lunedì 28 ottobre 2013
Intervista a Claudio Pavone
“Non morirò né fascista, né democristiano però vorrei vedere che fine fa questa politica”
intervista di Antonio Gnoli Repubblica 27.10.13
All’età di quasi 93 anni Claudio
Pavone si è deciso a scrivere le sue memorie. Mi pare una scelta
ineccepibile per un grande storico, con un grande passato davanti agli
occhi. Sul tavolo, nello studio dove mi riceve, quaderni di appunti,
fogli svolazzanti, un computer spento. Dice che il lavoro procede
lentamente. E che è sempre stato lento: nello scrivere, come nel
leggere. Si sente anche vagamente perplesso: «Non so bene a chi potrà
interessare questo insieme di riflessioni che coinvolgono la mia vita di
storico. Passiamo il nostro tempo a confutare gli errori altrui, a
censurare certi comportamenti egocentrici e vanitosi e poi, magari,
accade che finiamo col fare le stesse cose».
Il suo lavoro è stato
accolto come un contributo fondamentale alla storiografia contemporanea.
E naturalmente il pensiero va all’importante libro dedicato all’Italia
coinvolta nella “guerra civile”.
«Beh, non è che mi sono state
risparmiate critiche. Hanno pensato che con quella espressione volessi
giustificare i fascisti. In realtà, con “guerra civile” intendevo non
tanto equiparare le parti quanto sottolineare le differenze. Debbo a
Vittorio Foa il titolo di quel libro, che io avrei chiamato “Le tre
guerre”».
Che ricordo ha di Foa?
«Bellissimo. Era stato nello
stesso carcere dove io fui trasferito agli inizi del 1944. Vittorio
aveva un’intelligenza vivace e tagliente. E un rigore straordinario».
Il suo trasferimento avvenne da dove a dove?
«Fui
arrestato, dopo l’otto settembre del 1943, in una situazione che il mio
amico Marc Ferro definì in questi termini: ce ne pas héroique, c’est
grotesque!».
Cos’era accaduto?
«Ero entrato in contatto con il
partito socialista che mi affidò alle mani di quell’uomo straordinario
che fu Eugenio Colorni. La mia militanza consisteva soprattutto nel fare
propaganda e diffondendo l’Avanti! Ricordo che un giorno, camminando
per strada, con una borsa piena di ciclostilati clandestini, mi accorsi
che c’era il coprifuoco. Se mi avessero trovato con quei volantini avrei
rischiato la fucilazione. Decisi perciò di sbarazzarmene e gettai la
cartella all’interno di una macchina. Il caso volle che l’automobile
fosse del capo dell’Ovra, Guido Leto, che in quello stesso momento,
uscendo da un portone, si accorse del mio gesto».
Una sfortuna pazzesca.
«Sì,
mi lanciò dietro i suoi uomini che mi catturarono. Mi portarono al
commissariato, per interrogarmi, e il giorno dopo fui trasferito a
Regina Coeli. Venni rinchiuso nel sesto braccio, con gli altri detenuti
politici».
Chi c’era?
«C’erano alcuni membri del Gran Consiglio,
che avevano fatto decadere Mussolini il 25 luglio, e molti di loro
furono in seguito fucilati dopo il processo di Verona, e alcuni
esponenti dell’antifascismo. La prima faccia che incontrai fu quella di
Ruggero Zangrandi, che era stato mio compagno di liceo al Tasso. C’erano
anche Manlio Rossi-Doria, che sarebbe diventato mio suocero, Giuseppe
Martini, Carlo Muscetta. Tra i socialisti spiccava la figura di Saragat.
Provai ad avvicinarlo, ma con me fu di un gelo imbarazzante».
Capì il perché?
«Non
lo so, forse non si fidava. Mi trattò malissimo. E poi c’era Leone
Ginzburg. La sera, visto che le celle restavano aperte e grazie alla
tolleranza di alcune guardie, partecipammo a delle lezioni improvvisate.
Ginzburg ne tenne una bellissima su Dostoevskij. Poi, un brutto giorno,
vedemmo arrivare nel nostro braccio alcuni tedeschi e sentimmo
distintamente pronunciare il nome di Ginzburg. Lo trasferirono al
secondo braccio, quello gestito dalle SS. Un detenuto, mentre lo
portavano via, intonò l’inno del Piave. E io piansi. Leone fu torturato e
massacrato di botte. Morì pochi giorni dopo, erano i primi di febbraio
del 1944, in infermeria».
Un altro che sarebbe morto di lì a poco fu Eugenio Colorni.
«Morì
l’anno dopo, alla vigilia della liberazione di Roma. Fu ricono-sciuto
da alcuni fascisti per la strada e ammazzato a rivoltellate. Fu uno
shock terribile. Avevo per un po’ frequentato questo studioso di
Leibnitz che mi aveva insegnato la lealtà del fare politica e trasmesso
la speranza in un mondo migliore».
Dopo la morte di Ginzburg a lei che accadde?
«Fui
trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia, non lontano da Modena.
Qui, diversamente dalla situazione romana, eravamo chiusi in cella con
un’ora d’aria al giorno».
Come visse psicologicamente la nuova situazione?
«Fu assai pesante. Ad alleviare il clima ci pensò Nestore Tursi, un medico, comunista dalla fondazione, che mi fece da maestro».
Ma come passava il suo tempo?
«A
parte certi sporadici contatti e certe conversazioni, trascorrevo il
mio tempo a leggere. Mi ero portato un libro sul giansenismo in Italia
di Jemolo, e un romanzaccio di Bruno Carra. Praticamente li imparai a
memoria. Poi, siccome c’era una biblioteca gestita da un cappellano,
riuscii a prendere a prestito ilDon Chisciotte.Ma la cosa straordinaria
erano i “libri mascherati”».
Sarebbe a dire?
«Libri truccati,
dalla veste innocua, che contenevano testi pericolosi. A un certo punto,
Nestore mi passò un romanzo in francese. Cominciai a leggerlo, ma vidi
che qualcosa non quadrava. In realtà, nelle pagine si nascondeva
l’Anti-Dühring di Engels. Fu il primo libro marxista che lessi».
La sua famiglia l’agevolò nelle letture?
«Oddio,
non era così determinata. Mio padre era avvocato. Morì relativamente
giovane, a 58 anni nel 1943. Era stato direttore dell’ufficio trasporti
della Confindustria. Credo che la mia passione per i treni sia dovuta a
lui che era un esperto di mobilità. Ad ogni modo, papà era laico e la
mamma cattolica. Strinsero il patto di dividersi la mia educazione.
Frequentai asilo ed elementari dalle monache inglesi, senza peraltro
imparare mai bene la lingua, e gli otto anni di ginnasio e liceo li feci
al Tasso. Tra i compagni di scuola c’erano, oltre ad Andreotti, anche i
figli di Mussolini, Bruno e Vittorio».
E come fu il rapporto con loro?
«Ma, in fondo, godevano di molte libertà e quei privilegi finirono per agevolarci».
Come fu la sua vita sotto il fascismo?
«Fui
per lungo tempo a-fascista. Mio padre, che aveva sei figli, si iscrisse
al fascio. In casa imprecava contro il regime, lo sentivo a volte dire:
“quel porco di Mussolini!”, fuori invece era tutto un elogio. Cosa
vuole: questa è stata la doppiezza degli italiani. E non sono per niente
d’accordo con Renzo De Felice, grande storico intendiamoci, che
sosteneva che per lungo tempo gli italiani diedero spontaneamente il
loro consenso al regime. La verità è che non teneva conto del
conformismo italiano: fuori fascista e in casa antifascista».
E lei a-fascista.
«Guardi,
prima di finire nelle carceri in quel modo assurdo che le ho
raccontato, non credo di aver mai fatto cose particolarmente gloriose.
Ero molto fiero, questo sì, dell’esistenza in famiglia di un nonno
patriota e di uno zio generale ».
Suo nonno cosa aveva fatto?
«Aveva
partecipato ai moti del 1848 e scontò per questo motivo dieci anni di
galera sotto i Borboni. Lo rinchiusero nel carcere di Procida. Poi,
accadde che Gladstone, ministro inglese, venne in visita a Napoli e
restò turbato da ciò che vide. Pronunciò allora la frase: “Il regno di
Napoli è un abominio del genere umano”. Fu così che il re scelse alcuni
politici rinchiusi in galera, li imbarcò su una nave, con destinazione
Sudamerica. C’era anche Luigi Settembrini fra i prigionieri esuli. E suo
figlio, per aiutare il padre, si imbarcò come cuoco. In realtà, fu
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