domenica 1 marzo 2020

Una storia ideologica dell'economia italiana da Bastasin e Toniolo


Carlo Bastasin, Gianni Toniolo: La strada smarrita. Breve storia dell’economia italiana, Laterza, Roma-Bari, pagg. 168, € 16

Per una nuova era di sviluppo


Marco Onado Domenicale 01 03 2020
L’Italia ha smarrito la strada che porta allo sviluppo economico, afflitta da un male ormai cronico che è stato oggetto di molte e contrastanti diagnosi. Ma solo una visione di lungo periodo come quella di questo prezioso libro e solo la profondità analitica (economica, storica e politica) dei due autori poteva rendere in modo così efficace la diagnosi e l’analisi delle cause di fondo.
La lente degli autori è quella delle fasi di convergenza e divergenza che come le correnti sembrano avvicinare e allontanare l’Italia dalla cerchia dei Paesi avanzati. Un club in cui siamo entrati a pieno titolo dopo essere partiti da posizioni a dir poco imbarazzanti. Il nuovo Stato unitario era povero e arretrato, con caratteristiche che oggi definiremmo da terzo mondo. Il reddito pro-capite era la metà di quello britannico; un cittadino su due era sotto il livello di povertà assoluta; l’analfabetismo colpiva il 74% della popolazione con punte dell’86 nel Meridione; la vita media era di 30 anni, anche perché un neonato su quattro non arrivava all’anno di vita.
Non basta. L’Unità d’Italia non fu sufficiente ad accelerare lo sviluppo italiano; anzi per un trentennio il divario si accrebbe, fino a quando tra la fine dell’Ottocento e l’inizio della Grande Guerra, l’Italia agganciò la parte finale della “prima globalizzazione”. Da allora pur con qualche pausa, il processo di convergenza è continuato fino a che alla fine degli anni Ottanta abbiamo raggiunto i Paesi avanzati, almeno per molti degli indicatori di reddito e di benessere. Quando il Pil italiano superò quello della Gran Bretagna della signora Thatcher sembrava che l’ingresso nell’élite mondiale fosse definitivo.
Invece proprio da allora la nostra capacità di crescita si è via via affievolita rispetto agli altri Paesi, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta. Dunque, l’intero periodo post-unitario ci appare oggi come una grande convergenza fra due periodi trentennali di divergenza.
L’evidenza storica è implacabile. L’Italia è oggi afflitta da un morbo che blocca lo sviluppo. Eppure finora molti economisti, come Don Ferrante nei Promessi Sposi, hanno orgogliosamente negato l’ipotesi di una vera patologia e hanno proposto ipotesi consolatorie che i governi pro-tempore (sempre da quel periodo l’Italia è l’unico Paese in cui nessuna maggioranza in carica è stata rieletta) hanno immediatamente fatto proprie, varando politiche che consentivano al più di galleggiare, il che significava abbandonarsi a correnti sfavorevoli. Altri addirittura non esitavano ad attribuire tutte le colpe agli untori di Bruxelles.
La rigorosa analisi degli autori mette l’accento su ben altri fattori. A partire dai punti di fragilità del cosiddetto “miracolo economico” (molto più laicamente i francesi chiamano quegli anni Les trente glorieuses). Erano necessarie grandi riforme per adeguare le istituzioni alle esigenze di un capitalismo avanzato. Invece gli anni Sessanta si aprirono con fatti che segnarono un drammatico deterioramento dei rapporti fra economia e politica: la misteriosa morte di Mattei, la nazionalizzazione dell’energia elettrica che tra l’altro fu concepita con modalità oggettivamente nemiche dello sviluppo del mercato finanziario privato. E il decennio si chiuse con la strage di piazza Fontana che dimostrò quanto l’apparato statale fosse dominato da poteri occulti e fonte di gran parte dei veleni che turbarono gli anni successivi, fino alle infiltrazioni mafiose che gli autori giustamente mettono in primo piano.
Sempre a partire da quegli anni le grandi imprese che avevano portato l’Italia al successo (a cominciare da Olivetti, il nostro gioiello tecnologico) sparirono progressivamente, mentre le piccole e medie imprese che presero il bastone della staffetta produttiva si mostrarono afflitte da una sorta di sindrome di Peter Pan che impediva loro di crescere oltre le soglie richieste da un progresso tecnologico sempre più intenso.
Fatalmente nelle fasi di divergenza il debito pubblico aumenta e con esso la fragilità finanziaria del Paese. Ma proprio sotto questo profilo gli autori ci mostrano la grande opportunità che abbiamo sprecato. Fra il 1994 e il 2007, prima per effetto delle privatizzazioni e della politica dei governi Ciampi e Prodi, poi per la riduzione dello spread nei primi anni dell’euro, il debito pubblico italiano diminuì di ben 27 punti, scendendo sotto la fatidica soglia del 100% e avvicinandosi alla Germania. Il dividendo dell’euro venne però immediatamente speso a partire dall’inizio del nuovo secolo, commettendo un errore fatale. Se avessimo proseguito nel risanamento, al momento della crisi l’Italia avrebbe avuto un debito pari alla Germania e si sarebbe proposta come un “porto sicuro”, cioè nel gruppo dei Paesi “core” e non in quelli periferici, sprezzantemente identificati con l’acronimo Piigs. Per colpa di una strategia miope nei primi anni del secolo, l’Italia è stata colpita duramente dalla crisi e la distanza rispetto ai grandi Paesi è tornata ad aumentare e oggi è pari a quella del 1948. Non è il ritorno alla casella uno del gioco dell’oca, ma poco ci manca.
Proprio la lente interpretativa dell’alternarsi di fasi di convergenza e divergenza porta gli autori a chiudere con una nota di speranza: il Paese ha già vinto sfide a prima vista impossibili. E, va aggiunto, ha un livello di benessere e di ricchezza finanziaria comunque alto, che è stato finora il grande ammortizzatore. Gli autori ci indicano le riforme ancora da compiere (a cominciare dagli investimenti in capitale umano) e i possibili alfieri di una nuova convergenza: il nucleo delle circa 4mila imprese che continuano a mietere successi nei mercati internazionali. Ovviamente è necessario che la politica allunghi i suoi orizzonti e smetta di indicare falsi colpevoli o accontentarsi di soluzioni-tampone.
Perché «la storia economica dei passati successi non potrà salvare l’Italia per sempre». Non a caso è la frase che chiude questo splendido (e inquietante) viaggio lungo più di un secolo e mezzo di storia italiana. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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