potenza britannica spinta dalla sua avidità e parzialmente redenta dalla sua democrazia; della lenta caduta della magnificenza Mogul; della coraggiosa resistenza del raja di Mysore a Sud e della confederazione Maratha a Ovest; di un saccheggio senza limiti. Robert Clive, diventato “Clive of India”, fu il primo governatore a conquistare territori, uccidendone i nawab, i ricchi governanti. «Dobbiamo essere noi stessi nawab, nei fatti se non nel nome: arretrare è ormai impossibile», decise in un incontrollabile delirio di onnipotenza.
Una quarantina d’anni più tardi, quando anche il resto dell’India finì sotto il controllo rapace della Compagnia, Thomas Munro, un altro governatore, annunciò che «ora siamo i pieni padroni dell’India e niente può scuotere il nostro potere». La Compagnia sopravvisse ai suoi debiti, immensi quanto i guadagni, a scandali e processi, alle interrogazioni parlamentari. Ma la Storia non conosce misure adeguate che la congelino per troppo tempo.
Il 10 maggio 1857 l’esercito privato di sepoy che aveva combattuto per trasformare la Compagnia in impero, «si ribellò contro il suo datore di lavoro». Per gli inglesi fu l’ “Indian Mutiny”, per gli indiani la Prima Guerra d’Indipendenza. La Compagnia passò sotto il controllo della regina Vittoria nel 1859. Sopravvisse per altri quindici anni. Chiuse per sempre nel 1874 «con meno fanfara della bancarotta di una ferrovia regionale».
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