lunedì 14 dicembre 2020
Pievani e la finitezza umana
"Camus e Monod ce lo insegnano: dobbiamo accettare la finitudine su cui si basano libertà e solidarietà "
TELMO PIEVANI Nel nuovo libro un dialogo immaginario tra lo scrittore e lo scienziato, ambientato nel 1960
Simona Regina Stampa 18 12 2929
Albert Camus e Jacques Monod. Due Nobel (per la letteratura il primo, nel 1957, per la medicina il secondo, nel 1965). Due strenui difensori della libertà. Entrambi partigiani contro il nazifascismo. C'è la loro amicizia e ci sono i fervidi dialoghi tra i due, che si confrontano su un'etica del disincanto e sulla finitudine di tutte le cose, al centro del nuovo libro di Telmo Pievani. Non un saggio divulgativo, ma un romanzo filosofico su fragilità e libertà che intreccia fatti e finzione per condurci nel cuore delle loro personalissime storie, ma anche della Storia e delle conoscenze scientifiche dell'epoca.
Perché Finitudine (Raffaello Cortina, pp. 280, € 16), attraverso una smagliatura nella trama del tempo, ci conduce nel 1960: Camus è sopravvissuto all'incidente stradale (che in realtà gli costò la vita) e in ospedale riceve le visite dell'amico Monod. Stanno scrivendo un libro insieme e devono correggerne le bozze. Un libro nel libro.
Pievani, filosofo della biologia all'Università di Padova, ricorre a questo escamotage narrativo e fonde i loro linguaggi, la filosofia di Camus e la scienza di Monod, consegnandoci la loro visione comune della vita, che, in fondo, è anche la sua. «Si è rotta l'antica alleanza tra noi e la natura e non siamo altro che nomadi erranti ai margini di un universo, sordo e indifferente alle nostre speranze e alle nostre sofferenze, in cui tuttavia dobbiamo vivere. Eppure dentro questa situazione scomoda e fragile siamo liberi e, proprio perché è unica e irripetibile, la vita ha un grande valore e noi abbiamo il dovere di onorare al meglio il frammento di tempo che ci è dato».
Attraverso i dialoghi tra i due Pievani propone anche lezioni di biologia. Monod spiega infatti cosa succede nel suo laboratorio all'Istituto Pasteur e illustra le basi della biologia molecolare, e Camus diventa una sorta di intermediario del lettore: chiede spiegazioni e, se non capisce, anche disegni che semplifichino quei paroloni.
Un modo diverso dal solito per fare divulgazione?
«Attraverso loro che dialogano spiego concetti molti difficili. E, anche se i dialoghi sono immaginari, quello che dicono è vero: frutto di un lavoro di scavo storico faticoso per non far dire nulla che non fosse già noto all'epoca. Quindi ho dovuto fare attenzione anche all'uso delle parole. Per esempio non si parlava ancora di climate change, mentre a parlare di ingegneria genetica erano gli scrittori di fantascienza, così ho immaginato che Monod o Camus avessero letto lo statunitense Jack Williamson».
All'epoca i cambiamenti climatici non erano al centro del dibattito, ma Camus e Monod parlano di noi umani come di una specie invasiva, tanto che per il resto del vivente la finitudine si presenta con la faccia di Homo sapiens.
«Questo gliel'ho fatto dire io e mi sono sentito autorizzato a farlo. Perché è vero che non si parlava ancora di crisi ambientale - la Primavera silenziosa di Rachel Carson per esempio viene dopo (1962, ndr) - ma si parlava di devastazione dell'ambiente a seguito della rivoluzione industriale. E Monod e Camus sostenevano che la finitudine di tutte le cose deve ispirarci anche una solidarietà ecologica ed erano impegnati contro la proliferazione nucleare: dicevano che l'uomo ha inventato uno strumento capace non solo di distruggere sé stesso ma il pianeta».
Lei mette in scena un confronto laico sul senso della fine di tutte le cose che non conduce al nichilismo e al pessimismo. Come si convive con la consapevolezza che tutto finisce e non ci sarà un'altra storia dopo l'ultima storia?
«Camus e Monod trovano una soluzione etica alla finitudine. Sostengono che dobbiamo accettarla senza affidarci a speranze metafisiche: una strada preclusa per loro come lo è per me. E sulla finitudine fondano virtù etiche importantissime, come la libertà e la solidarietà: se tutto è finito e la nostra vita non dipende da alcun progettista intelligente, siamo liberi e solidali in questo destino fragile comune. E, come argomenta Camus, se la vita è un'occasione unica irripetibile, ha un valore assoluto, motivo per cui è imperdonabile la pena di morte e qualsiasi violazione dell'integrità della vita».
Si innesca un cortocircuito con il presente, quando parlano della peste e dicono che al prossimo flagello noi negheremo, poi ci abbandoneremo al panico e poi verrà il tempo della desolazione. E, come accade oggi, ci si chiederà se, a causa della peste, si diventi migliori o peggiori.
«In realtà c'è un cortocircuito nel cortocircuito. Tra il De rerum natura di Lucrezio, La peste di Camus e la "peste" che stiamo vivendo. Perché, come dice Camus, certi schemi si ripetono: quando arriva un'epidemia siamo sempre sorpresi. E poi, quando se ne va, subentra l'oblio. Temo che sarà così anche questa volta. Con il vaccino ne verremo fuori, però se vogliamo essere sapiens dobbiamo capire che quello che è successo ha delle cause profonde e, se non le rimuoviamo, ci ritroveremo in situazioni analoghe. Proprio come quando finisce la peste a Orano: tutti festeggiano, ma la peste si è nascosta e viaggia verso un'altra città che si crede felice. Ecco: questa è una chiave di lettura per capire come dovremo comportarci nel 2021, quando la nostra peste se ne andrà».
Ma tra noi e i virus c'è da sempre una rincorsa evolutiva.
«Sì, in senso lato, noi come mammiferi interagiamo con i virus da decine di milioni di anni. I virus prima hanno ingaggiato la loro lotta con i batteri, che sono i loro veri nemici evolutivi, e poi con gli organismi pluricellulari tra cui noi. Tanto che l'8% del Dna umano è virale. Quello che dovrebbe preoccuparci e di cui invece non parliamo abbastanza è che negli ultimi millenni, prima con la rivoluzione agricola, quindi con la convivenza con gli animali che sono portatori di virus, poi con la devastazione ambientale, abbiamo moltiplicato le possibilità che i virus facciano il salto di specie e ci attacchino, come è successo questa volta».
Sono i virus dunque ad aver trovato il modo di fregare la finitudine?
«Paradossalmente sì: i virus sono geni egoisti allo stato puro, come avrebbe detto Richard Dawkins. Sono finiti anche loro, però se un virus colonizza una cellula trasferisce il suo materiale genetico e così il suo Dna o il suo Rna è virtualmente eterno. Del resto i virus sono macchine biologiche che fanno una cosa sola e la fanno benissimo: copie di sé stessi. Il Dna può essere un modo per sfidare la finitudine, non la nostra, però. Perché come dicono Camus e Monod, anche noi, portiamo informazione genetica. Se abbiamo figli quell'informazione non muore, ma si tramanda, ma a noi interessa la nostra vita individuale e la nostra coscienza e quella non c'è più, anche se i geni passano a figli e nipoti». —
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