Marc Fumaroli, umanista d’Europa
Carlo Ossola Domenicale 28 6 2020
Si spegne con Marc Fumaroli una generazione di pensatori e critici
(che Yves Bonnefoy riuniva, e con essi l’appena scomparso Jean
Starobinski, alla Fondation Hugot del Collège de France per i seminari
annuali intorno alla «conscience de soi de la poésie») la quale aveva
saputo distinguere «il ragno moderno, che si nutre delle proprie
viscere» e l’«ape virgiliana, che elabora per altri un miele colto da
mille fiori esterni e anteriori a lei» (
Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni,
Gallimard 2001, Adelphi 2005). La frattura tra quell’Umanesimo e l’oggi
è tutta qui, tra un erigere specchi per sé e un laborioso raccogliere e
portare a unità per altri. Marc Fumaroli, nato a Marsiglia, vissuto a
Fès, in Marocco, per tutta l’adolescenza, studi universitari a Marsiglia
e in Sorbona, profondamente legato alla civiltà italiana e a quella
spagnola, aveva - figlio di una famiglia di origini corse - coscienza
dell’unità delle tradizioni che legavano l’eredità della civiltà
classica. Fu tra i primi, chiamato al Collège de France (1987-2002), a
introdurre il termine «Europa» nel titolo della propria cattedra,
Rhétorique et société en Europe (XVIe – XVII e siècles) e a rimanere fedele a un’idea di unità europea fatta dalla «diplomazia dello spirito» (
La diplomatie de l’esprit. De Montaigne à La Fontaine, 1998): «è l’insieme delle credenze forti che fanno di una popolazione una comunità
naturale:
lo spirito sa ritrovarle, l’opinione le confonde e le perturba». O in
altri termini: «L’intelligenza letteraria classica preparava l’uomo a
sorridere dell’uomo. L’intelligenza letteraria moderna freme della paura
che l’uomo ispira all’uomo» (
Exercices de lecture. De Rabelais à Paul Valéry,
Gallimard 2006). Si definisce così un pensiero che si ispira alla
“continuità” con l’antico: «La libertà del saggio, come quella del
poeta, è meno applicazione che “grazia”. L’apice della civiltà […] non è
nel vincere la natura ma nel creare le condizioni della sua epifania,
nel grembo stesso di una tradizione condivisa: “Se fossi del mestiere -
scriveva Montaigne - naturalizzerei l’arte, come essi [i moderni]
artificiano la natura. Lasciamo da parte Bembo e Equicola”». È quella
che Fumaroli ha definito l’
éloquence du for interieur, quel chiedere alla retorica non l’eccezione sofistica ma il
topos di ciò che più ci è comune. Fu il grande merito del suo vasto affresco
L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, (1980, Adelphi 2002), cioè dal
Ciceronianus di
Erasmo alla nascita dell’Académie française. Il libro era dedicato alla
memoria di François de Dainville (1909-1971), geografo, storico della
cultura, gesuita docente all’École pratique des Hautes Etudes (IV
sezione), autore di un - purtroppo dimenticato -
La Naissance de l’humanisme moderne (Beauchesne, 1940). Come Dainville (
Les Jésuites et l’éducation de la société française,
1940), Marc Fumaroli vorrà assumere questa storia di una «pedagogia
della libertà», cercata e curata attraverso le Lettere, delle quali egli
individuava tre istituzioni fondamentali in Antico Regime:
Il salotto, l’Accademia, la lingua (1994,
Adelphi 2001), tutte e tre legate dal principio di elezione che la
conversazione intrattiene, nel suo creare spazi di gratuità e di
politesses. Fu dunque polemicamente contrario all’ingerenza dello Stato nel determinare le “politiche culturali”. Il suo saggio
L’État culturel: une religion moderne
(1991), più volte ristampato, è un manifesto contro il trasformare, per
decreto, la cultura - che è formazione di sé e della propria
interiorità - in una “spesa sociale”, spesso di consumo, programmata
come ogni altra produzione della macchina pubblica.
Sempre più
dunque, nella sua opera, Marc Fumaroli si è ritratto dalla parola
pubblica per studiare - in quello che rimane forse il suo libro più
meditante - L’École du silence. Le sentiment des images au XVIIe siècle (1994,
Adelphi 1995) - la riconquista della dialettica tra “rinuncia” ed
“evidenza”, per sfuggire all’ammassarsi del nulla di tante immagini
senza più “supplemento d’anima”: «“Dio è morto - scriveva Malraux - ma
noi abbiamo saputo trarre da noi stessi immagini abbastanza potenti da
negare il nostro nulla”. Noi obbediamo, ma senza credervi, a
quest’ingiunzione cavernosa. […] Ma siffatta religione delle immagini,
su fondali del nulla e del mercato, non libera». Su quella linea
troviamo la squisita descrizione del Poussin di Santa Francesca Romana che annuncia a Roma la fine della peste, della quale è proposta, qui sotto, la tesi centrale.
Eletto
nel 1995 all’Académie française sul “fauteuil” che fu di Eugène
Ionesco, egli nel tesserne, come tradizione, l’elogio commemorativo,
rievoca quella generazione di rumeni: Eliade, Cioran, Ionesco, per i
quali patria era l’Europa della civiltà romana: «La generazione di mio
padre e del nonno - scriveva Mircea Eliade - aveva un ideale: riunire
tutte le provincie della Romania […]. Ho avuto la fortuna di
appartenere alla prima generazione rumena che fu libera: libera non solo
di scoprire le fonti della tradizione, vale a dire la cultura classica e
quella francese, ma tutto il resto: l’Italia, l’Oriente, l’America». E
concludeva con un’analisi del teatro di Ionesco che era, ad un tempo,
severo giudizio sulla società presente: «In questa “via negativa” Les Chaises propongono la più radicale tabula rasa. Ionesco si eleva all’altezza del Goya delle Vecchie e degli affreschi allucinati della Quinta del Sordo. Del forum moderno, erede vaniloquente dell’agora, dell’ecclesia e della curia
degli antichi, non resta –nell’analisi spettrale che ne propone Ionesco
- che una coppia di vecchi dementi in un’isola deserta, che inscenano,
per un uditorio assente, un oratore che deve annunciare il messaggio
salvifico, ma quest’oratore - quando appare - è sordo e muto. […]
Meditazione corrosiva sul divertissement pascaliano, tipico delle società moderne».
Tale
è stata la lezione di Marc Fumaroli, ultimo erede dei grandi impeti e
degli ideali di Chateaubriand, di uno stoico e insieme amabile “saper
vivere” tenacemente resistendo al male: «Pretendi di saper morire, René.
Io, so ben di più: so vivere» (Chateaubriand. Poésie et Terreur, 2003).
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