sabato 4 aprile 2020
La vita emotiva degli animali è più ricca di quella degli elettori di Salvini
Frans de Waal: L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali, Cortina, Milano, pagg. 390, € 28
Abbracciami almeno tu
Etologia. Per Frans de Waal non è irragionevole adottare un approccio antropomorfico nello studio di animali come le grandi scimmie che ci sono molto vicine. Ma serve cautela
Giorgio Vallortigara Domenicale 5 4 2020
Frans
de Waal ha iniziato dodicenne la sua carriera da etologo notando, di
ritorno da scuola su un autobus dove due ragazzi più grandi erano
impegnati in un bacio appassionato, come una gomma americana che si
muoveva tra le mascelle del ragazzo si fosse improvvisamente
materializzata nella bocca della ragazza. Frans comunica la stringente
conclusione delle sue osservazioni alla madre, la quale, con un certo
imbarazzo, cerca di spiegargli che guardare con insistenza le persone
non è educato. Per riuscire a trasformare la sua passione per
l’osservazione in una professione, il giovane Frans d’ora innanzi si
dedicherà a scrutare i comportamenti dei primati non umani anziché
quelli dei conspecifici.
In questo nuovo libro si coglie la
medesima tensione che era presente nei suoi scritti precedenti, lo
sforzo da parte del grande primatologo olandese di navigare nelle acque
perigliose tra antropomorfismo e «antropodiniego» (anthropodenial),
tra l’accettazione acritica e il rifiuto di riconoscere ad altri
animali le nostre stesse emozioni e attività mentali. Le discipline
neuro-cognitive da sempre mostrano un andamento pendolare tra opposte
tendenze. Basti pensare all’alternante prevalere nel dibattito
natura-cultura ora di un orientamento razionalista, per esempio con il
contributo di Chomsky e della linguistica generativa a partire dagli
anni Sessanta, ora di tipo empirista, dominante oggi grazie al
cosiddetto machine learning e ai temi della plasticità cerebrale. Lo
stesso è accaduto fin dai primordi in etologia e psicologia comparata.
George Romanes, seguace di Darwin, introdusse per primo l’idea che così
come inferiamo dal comportamento delle altre persone le loro esperienze
soggettive, così dovremmo inferire sulla base dei loro comportamenti se
gli altri animali posseggano esperienze soggettive analoghe alle nostre.
Il problema dell’approccio di Romanes non era che fosse
semplicemente antropomorfico, bensì e in sovrappiù antropocentrico,
perché assumeva che l’evoluzione delle capacità mentali dovesse essere
considerata come una progressione lineare ordinata che trova il suo
culmine nella mente umana. A questa concezione si è opposta ben presto
in psicologia comparata la concezione critica di Lloyd Morgan e dei suoi
successori, in particolare degli psicologi comportamentisti
statunitensi, che predicavano come i comportamenti degli animali – di
tutti gli animali, compresi gli esseri umani – dovessero essere
interpretati senza attribuire loro capacità mentali non dimostrate e non
necessarie.
De Waal sostiene, invece, che non è irragionevole
adottare un approccio antropomorfico nello studio di animali come le
grandi scimmie, che sono molto vicini a noi filogeneticamente. Non c’è
dubbio che il comportamentismo si sia trasformato nel tempo da una
raccomandazione di rigore metodologico in una camicia di forza
teoretica. È legittimo, anzi doveroso, ipotizzare meccanismi interni,
processi cognitivi che selezionano, elaborano e conservano le
informazioni tra gli stimoli e le risposte.
Tuttavia io credo sia
importante altresì mantenere una ferma cautela contro ogni forma di
antropocentrismo: capacità cognitive sofisticate sono rintracciabili
ovunque nel regno animale, dall’octopus al pollo, dall’ape alla
cornacchia, e sarebbe un grave errore credere che il fatto di esserci
contigui filogeneticamente costituisca per alcuni animali la garanzia di
una loro maggiore sofisticazione cognitiva.
Quel che mi pare
davvero interessante è cercare di comprendere come mai e in virtù di
quali meccanismi si manifesti negli esseri umani questa inclinazione
all’antropomorfismo. Qualche anno fa proprio su queste colonne
raccontavo di un caso paradigmatico che aveva coinvolto gli stessi
etologi, cioè i professionisti dello studio del comportamento animale. A
pochi mesi di distanza due gruppi indipendenti di ricercatori
riferivano comportamenti molto simili in due specie diverse: ratti che
aprivano lo sportellino di un contenitore di plastica in cui era
imprigionato un compagno e formiche che disseppellivano una compagna
semisepolta dalla sabbia tagliando con le mandibole il filo di nylon con
cui gli sperimentatori le avevano legato una zampetta. Nel primo caso i
ricercatori usavano il termine «empatia» nel secondo il più anodino
«comportamento di salvataggio».
Perché, chiederebbe Romanes, a
parità di comportamenti esibiti, dovrebbe essere ascritta la capacità di
provare empatia ai ratti ma non alle formiche? Di contro, chiederebbe
Lloyd Morgan, perché usare il termine mentalistico «empatia» nel caso
dei ratti e non il più neutrale «comportamento di salvataggio» per tutte
e due le specie? Ma, allora, perché mai dovremmo impiegare, nel
linguaggio scientifico almeno, il termine «empatia» riferendoci ai
membri della nostra specie?
La risposta ovvia è che tutti noi –
scienziati compresi – abbiamo l’insopprimibile impulso a credere che chi
ci somiglia nella morfologia debba assomigliarci anche nelle esperienze
mentali. Mi sembra importante sottolineare qui la differenza tra
l’attribuzione generica di esperienze mentali e l’attribuzione di certi
specifici contenuti a queste esperienze. Sappiamo da parecchio tempo che
non è richiesta alcuna sembianza antropomorfica (e neppure
genericamente zoomorfica) per riconoscere un oggetto come un agente
animato, cioè come un’entità dotata di scopi e intenzioni. In un celebre
esperimento condotto nel 1944 gli psicologi Fritz Heider e Marianne
Simmel (vedi anche l’articolo di Paolo Legrenzi «Il lato oscuro
dell’empatia» Domenica Sole 24 Ore 9 febbraio 2020) facevano osservare a
delle persone un breve filmato che aveva per protagonisti delle figure
geometriche. Spontaneamente gli osservatori raccontavano come un grosso
triangolo minacciasse un piccolo cerchio, che veniva difeso da un
quadrato suo amico che gli consentiva di fuggire… A dispetto della
dissimiglianza morfologica le persone non hanno difficoltà ad attribuire
scopi e intenzioni a oggetti inanimati, a condizione che si muovano e
interagiscano in modi che sono tipici degli oggetti animati. I bruschi
cambiamenti di velocità e certe contingenze spazio-temporali nei
movimenti sono tratti distintivi dell’animatezza (animacy), per
la rilevazione dei quali i cervelli biologici paiono essere naturalmente
predisposti, e oggi iniziamo a comprendere i dettagli dei meccanismi
nervosi che presiedono a tali capacità. Nondimeno, parrebbe che la
somiglianza morfologica possegga una sua specifica perspicuità: una
formica forse sente qualcosa, ma solo a un ratto siamo disposti a
riconoscere un sentire sufficientemente simile al nostro. Al ratto, che
ci somiglia abbastanza, e ancor di più al gatto o al cagnolino di casa
ascriviamo contenuti mentali analoghi a quelli che possediamo noi. Vale
la pena notare che per quanto plausibile intuitivamente, una tale
concezione non possiede in realtà alcun fondamento scientifico. Reagiamo
in questo modo perché siamo fatti in un certo modo, ovvero attrezzati
biologicamente con dei cervelli sociali.
Quindi ha ragione de Waal
a sottolineare che non dobbiamo temere di attribuire emozioni ai nostri
cugini scimpanzé. Però sarebbe bello che i primatologi alzassero un
poco il loro sguardo e, uscendo dalla prigione del «primate-centrismo»,
considerassero che lo studio delle menti non è confinato alle s ole
creature che ci somigliano.
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