domenica 20 dicembre 2020
John Le Carré 1931-2020
Le Carré, spia divenuta bestseller
ADDIO ALLO SCRITTORE CHE HA RACCONTATO INTRIGHI E DOPPI GIOCHI DEGLI AGENTI SEGRETI. AVEVA 89 ANNI
Paolo Bertinetti Stampa 14 12 2929
John le Carré, il cui vero nome era David Cornwell, divenne un agente dei Servizi Segreti britannici nel 1958. Ma già prima aveva lavorato per l'MI5: in Austria, nel 1950, e poi, dal 1952, a Oxford, dove si era iscritto al Lincoln College (doveva individuare eventuali spie dei russi tra gli studenti di sinistra).
Dopo che suo padre fece bancarotta, le Carré lasciò l'università e si trovò un posto da maestro in una scuola elementare. Più tardi si riscrisse all'università, si laureò in lingue moderne e andò a insegnare francese e tedesco a Eton, la più esclusiva public school d'Inghilterra: fu un'esperienza significativa, che gli fece osservare dal di dentro la ferocia con cui il sistema di classe inglese perpetua i suoi principi e i suoi privilegi. Una cosa, questa, che si rifletteva anche nelle strutture dei Servizi Segreti, come le Carré non ha mai mancato di sottolineare nei suoi romanzi.
L'esordio nella narrativa risale al 1961, quando pubblicò Chiamata per il morto, un romanzo di spionaggio in cui è però ampiamente presente la componente della detective story. Un giallo è anche il libro scritto subito dopo, Un delitto di classe. Ma a partire da quello successivo, La spia che venne dal freddo (1963), tutta la sua opera rientrerà esclusivamente nell'ambito del romanzo di spionaggio.
Le Carrè si mosse in un ambito lontanissimo da quello di Ian Fleming e James Bond. Le sue storie avevano il marchio della verità, o comunque della verosimiglianza: il lettore le riconosceva come storie «vere», raccontate da chi conosceva bene il contesto in cui si muovevano i suoi personaggi. E soprattutto saltava all'occhio che, a differenza di quanto avveniva in gran parte delle spy stories, l'azione di intelligence non era dettata da un semplice meccanismo spionistico che la poneva al di sopra di qualsiasi giudizio, ma era invece contrassegnata da una preoccupazione di carattere morale: sia a proposito dei mezzi che giustificavano il fine di sconfiggere il nemico, sia a proposito dell'utilizzo supponente e cinico, nei confronti dei propri agenti, da parte dei grandi capi dei Servizi Segreti.
Ian McEwan ha scritto che le Carré è probabilmente il più importante romanziere inglese del secondo Novecento e che è ora di smetterla di considerarlo uno «scrittore di romanzi di spionaggio» e di apprezzarne invece le straordinarie qualità di grande romanziere, non solo per temi e contenuti, ma anche per sapienza stilistica e narrativa. La sua prosa è ricca di immagini in cui l'ambiente, gli oggetti, le strade, vengono definiti con un linguaggio di grande forza evocativa, in modo da far parte essi stessi del senso e della morale della vicenda; e le sue storie sono raccontate con una mirabile sapienza narrativa che si manifesta nell'ordine e nel rigore con cui viene costruita una trama di intricata complessità.
La verità è sfuggente, spesso scomoda, mai scontata. L'agente segreto sa che tutti gli possono mentire e che deve riuscire a far credere di dire la verità quando a mentire è lui. Questo è drammaticamente ancora più vero quando l'agente è un double agent.
Il tradimento di Kim Philby, il funzionario dei Servizi segreti britannici che in realtà era una spia dei russi, ha un ruolo rilevante nell'opera di le Carré. A differenza di ciò che accadde nel caso Philby, in La talpa il double agent, il traditore, sarà invece individuato e eliminato. Ma in quello che Philip Roth definì il miglior romanzo inglese del dopoguerra, La spia perfetta, il double agent è visto in una luce decisamente diversa. Anche perché la sua storia è al tempo stesso una storia di grande acutezza sulla società inglese dagli anni Trenta del secolo scorso in poi: un acutissimo ritratto dei princìpi, dei pregiudizi, dell'improntitudine della classe dominante britannica.
Dopo la fine dell'Urss molti pensarono che le Carré non avrebbe più saputo che cosa e di che cosa scrivere, perché la Guerra fredda era stata la materia prima della sua invenzione narrativa. Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata sull'Occidente e sulle sue malefatte: quelle dei colossi farmaceutici, delle banche truffaldine, delle multinazionali (che magari coltivano, come nel Nostro traditore tipo, segreti legami con la mafia russa).
In realtà anche nei romanzi scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei valori (e del non rispetto dei valori) dell'Occidente. Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli alla luce della contrapposizione tra l'Occidente e l'Urss, come liberato dal dovere di «stare dalla nostra parte», le Carré ha mantenuto schemi e forma del genere spionistico per applicarli a quel tipo di invenzione narrativa che è propria del grande romanzo. Ha messo la suspense al servizio della rappresentazione del mondo di fine Novecento e di inizio di terzo millennio, cogliendone trasformazioni e infamie. —
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John le Carré La spia che amò la letteratura
Il grande scrittore britannico è morto all’età di 89 anni Rivoluzionò la spy story raccontando la Guerra Fredda e la sua fine attraverso personaggi verosimili e umanissimi
di Irene Bignardi Rep 14 12 2020
Se non ci fosse il grande dispiacere dei suoi lettori e il dolore — di sua moglie Valerie Jane, dei suoi quattro figli, di una vasta tribù di amici — si potrebbe sorridere, alla notizia della scomparsa di John le Carré. Che se ne è andato, come ha annunciato il suo agente, bello, elegante, brillante, spiritoso, fortunato, a 89 anni con un ennesimo coup de théatre . Rivelando, cosa che non aveva fatto per la biografia “autorizzata” scritta da Adam Sisman, qualche interessante segreto.
Ancora una volta, nella vita e nella storia di questo grande scrittore che solo la miopia delle catalogazioni ha confinato nel territorio della letteratura di genere, i doppi livelli della scrittura e della vita si sono intrecciati inestricabilmente, come le quasi verità e le quasi bugie che, insieme, sono andate a formare durante la sua vita quella terza verità che sono i suoi libri.
Tutta la vita di David Cornwell, l’uomo dietro lo scrittore, e tutta l’opera di John le Carré, la “spia”, l ‘autore, hanno seguito questo percorso, fin dall’infanzia, vissuta dal piccolo David nell’assenza della madre, che se ne era andata quando lui aveva cinque anni, e nell’ombra inquietante di suo padre, Ronnie, imbroglione professionista, un giorno padrone di un castello Tudor, il giorno dopo in prigione.
Il senso di precarietà di questa vita, raccontato da le Carrè in La spia perfetta (pubblicato in Italia da Mondadori come gli altri titoli), che è un pezzo di autobiografia travestita da romanzo (e secondo il di solito non generosissimo Philip Roth, il miglior romanzo di lingua inglese dalla fine della guerra), ha spinto David Cornwell a inventarsi delle storie per coprire le sue tracce, giustificarsi, difendersi. «Quelli che hanno avuto un’infanzia infelice, sono molto bravi a inventarsi». Così è stato con lui. Che ha studiato e bene a Sherborne, a Berna e a Oxford. Che ha rivelato un talento per le lingue molto utile nel mondo del Foreign Office. Che, dalla sua esperienza di doppia lealtà (al padre, alla scuola), ha tratto le qualità che hanno fatto di lui, per un certo periodo, la spia perfetta. Prima al MI5, poi al MI6. Poi sulle pagine dei suoi libri.
Nel 1961 in Chiamata per il morto (per pubblicare il quale, ancora legato al mondo del Foreign Office, il giovane Cornwell dovette nascondersi sotto lo pseudonimo di John le Carré), compariva per la prima volta George Smiley, il grande civil servant , triste, frustrato, diviso, e tuttavia graniticamente leale alla causa del suo Paese, di cui David Cornwell avrebbe fatto un personaggio simbolo della britannicità al pari di Bertie Wooster o di Sherlock Holmes, rivelando al tempo stesso nella costruzione del personaggio quanto importanti siano stati le sue esperienze di vita e gli incontri che hanno popolato la sua giovinezza — da John Bingham, un alto esponente del MI5, al suo tutor di Sherborne, Vivian HH Green.
Ma fu nel 1963 che esplose il fenomeno le Carré, con La spia che venne dal freddo , un romanzo che per la sua capacità di cogliere un momento storico e un’atmosfera merita per una volta il titolo di “epocale”. Quella che secondo un maestro del genere come Graham Greene era «la miglior spy story che io abbia mai letto » divenne un film di angosciosa attualità e portò Cornwell ad abbandonare il mestiere di diplomatico-spia. Mentre si infittiva la sua vita alternativa di scrittore, che segnò uno dei punti più alti della sua storia con Tinker Tailor Soldier Spy , La talpa ,
dove le Carré mise in scena tutta la complessità della moralità (e l’immoralità) del mondo della politica e dei servizi negli anni difficile della Guerra fredda. Con tanta fascinosa verosimiglianza da infiltrare il Circus e i servizi con il suo gergo: “la talpa”, “ i lampionai”, i “cugini”, i “calzolai”. Seguirono L’onorevole scolaro , Tutti gli uomini di Smiley , La tamburina (che spostava lo scenario e il dibattito politico e morale in Medio Oriente). Fino a La spia perfetta , nell’86. Fino al romanzo sulla fine del l’impero sovietico che le Carré pubblicò nel 1989, La casa Russia .
La caduta del muro, il dissolversi delle certezze del confronto Est/Ovest, la fine delle travagliate sicurezze al motto right or wrong my country , hanno rappresentato certamente un colpo, o quanto meno uno stallo, per il mondo di le Carré. Sicuramente lo stravolgimento dello scacchiere su cui si era esercitata la sua analisi morale e politica ha creato a le Carré qualche difficoltà creativa. Ci sono stati, nei primi anni dopo il 1989, libri meno felici, diversivi, quasi, o parodie, come Il sarto di Panama , il suo omaggio a Greene.
Ma lo scrittore di razza è subito tornato a colpire. Le Carré, sciolto dal giuramento di lealtà con l’Occidente, divenuto apparentemente un unico granitico fronte, ne diventa la sentinella critica. E, in un mondo cambiato, trova nuovi bersagli a quella che chiama la sua Alterszon, la rabbia dei vecchi, a quello che vive come «uno stato d’animo più radicale, più libero»: trova i nemici nella Big Pharma (che, per inciso, lo ha praticamente minacciato) di Il giardiniere costante , nel pregiudizio razziale e culturale ( Yssa il buono ), nella immoralità ben educata della politica in Una questione delicata — che mette in campo i quesiti di fronte cui si è trovato l’Occidente dopo l ’11 settembre. «Qual è la differenza tra l’uomo che applica gli elettrodi e l’uomo che siede dietro una scrivania e finge di non sapere che cosa sta succedendo?». Resterà, la netta, inequivoca risposta che le Carré dà a questa domanda, l’ultimo messaggio di un conservatore illuminato, che ha vissuto con un alto senso morale il dibattito politico dei suoi anni. Un senso morale da cui nasce anche l’attenzione a una scrittura che da sola basterebbe a candidarlo a cento premi.
Per la verità, dai premi le Carré si è sempre tenuto lontano, contento del successo di pubblico e delle opulente tirature, e deciso a ignorarli, assieme ai loro pregiudizi sui “generi”. Sicuramente come premio gli sarebbe bastato quello che W. H. Auden scrisse in morte di Yeats: « Time… pardons him for writing well » . E qualsiasi siano i suoi limiti, il tempo renderà giustizia a chi scriveva così bene, a un autore le cui storie avvincenti hanno messo in ombra la bellezza della scrittura.
Le Carré profeta contemporaneo
Con i suoi libri, lo scrittore appena scomparso ha illustrato il cammino dell’identità occidentale. Fino all’ultima paura: il nuovo isolamento inglese
di Enrico Franceschini Rep 15 12 12020
Ci sono i romanzi ispirati dalla realtà. E ci sono i romanzi che predicono il futuro: 1984 di George Orwell ha anticipato la sorveglianza di massa, il Grande Fratello che sa tutto di noi, oggi facilmente riconoscibile nei big data di Internet; 2001 Odissea nello spazio di Arthur Clarke ha previsto la colonizzazione dello spazio, che Elon Musk intende cominciare fra qualche anno su Marte; 20 mila leghe sotto i mari di Jules Verne ha immaginato i sommergibili, assai prima che venissero inventati. John le Carré si distingue per avere intuito la direzione in cui va il mondo contemporaneo non con un singolo libro, ma attraverso la propria intera opera narrativa. Le sue spy-stories non hanno nulla in comune con generi letterari quali la fantapolitica e la fantascienza. Eppure, dalla Guerra fredda al crollo del comunismo in Europa orientale, dalla decolonizzazione alla Brexit, dal denaro riciclato del narcotraffico alle spregiudicate operazioni di Big Pharma, i bestseller che lo hanno reso famoso illustrano il cammino dell’identità occidentale meglio di qualunque profeta.
Il grande scrittore scomparso sabato a 89 anni non si guardava attorno con il cannocchiale dell’indovino, bensì mettendo l’umanità davanti a uno specchio con la spietatezza dello psicoanalista. In questo è stato simile al suo predecessore Graham Greene, con cui ha condiviso lo stesso destino: venire ingiustamente relegati nel recinto degli autori di thriller, quando entrambi avrebbero potuto ben meritare il premio Nobel per la letteratura.
La spia che venne dal freddo , il titolo che gli diede la fama, pubblicato nel 1963, introduce il personaggio di John Smiley, un antieroe che non potrebbe essere più diverso dal James Bond di Ian Fleming, destinato a figurare anche in altri romanzi, tra cui La talpa e
L’onorevole scolaro . Ma soprattutto riflette sul problema dei paesi democratici: «Fino a dove dobbiamo spingerci nella difesa dei nostri valori di libertà, senza rischiare di abbandonarli» per battere il totalitarismo? Un dilemma esploso non solo nel confronto con l’Unione Sovietica della Guerra fredda, ma che abbiamo ritrovato nel dibattito sui cosiddetti "danni collaterali" delle guerre contro il terrorismo. Un quarto di secolo più tardi, in La casa Russia , le Carré esamina il crollo dell’Urss attraverso la lente d’ingrandimento della corsa agli armamenti, scoperchiando anche qui, dietro l’obiettivo dichiarato della pace mondiale, gli interessi del complesso militar- industriale a ricevere finanziamenti sempre più generosi. Uscito nel 1995, La passione del suo tempo sposta l’azione poco lontano, nel Caucaso sfuggito al controllo di Mosca, facendo presagire i conflitti intestini che continuano a dilaniare la regione, così come pure l’estremismo di un Islam radicale pronto a sostituirsi all’ideologia bolscevica.
Due anni prima, Il direttore di notte , suo primo romanzo post- guerra fredda, indagava nei meandri della guerra alla droga, denunciando fra i primi la rete di complicità fra governi che rivolgono lo sguardo dall’altra parte, banche determinate ad arricchirsi in fretta e narcotrafficanti bisognosi di ripulire i propri soldi. Il tema di Il giardiniere tenace , apparso nel 2001, è un altro tipo di droghe: gli esperimenti di un’azienda farmaceutica in Africa alla ricerca di un vaccino contro la tubercolosi, in una vicenda che precorre gli scandali delle multinazionali delle medicine dei decenni successivi. «In confronto a quello che succede in questo settore», sosteneva le Carré nelle note editoriali, «la mia storia è innocente come una cartolina dalle vacanze».
Non c’è aspetto delle relazioni internazionali che sia assente nei suoi libri, dal Medio Oriente in La tamburina all’America Latina in Il sarto di Panama , con la costante di rivelare una verità più cruda e complicata di come cercano di farla apparire le versioni ufficiali. In effetti era bene informato. La sua documentazione non si limitava a quello che aveva imparato in vent’anni come agente segreto dell’Mi5 e dell’Mi6, prima di dedicarsi a tempo pieno a scrivere (per questo adottò nei primi romanzi lo pseudonimo di John le Carré, poi mantenuto sino alla fine: non poteva firmarsi, David Cornwell, il suo nome da spia): prima di ogni progetto consultava un noto criminologo italiano di Oxford, il professor Federico Varese, che lo andava regolarmente a trovare nella sua residenza di campagna sulle scogliere della Cornovaglia.
Lì lo ha colpito la polmonite che se l’è portato via: ma fino all’ultimo ha continuato a scrivere. Chissà se avremo, postuma, anche una sua profezia sulla Cina aspirante padrona del ventunesimo secolo.
L’ultimo romanzo, Un passato da spia , pubblicato due anni fa (in Italia da Mondadori come gli altri titoli), suona comunque come il suo testamento spirituale: un monito contro il populismo, «lo spettro di un nuovo fascismo», e un’appassionata difesa della democrazia liberale. In quella occasione, durante una lunga intervista al pub all’angolo della sua casa di Hampstead, la collina che domina Londra, dopo avere ordinato due bottiglie di vino rosso (bevendone solo un sorso), mise in guardia contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, nella cui integrazione ha a lungo creduto: «Arrivato a fine carriera, l’agente Smiley domanda a un collega per cosa si sono effettivamente battuti lui e le altre spie britanniche, dalla Guerra fredda ai giorni nostri. Per l’Inghilterra? Troppo piccola, e poi quale Inghilterra? Per la corona, la monarchia? Non scherziamo. Si sono battuti per un’idea d’Europa, per liberare quella dell’Est e riunificarla con il resto del continente. Ora la Brexit sospinge il nostro Paese, come una nave, verso il mezzo dell’Atlantico. Un’isola che aspira all’isolamento. E questo renderebbe inutile tutta la missione precedente del mio protagonista».
Ecco il pericolo per il nostro futuro, avvertiva John le Carrè: «L’Inghilterra, l’Europa, l’Occidente, hanno bisogno di riscattarsi, di ritrovare fiducia in un destino comune ».
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