lunedì 4 maggio 2020

Carlo M. Cipolla e la peste del '600

La lezione della peste del ’600
Epidemie. In una serie di preziosi volumi Carlo M. Cipolla indagò gli effetti della malattia e la risposta progressiva in termini di controllo, sanità pubblica e strutture burocratiche
Massimo Firpo Domenicale 3 5 2020
Carlo Cipolla (1922-2000), anzi Carlo M. Cipolla dopo la sua decisione di aggiungere l’iniziale di un inesistente secondo nome per distinguersi da un omonimo collega, è stato un grande storico dell'economia, salito in cattedra a soli ventisette anni, professore in varie Università italiane e infine a Berkeley, premio Balzan nel 1995. Le sue ricerche si sono incentrate soprattutto sull’incidenza della tecnologia (vele, cannoni, orologi...), della moneta (con particolare riferimento a due capitali della vita economica italiana tra medioevo e Rinascimento quali Firenze e Milano), del commercio delle spezie, della demografia e dell’istruzione sullo sviluppo economico europeo, anche se forse lo scritto che più lo ha reso celebre nel mondo è il pluritradotto opuscolo su Le leggi fondamentali della stupidità umana, in cui si manifesta appieno la vena umoristica presente in molti suoi lavori.
Gli studi demografici, specie sul rapporto tra numero degli uomini e risorse energetiche (The Economic History of World Population, 1962) portarono Cipolla a studiare le epidemie, soprattutto la terribile peste del 1630 che devastò l’Europa sullo sfondo delle atrocità senza fine della guerra dei Trent’anni, la peste di Manzoni, in particolare nella Toscana granducale. A questo tema dedicò una serie di agili volumetti di 100-150 pagine l’uno, tutti pubblicati da Il Mulino di Bologna nell’arco di quasi un trentennio: Cristofano e la peste. Un caso di storia del sistema sanitario in Toscana nell’età di Galileo (1976); I pidocchi e il granduca. Crisi economica e problemi sanitari nella Firenze del ’600 (1979); Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento (1986); Miasmi e umori. Ecologia e condizioni sanitarie nella Toscana del Seicento (1989); Il burocrate e il marinaio. La sanità toscana e le tribolazioni degli inglesi a Livorno nel XVII secolo (1992); Chi ruppe i rastelli a Monte Lupo? (2004). Con l’eccezione dell’ultimo, sono i sottotitoli a enunciare i problemi generali alla cui conoscenza questi libri hanno portato un importante contributo di ricerca e riflessione: la sanità pubblica, la scienza medica, le strutture burocratiche dello Stato, i rapporti tra autorità civile e autorità religiosa, le credenze popolari. Temi però affrontati sempre a partire da fatti concreti, i cui protagonisti sono persone comuni, come il provveditore alla sanità di Prato Cristofano di Giulio Ceffini o il responsabile dell’effrazione dei cancelli posti alla porta di Monte Lupo, le cui vicende sono ricostruite con straordinaria capacità narrativa, sullo sfondo della grande storia alle cui tragedie nessuno poté allora sottrarsi, neanche a Prato o a Monte Lupo.
Ne emerge uno straordinario intreccio tra microstoria (di cui Cipolla fu una sorta di geniale anticipatore) e macrostoria, tra analisi del problema nelle sue concrete dimensioni locali e sintesi generale, fondato su uno scavo minuzioso nelle carte d’archivio, attestato dalle appendici volte a dare ragione di quanto nel testo viene raccontato con limpida verve e chiarezza. Si prendano per esempio le sei appendici del libro su Cristofano, oltre un terzo del volumetto, dedicate con tanto di numeri e grafici a Personale, salari e livelli di vita, Misure e monete, Statistiche del lazzaretto, L’alimentazione nel lazzaretto, Statistiche della casa di convalescenza, Le case serrate a Prato, La mortalità a Prato, che danno spessore e sostanza alla storia del povero Cristofano e dei suoi mille guai per affrontare un male tanto devastante quanto sfuggente, tanto mortale quanto impalpabile. Tanto più che doveva farlo sulla base di una cultura medica che attribuiva la pestilenza agli influssi astrali, o all’aria “guasta”, ai “miasmi” che la avvelenavano e che si poteva cercare di contrastare mettendo sotto il naso un poco efficace involtino di erbe odorose.
Nulla allora si sapeva di virus e batteri, né si avevano farmaci che andassero a di là di complicati intrugli o del valore terapeutico delle erbe. Nessuno poteva allora immaginare che la peste alloggiasse nelle pulci dei topi, anche se non si tardò a cogliere il nesso tra contagio e igiene (nella misura in cui tale parole ha un senso per le società di antico regime). Si curava il corpo in base all’antica teoria galenica degli umori, i cui scompensi erano ritenuti causa delle malattie e di cui occorreva quindi ristabilire l’equilibrio con emetici, purganti e salassi, al punto che forse la mortalità tra i ricchi non era molto diversa da quella dei poveri denutriti solo perché potevano pagare dei medici. Ma se non altro si imparò a conoscere meglio che il male si diffondeva con il contagio, con il contatto diretto tra uomini e cose, e che gli unici mezzi per contrastarlo erano la reclusione degli appestati nel lazzaretto, il rogo di merci e oggetti che si ritenevano contaminati dagli agenti patogeni, l’isolamento dei sospetti o dei guariti in luoghi specifici ove restare lontano da tutto e da tutti per oltre un mese nella cosiddetta quarantena. Si delineava così un atteggiamento razionale nei confronti del morbo, basato sull’esperienza (come insegnava in quegli stessi anni Galileo), e si affacciava l’esigenza di una normativa pubblica anche in materia sanitaria affidata a un apposito ufficio, di una burocrazia per applicarla, di sbirri destinati a verificarne il rispetto, di risorse finanziarie per pagare funzionari, medici e gendarmi, di controllo sulle sepolture, sui lazzaretti, sui porti di sbarco, sulle merci di importazione, sui confini statali. Fu anche intorno alla peste insomma che si vennero organizzando e rafforzando le strutture amministrative dello Stato moderno.
Di qui anche l’inevitabile conflitto con la Chiesa, con vescovi e parroci convinti che il miglior modo per sottrarsi all’epidemia fosse quello di credere che si trattava di una meritata punizione divina per i peccati degli uomini (ed è quanto l’ultradestra cattolica statunitense afferma oggi del Covid-19, puntando l’indice contro i cedimenti di papa Francesco sulla comunione dei divorziati, sull’omosessualità, sul dialogo interreligioso ecc.). Una punizione cui ci sarebbe potuti sottrarre solo con la preghiera, la penitenza, l’invocazione dei santi e della Vergine e soprattutto le processioni, che tuttavia nel radunare tante persone diventavano clamorose occasioni di diffusione del morbo, come in effetti avvenne. Di qui l’inevitabile scontro tra Stato e Chiesa, tra commissari alla sanità e parroci, come accadde appunto a Monte Lupo, il cui priore fu posto sotto inchiesta, con inevitabili riflessi sul terreno giurisdizionale. Fu dunque anche tra l’arrabattarsi di trafelati funzionari a confrontarsi con armi impari con un morbo invisibile e sterminatore, tra appestati e monatti, tra medici allo sbaraglio e sbirri che talvolta approfittavano del loro ruolo, tra marinai e mercanti insofferenti della quarantena e del sequestro delle merci, tra processioni illegali (talora promosse da preti desiderosi soprattutto di far soldi con «una gran colletta e poi se li crapulano» in «laute cene»), che cominciò ad affacciarsi un nuovo mondo destinato a diventare sempre meno dipendente dalle malattie; a differenza probabilmente di quello che invece ci aspetta dopo la terribile pandemia che stiamo vivendo.
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