lunedì 9 marzo 2020
Lingua materna ma soprattutto liberalismo conservatore in Hannah Arendt, guerriera freddissima
Hanna Arendt: La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale
a cura di Alessandro Dal Lago, Mimesis, Milano, pagg. 112, € 10
Il coraggio di parlare nella lingua materna
Hanna Arendt. Emigrò in un Paese anglofono ma non dimenticò il tedesco
Anna Li Vigni Domenicale 8 3 2020
Essere
donna. Essere intellettuale. Essere ebrea. Essere Hanna Arendt. La sua
voce risuona densa di suggestioni critiche – a tratti profetiche - per
noi europei del XXI secolo, che non abbiamo visto lo scempio dei
totalitarismi, che non conosciamo il trauma dell’Olocausto, ma stiamo
ancora imparando a riconoscere e ad affrontare le emergenze del presente
globalizzato. Per questo dovremmo leggere la trascrizione
dell’intervista televisiva che Arendt concesse al giornalista tedesco
Günter Gaus il 28 ottobre del 1964. Il testo, di un’attualità
sconvolgente, è intitolato La lingua materna.
1964: Arendt
è docente in un’università americana e vive a New York. L’onda d’urto
dei plausi, ma soprattutto delle pesanti critiche al suo volume sul
processo al gerarca nazista Eichmann La banalità del male è travolgente.
Sono già fondamentali le sue considerazioni sul male storico perpetrato
dai singoli individui, non fondato sulla libera scelta, bensì sul
conformismo frutto di inconsapevolezza morale.
1964: Arendt è la prima donna a prendere parte a un talk show
tedesco «impegnato» e le sono rivolte domande che oggi suonano ingenue,
come ad esempio se il suo essersi dedicata alla filosofia, «professione
solitamente riservata agli uomini», non sia per lei una sfida volta
all’emancipazione. La risposta è provocatoria, ironica e senza fronzoli.
Con un atto di umiltà socratica, dichiara di non essere affatto una
filosofa, bensì una teorica che intende guardare alla politica «con
occhi sgombri dalla filosofia». La filosofia occidentale tradizionale,
infatti, incentrata sulla metafisica, porta con sé la responsabilità di
troppi astrattismi che obnubilano il pensiero rivolto alla prassi
politica.
Certo, la filosofia è stata il primo grande amore per
la giovane ebrea tedesca che a 24 anni divenne allieva e amante a
Marburgo del discusso - per il suo successivo allineamento col pensiero
nazista - professor Heidegger: «In ogni modo, per me la questione era la
seguente: o studio filosofia o sono finita. (…) È il dovere di
comprendere». In questo dovere intellettuale della comprensione si
radica la forza della sua fede nella Ragione umana, intesa quale
baluardo per difendersi da qualunque forma di barbarie.
Così le ha insegnato il maestro Karl Jaspers, sulla scia del motto di Kant «Sapere aude!»:
abbi il coraggio di usare la Ragione! Ed è proprio della ragione e del
senso comune che la Arendt lamenta la progressiva perdita nel mondo
contemporaneo a partire dalla seconda metà del ’900: ne è figlia
un’umanità sradicata, svincolata dal mondo e quindi dal vero senso
politico della vita, un’umanità individualista che celebra il «trionfo
di un tipo umano il quale trova soddisfazione solo nel lavoro e nel
consumo».
Arendt si racconta. La collaborazione, nel 1933, con un
movimento sionista, per il quale raccoglieva testimoniante antisemite.
L’arresto e il rocambolesco rilascio, grazie a un ufficiale nazista di
buona volontà. La fuga a Parigi, dove si dedicò a organizzare l’invio di
bambini ebrei in Israele.
Poi, nel 1943, l’esilio negli Usa. La
coscienza della propria condizione di ebrea - fondamentale per lo
sviluppo del suo pensiero politico - le si era palesata già coi primi
insulti antisemiti da parte di altri ragazzi: «Vede, tutti i bambini
ebrei hanno avuto a che fare con l’antisemitismo. La differenza per noi
era che mia madre partiva sempre da questo presupposto: non bisogna
abbassare la testa!». Se il coraggio è una qualità della Ragione, la
madre di Hanna - una giovane vedova di fede socialista, perfetta
incarnazione dell’energica matriarca ebrea - era una donna piena di buon
senso e coraggio. Le insegnò a difendersi dalla prima violenza
perpetrata ai danni degli ebrei, quella di produrre in loro una profonda
disappropriazione linguistica.
Per moltissimi ebrei, il tedesco -
loro lingua madre - improvvisamente divenne un nemico, al punto che
tanti esuli finirono per dimenticarlo in una sorta di rimozione. Ma non
Hanna. Lei ha continuato ad amare il tedesco, con coraggio e
ragionevolezza, a sentirlo sua lingua madre, anche quando è emigrata in
un paese anglofono.
Per questo ci consegna questa testimonianza
unica, ancora più preziosa per noi che viviamo in un mondo in cui sempre
più si accantona il proprio idioma per balbettare il globish:
«Mi dicevo: non è la lingua tedesca a essere impazzita! E poi non
esistono alternative alla lingua materna. (…) perché la creatività
linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua».
Nel suo esilio americano, la pariah consapevole Arendt ha elaborato una visione ampia e pluralista della politica - la politeía -
che trascende l’appartenenza a un’etnia o a una nazione, ma che mira
alla collaborazione fra esseri umani. In tale progetto un ruolo centrale
spetta alla parola. Alla parola autentica e ragionevole, che per Arendt
è sempre la prima e la più incisiva «forma di azione politica».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento