Le società capitalistiche liberali sembrano caratterizzate
da una superiore efficienza economica e tecnologica, frutto dell’industrialismo
avanzato e della loro acquisita flessibilità ma anche del loro pluralismo e
dell’autonomia della società civile nella sua libera iniziativa. Di fronte a una
crisi improvvisa come la pandemia, i presunti vantaggi che avrebbero dovuto
facilitare una pronta risposta sono stati però neutralizzati da un altro
aspetto di queste società e cioè la loro fede acritica nella immodificabilità
dell’ordine presente, corollario di una sorta di religione assoluta che
percepisce come naturali le leggi del capitalismo e vive il presente come un
orizzonte perpetuo, impedendo anche solo di concepire configurazioni sociali e
modi di vita diversi.
Nel momento in cui un
evento eccezionale ha messo in discussione l’ordine costituito e ha scosso la
fede acritica nell’eternità inscalfibile della società borghese, sarebbe stato
allora assai utile per l’Occidente fare i conti con la propria teologia
implicita e confrontarsi finalmente con l’altro. Con modelli di organizzazione
sociale e con visioni del mondo che in realtà già da tempo avevano scalfito
l’illusione gratificante che conduce la nostra parte della Terra a considerare
se stessa come il tutto. Incapace di qualunque autocritica e di guardare oltre
se stesso, invece di ammettere che sono possibili anche esperienze diverse
dalla propria e di ascoltarle, il “mondo libero” si è però preoccupato
anzitutto circoscrivere quel peculiare contagio che sembrava provenire da un
paese in particolare, da un particolare “altro”.
Mentre metteva in
evidenza le contraddizioni strutturali delle società capitalistiche
neoliberali, la pandemia ha
esaltato le caratteristiche di un sistema molto diverso. La Repubblica popolare
cinese è ancora un paese in via di sviluppo che deve compiutamente uscire dalla
povertà ma sembra aver affrontato meglio e risolto prima le problematiche del
virus.
Negli Stati capitalistici, potentissimi interessi privati
condizionano le scelte politiche, alla
cui elaborazione i ceti proprietari partecipano come azionisti di riferimento.
E anche in questa circostanza hanno impedito una tempestiva gestione
dell’emergenza (pensiamo ai ritardi nel lockdown delle aree a maggiore
concentrazione industriale e dunque di capitali, o alla frenesia di avviare la
Fase 2). In Cina, invece, l’economia socialista di mercato è caratterizzata
oltre che da una forte presenza della proprietà pubblica, dalla capacità della
politica di sovradeterminare l’economia subordinando il mercato alle scelte
strategiche dello Stato, così da coordinare
l’iniziativa privata e renderla funzionale agli interessi della comunità. Non
le tendenze spontanee del mercato ma la pianificazione razionale diretta
all’obiettivo del bene comune e la convergenza di tutta la capacità di lavoro
sociale del Paese hanno perciò accompagnato anche in questa circostanza il suo
sforzo.
L’epidemia ha evidenziato perciò il vantaggio strutturale di una società che sviluppa al proprio interno
almeno alcuni elementi di socialismo e nella quale la programmazione politica
coordina con rigore le forze del mercato cercando di porle al servizio degli
interessi della maggioranza.
Di fronte a questo scenario,
invece di trarne l’occasione per riflettere
sul proprio modello di sviluppo, a partire da una riconsiderazione del ruolo
dello Stato in rapporto al mercato, l’Occidente è stato incapace di
riconoscere l’esperienza dell’altro, dimostrando
di non saper guardare al di là del proprio ruolo idealtipico. Al punto che a
lungo non è stato nemmeno in grado di rendersi conto del pericolo e ha ritenuto
che il rischio di contagio fosse circoscritto a un paese straniero, opaco nel
suo funzionamento, arretrato, barbaro. Proprio il mancato incontro con l’altro,
si può dire, ha ostacolato il riconoscimento della realtà stessa, impedendo al
contempo di prendere le necessarie precauzioni e esponendo l’Occidente a un
rischio autoprocurato per eccesso di sicurezza e per hybris di civiltà.
A prescindere dalla
costruzione scientifica delle false notizie sulla Cina, di fronte alle
performance del paese asiatico e alla crescente simpatia che esso cominciava a
suscitare anche in Occidente grazie agli aiuti forniti alla martoriata sanità
capitalistica, l’industria dei media ma anche gli attori politici e gli
intellettuali hanno immediatamente reagito. E hanno innalzanto una barriera che
impedisse ogni vera contaminazione e cioè contro ogni messa in discussione
degli assetti capitalistici e del primato del mercato e degli interessi
privati, con l‘argomento secondo cui il dialogo con l’altro avrebbe messo a
repentaglio le libertà individuali, indirizzando i paesi liberali sulla china
dello statalismo autoritario, secondo il modello di un paese dispotico. Un
paese che incarna l’ultima manifestazione del totalitarismo e che, mentre
progetta di conquistare il mondo, allontana i paesi più deboli dall’Occidente
liberale dagli alleati storici - anche approfittando della crisi della leadership
internazionale americana sotto Trump – e dal modello liberale. I principali
influencer dell’opinione pubblica si sono impegnati perciò nella costruzione
del nemico, uniformandosi a una guerra psicologica e ideologica che era già in
corso: resistere al virus Covid ma resistere anzitutto al “virus cinese”.
Tra la cinica gestione eugenetica dell’epidemia da parte dei
paesi anglosassoni e l’emersione di clamorose e crescenti disuguaglianze,
l’Occidente non è sembrato però particolarmente coerente nel suo rispetto dei
diritti individuali. E la storia delle società liberali mostra del resto che le
sbandierate differenze rispetto ai presunti autoritarismi non sono così
decisive, visto che anche il liberalismo ha ripetutamente teorizzato e praticato
il dispotismo nello stato d’eccezione in spregio ai diritti sanciti dalla
legge (Runciman, C. Galli). Contrariamente a ciò che si ritiene di solito, il liberalismo è in primo
luogo un dispositivo che produce de-emancipazione circoscrivendo uno spazio
sacro delle libertà che riguarda solo i pari e esclude chi non è riconosciuto
(Losurdo). L’Occidente - che considera invece il proprio assetto come un
modello universale - ha però continuato a difendere la propria eccezionalità e
a cercare di preservarla, senza nessun interesse verso la sperimentazione di
forme diverse di gestione della società di massa e verso il tentativo della
Cina di costruire una forma di democrazia socialista che affronti alle radici
il problema dell’esclusione. Una possibilità, questa, che certamente non è
scontata ma che viene negata a priori dal dogma dell’unicità della democrazia
come democrazia liberale (e dunque occidentale). E questo nonostante i massicci
sforzi della Cina per sviluppare il Welfare e introdurre la Rule of
law, e dunque di sviluppare forme di governo più democratiche (ma anche di
pensare una diversa forma di globalizzazione attraverso il concetto di Tianxia,
“tutto sotto il cielo”) avvengano paradossalmente in una fase nella quale, per
contrasto, la democrazia moderna in Occidente è in vistoso arretramento, le
disuguaglianze crescono e il consenso sistemico scema.
Se la metafora del virus cinese è un esorcismo, a questo
esorcismo non è sfuggito il dibattito culturale e filosofico, che ha semmai
nobilitato e trasfigurato l’autoreferenzialità della società capitalistica in
una forma di universalismo liberale
astratto e immediato. Un universalismo che è pero, in realtà, falso e
incompiuto in quanto incapace di riconoscere la differenza e la particolarità e
di tener conto delle loro ragioni, per quanto parziali.
Giorgio Agamben, il quale ha dato il tono al dibattito, ha
denunciato la gestione “biopolitica” della pandemia come un espediente per
irreggimentare la società civile. E ha rivendicato la pienezza delle libertà
individuali contro la “nuda vita” interessata solo alla mera sopravvivenza e
alla sicurezza: una condizione servile alla quale il Potere vorrebbe ridurci,
coartando i diritti alla socialità – e dunque dimidiando la democrazia -
mediante l’amplificazione artificiale della paura. Anche per lui, come per Di
Cesare e in misura minore per Esposito, “ci vogliono rendere tutti cinesi”,
insomma.
Il suo invito implicito alla ribellione anarchica delle
soggettività nei confronti del Potere – onnipervasivo, sempre e comunque maligno
e identificato per lo più con lo Stato – ha però un tono che finisce per
coincidere con quello decisamente aristocratico dei padroni, anch’essi
infastiditi per l’eccessiva ingerenza delle istituzioni nella libertà dei corpi
intermedi, anzitutto quella delle classi dominanti. La critica del
neoliberalismo converge così con il neoliberalismo stesso. L’anarchismo da Gran
Signore, o il dirittumanismo, assoluto si rovescia nel rivendicazione
dell’eroismo della bella morte, ignorando in nome della cura di sé il fatto che
la Communitas prevede anche la cura dell’altro e la prevenzione del
rischio della morte altrui, soprattutto se più debole, e che proprio la paura
del servo vigliacco e erbivoro è stata all’origine dei processi di
emancipazione e democratizzazione della società moderna.
Questa visione metafisica e indeterminata del potere rimuove
il fatto che esiste un conflitto tra libertà diverse le quali sono dotate di
poteri diversi e impedisce inoltre di vedere che è nella società civile, prima
ancora che nello Stato, che il potere stesso sorge. Di conseguenza, impedisce
di vedere la gestione di classe delle istituzioni e i rapporti di forza dai
quali questa gestione dipende. La sua denuncia della deriva statalista e
autoritaria impedisce però anche di pensare un nuovo ordine sociale possibile,
un diverso rapporto tra politica ed economia, Stato e società civile. E con
l’estremizzazione dello stato d’eccezione finisce per coprire la precedente
devastazione neoliberale della democrazia: come ormai ben sappiamo, un virus
già di per sé grave è stato ancor più aggravato dal precedente smantellamento
del Welfare, così che lo stato d’eccezione è stato semmai quello provocato
dalla spoliazione privatistica dello Stato da parte delle classi dominanti,
anch’esse intenzionate a limitarne quanto più possibile l’intervento.
Fortunatamente, altri autori, da Nancy a Habermas, da
Chomsky a Balibar – con l’apporto particolarmente significativo della Chiesa
cattolica e dello stesso Bergoglio – hanno ricostruito in maniera più efficace
la genealogia dello stato d’eccezione, invitando a un netto cambio di paradigma
rispetto al neoliberalismo tutt’ora imperante, a partire da una decisa
riconduzione dell’autonomia della sfera economica sotto la direzione della
politica. O, per meglio dire, a partire da una sottomissione degli interessi
egoistici privati all’interesse generale garantito dalla forma universale delle
istituzioni.
Non si tratta di un obiettivo di facile realizzazione.
Certo, grandi cambiamenti sono in ogni caso, in gestazione in uno scenario
internazionale che vede l’emergere di nuove aree e il declino dei vecchi
padroni del mondo. E questi cambiamenti non sono indifferenti per quegli
interessi stabiliti i quali nello status quo hanno costruito le loro
posizioni dominanti e che saranno inevitabilmente portati a cercare di
conservare tale posizione. Impedendo il mutamento stesso, ad esempio. Oppure
indirizzandolo sin dall’inizio verso un esito che non comporti un’eccessiva
ridislocazione delle gerarchie sociali e politiche vigenti, o che addirittura
rafforzi le tendenze già in atto da decenni – e che hanno provocato la crisi –
conducendo a un’ulteriore concentrazione del potere politico e della ricchezza
sociale verso l’alto e in favore delle classi dominanti. Non è già partito del
resto l’assalto alla diligenza dei fondi europei da parte del grande capitale,
che pretende finanziamenti a fondo perduto? Non risuonano già le richieste di
una sburocratizzazione dell’economia e cioè di un’ulteriore deregulation
che liberi la potenza degli animal spirits capitalistici e consenta una
nuova accumulazione? Non sentiamo già parlare di una nuova Costituente per
rafforzare il potere decisionale dei governi limitando il ruolo dei parlamenti
e l’influenza dei partiti? E’ il progetto di approfittare della crisi non per
rimediare al logoramento della democrazia moderna ma per superarla
definitivamente in direzione di forme politiche postdemocratiche.
La postdemocrazia può assumere l’aspetto dello Stato
neobonapartista ma anche quello della estinzione dello Stato e dell’esplosione
neofeudale dei poteri ammantata di rivendicazioni libertarie. Tuttavia, i
rischi di dirigismo non mancano, come è possibile constatare in molti ambiti e
in particolare nei tentativi di stravolgere integralmente i processi formativi
– e di conseguenza lo statuto dei saperi – piegandoli alla comunicazione
digitale nella scuola e nell’Università (la cosiddetta DaD), con conseguente
irrigidimento del controllo sul lavoro e sul pensiero. E Agamben ha in questo
senso una parte di ragione che va anch’essa compresa.
Anche il ritorno dello Stato, auspicato da parti molto
diverse, è infatti ambiguo. Lungi dall’essere il Moloch descritto dalla critica
della biopolitica, lo Stato non è nemmeno il vendicatore degli oppressi ed è
semmai un campo di battaglia esposto ai rapporti di forza che articolano un
conflitto permanente tra interessi e progetti. Lo Stato può essere potere e autorità che esercita una garanzia generale a
tutela di tutti i propri membri; oppure può essere semplice autoritarismo
mediante il quale i garantiti si tutelano tra loro amplificando i propri poteri
a discapito di chi garantito non è. Può
essere democrazia ormai divenuta moderna, che muove dall’idea di eguaglianza e
rimuove persino attraverso l’esercizio della violenza legittima gli ostacoli
per la sua effettiva realizzazione, come nelle Costituzioni del dopoguerra e in
particolare in quella italiana; oppure una forma diversa di democrazia. Una
post-democrazia che si è liberata dai propri elementi di modernità e cioè di
universalità. E che ha rinunciato ad ogni autonomia relativa del proprio potere
per limitarsi a coprire il ripristino delle gerarchie di classe, attraverso
l’apparenza del rispetto ossequioso di procedure che sono, però,
costitutivamente orientate a vantaggio di una parte e a discapito di altre.
L’invocazione di un
“ritorno della politica”, perciò, è di per sé equivoca e a seconda di chi
possiede l’egemonia, questo “ritorno” può essere lo Stato che
redistribuisce, oppure lo Stato autoritario. Si tratta di una eventualità, in
ogni caso, che nulla ha a che fare con la paventata infezione cinese, ma che
rappresenta l’esplicitazione di tendenze alla concentrazione del potere che
erano già da tempo presenti in primo luogo nell’Occidente liberale. E nelle
quali la spinta verso forme di “capitalismo politico” - nelle quali lo Stato
rafforza il proprio potere di organizzazione e coordinamento delle potenze
economiche a fini strategici, operando politicamente nel contesto
internazionale - si accompagna alla retrocessione del liberalismo verso forme
predemocratiche. Con la restaurazione dello spirito del liberalismo
“autentico”, sfrondato di ogni idealismo universalistico e ricondotto al
particolarismo assoluto dell’equilibrio di potenza interstatale (Jones,
Brennan, Milanovic, Mearsheimer, Aresu).
Stiamo attraversando un
passaggio estremamente delicato, insomma, perché nella confusione oggi
dilagante non è facile capire dove sia la destra e dove la sinistra, quale sia
il ruolo delle istituzioni e il significato delle loro scelte, dove inizino i
processi di emancipazione e dove quelli di de-emancipazione. E se il ritorno
dello Stato e della politica è la speranza di chi vuole ripristinare la
democrazia, esso può essere contemporaneamente anche l’auspicio di chi persegue
soluzioni epistocratiche o censitaria o elitiste o particolariste.
Proprio per questa ragione, in
nessun modo può essere considerata un’alternativa democratica al neoliberalismo
la configurazione che il ritorno della politica assume nel cosiddetto
sovranismo. Il quale intende il ripristino del primato dello Stato come il
terminale istituzionale di una sostanza popolare concepita nei termini di una Gemeinschaft
compatta e priva di contaminazioni (Zhok). E presenta la critica del capitalismo come
una critica dei processi di finanziarizzazione e internazionalizzazione, in
nome del sogno di un capitalismo patriottico limitato da un set di valori
tradizionali e reinsediato nel territorio e nella produzione. Fino a
vagheggiare un fronte trasversale che unisca gli antagonismi di destra e di
sinistra nella lotta comune contro le istituzioni globali e per il ripristino
di una malintesa sovranità nazionale (Formenti).
L’universalismo astratto e
immediato dell’ideologia neoliberale viene rovesciato così in un particolarismo
assoluto. Ma in realtà l’universalismo liberale e il sovranismo particolarista
convergono su tutte le questioni politiche principali: nel fiancheggiamento dei
poteri economici privati (quelli della grande borghesia in un caso, della
piccola e media nell’altro); nella concentrazione del potere (di marca
epistocratica o meritocratica per i primi, di marca populista-leaderistica nei secondi);
nella depoliticizzazione della società (ricondotta all’ambito individuale dai
primi, a quello familistico, comunitario o nazionalistico dai secondi).
La democrazia moderna è stata il frutto migliore del
conflitto sociale e la sua fine è iniziata quando si è interrotto questo
conflitto. Ovvero quando le classi subalterne, disgregate da imponenti
trasformazioni economiche, sociali, tecnologiche, sono state frantumate e non
sono più state in grado di agire il conflitto dal basso in maniera autonoma e
tramite le proprie idee e organizzazioni. Non è possibile prevedere cosa
accadrà dopo la pandemia. E’ chiaro però, in ogni caso, che la volontà di
usare l’emergenza come opportunità per correggere le storture del
neoliberalismo non potrà che tornare ancora una volta al conflitto e alla sua
organizzazione consapevole.
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