lunedì 28 ottobre 2013
Un libro di Giorgio Agamben
Risvolto
Chi è Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea
davanti al quale si svolse il processo a Gesù che si concluse con la
crocifissione? Un tiranno crudele e spietato o un funzionario pavido ed
esitante, che si lascia convincere dal sinedrio a condannare un uomo che
ritiene innocente? Una maschera ironica e disincantata che pronuncia
battute memorabili ("Che cos'è la verità?", "Ecce Homo!", "Quel che ho
scritto, ho scritto") o una severa figura teologica senza la quale il
dramma della passione non avrebbe potuto compiersi? Rimettendo in scena
il processo in tutte le sue fasi, Agamben ne propone una inedita e
puntuale lettura. Nel dialogo fra Pilato e Gesù, due mondi e due regni
si stanno di fronte: la storia e l'eternità, il sacro e il profano, il
giudizio e la salvezza.
Davanti a Pilato
Perché Gesù fu condannato senza ricevere un giudizio
Nel suo saggio Agamben rilegge l’incontro tra Cristo e il procuratore come il conflitto tra due mondi destinati a non sfiorarsi
di Gustavo Zagrebelsky Repubblica 28.10.13
Le
narrazioni evangeliche dei detti e dei fatti riferiti a Gesù sono da
sempre un fondo inesauribile d’interpretazioni teologiche, politiche e
teologico-politiche d’ogni genere. Ciò vale in modo particolare per il
processo davanti a Pilato e la morte in croce del Nazareno. Giorgio
Agamben, in un suo recente, densissimo piccolo libro dal titolo Pilato e
Gesù(Nottetempo), compie, intorno a quelle vicende, una ricerca
archeologica nel senso ch’egli, nei suoi studi, attribuisce all’arché
delle cose. Ciò che vale per l’archeologo che si pone sulle tracce delle
civiltà sepolte, ne disseppellisce i reperti, li ripulisce dalla
polvere, dalla sabbia e dalle incrostazioni e li riporta in pristino
stato, vale anche per l’archeologo che va alla ricerca non di cose,
manufatti o singoli avvenimenti, ma del significato primigenio delle
cose. Non si tratta del piacere erudito per leantiquitates. È invece
ricerca dei significati originari, occultati, travisati, manipolati nel
corso del tempo ma, tuttavia, soggiacenti e pronti a riemergere, se e
quando qualcuno li riporti alla luce e, così, in vita.
Secondo
l’interpretazione ricevuta, Gesù fu sottoposto a un processo promosso
dai sinedriti per ragioni di natura religiosa (blasfemìa) che
comportavano la messa a morte. Poiché, però, nella provincia romana
della Palestina l’autorità locale aveva perduto il potere di vita e di
morte e lo jus gladii era passato nelle mani del procuratore di Cesare,
essi si rivolsero a Pilato, muovendo un’accusa di sedizione. Pilato, a
conclusione d’un processo svoltosi tra dubbi, titubanze e viltà,
pressato dalla folla aizzata dai sacerdoti, forse contro la sua stessa
volontà lo condannerà alla crocifissione in base alla lex Julia
maiestatis. La regolarità delle procedure è stata oggetto di accanite
discussioni, secondo il diritto romano del tempo e secondo i precetti
vigenti nella Giudea d’allora (la più approfondita discussione in
proposito è, a mia conoscenza, quella del giurista israeliano Chaim
Cohn, Processo e morte di Gesù, Torino, Einaudi, 2000). Agamben non
entra nel merito di questa discussione perché non ne ha bisogno. La sua
tesi, fondata su una lettura del Vangelo di Giovanni, è che non si
trattò affatto, né poteva trattarsi, di un giudizio, con tanto di atto
d’accusa, discussione tra le parti, sentenza di condanna.
La chiave
per la comprensione della tesi di Agamben è in Gv3, 17: «Dio non ha
mandato il suo figlio nel mondo per giudicarlo, ma per salvarlo».
Pilato, a sua volta, è invece in Palestina per giudicare, non per
salvare. Tra salvazione e giudizio c’è la distanza che separa due mondi
incommensurabili che non possono incontrarsi, almeno fino alla
consumazione dei tempi. La salvazione riguarda il regno di Dio, del
quale il Cristo si proclama signore: riguarda la “economia della
salvezza”, il mondo di lassù; il giudizio riguarda invece il regno degli
uomini, del quale signore è il Cesare di Roma e, in nome suo, il
procuratore in Palestina, il mondo di quaggiù. Nel faccia a faccia tra
Pilato e Gesù, vi sarebbe stato dunque solo contatto esteriore di questi
due mondi, ma non una relazione capace di generare un autentico
giudizio (giusto o ingiusto: non è questo che interessa). Ogni vero
giudizio ha una struttura bilaterale che si compone in unità nella
sentenza. Se fosse unilaterale, non vi sarebbe sentenza, ma violenza.
«Qui davvero [nel litostrato, pavimento di pietra] … due regni stanno
l’uno di fronte all’altro senza riuscire a giungere a compimento. Non è
nemmeno chiaro chi giudichi chi, se il giudice legalmente investito dal
potere terreno o il giudice per scherno [riferimento al manto di
porpora, alla canna come scettro, alla provocazione: “Giudicaci!” messa
in bocca ai Giudei] che rappresenta il Regno che non è di questo mondo. È
possibile, anzi, che nessuno dei due pronunci veramente un giudizio »
(p. 53).
La reciproca estraneità impedisce dunque a Pilato di
pronunciare la sentenza. Come potrebbe, in quanto governatore del regno
di quaggiù, giudicare il regno di lassù? Il procedimento, infatti,
secondo Agamben, si conclude con un fatto materiale: la mera consegna di
Gesù –traditio – ai suoi carnefici (Gv 19, 16). D’altra parte, Gesù
prende laparola soltanto per affermare l’estraneità del suo regno a
quello di Pilato e la comune discendenza dell’uno e dell’altro dalla
volontà del Padre. Ma, in quello che avrebbe dovuto essere il suo
processo, egli tace completamente. Testimoniare, qui e ora, della verità
del Regno che non è qui e ora, significherebbe accettare che ciò che
vogliamo salvare ci possa giudicare, che le creature giudichino
l’eterno: accettare, cioè, come verità ch’esse non vogliono essere
salvate. Poiché nei giudizi terreni non possono esserci parole di
salvazione, al Cristo non è dato d’intrecciare le sue parole con le
loro. Simmetricamente, però, anche a Pilato è tolta la parola, perché il
giudizio non può avere a che fare con la salvezza. Pilato, sotto questo
aspetto, evitando di pronunciare la sentenza, si mostra consapevole
della natura della questione che pende davanti a lui. «Qui è la croce,
qui è la storia », conclude Agamben così, con una piccola frase in cui
si compendia un’incomprensione, un’impossibilità d’incontro,
plurimillenaria.
Se abbiamo bene compreso,quali che siano le ragioni
testuali su cui si basa l’interpretazione di Agamben, un’altra tessera
nel processo interpretativo delle vicende del processo e della morte di
Gesù viene a collocarsi accanto a numerose altre. Non solo: si tratta
d’una visione che va ben al di là di questo. Riguarda in generale il mai
risolto rapporto tra i due regni: il reddite Caesari e il reddite Deo
di Mt 22, 21. Secondo la vulgata, Gesù è condannato da tutte le potenze
della terra, simbolizzate dall’accordo di Pilato, delle autorità del
sinedrio e della folla, coalizzati contro l’irruzione, ch’essi
rifiutano, del divino nella storia umana. In questa interpretazione c’è
conflitto, perché Cesare prevarica su Dio: un mondo (i poteri della
terra) entra nell’altro mondo (la misericordia divina) e lo sconfigge
con una sentenza di morte. Ma, la strada, tuttavia, è aperta per
l’opposta soluzione del conflitto: la sconfitta del mondo da parte della
misericordia divina: «Padre, perdona loro…».
Secondo Agamben, il
processo e la morte di Gesù sarebbero invece impostati sul presupposto
d’un dualismo terra-cielo senza incontro, né gerarchia tra loro. A
Pilato, il giudizio; al Cristo, la salvezza: punto e basta. Se vengono a
confronto, «finiscono in un comune, indeciso e indecidibile non liquet»
(p. 63) perché entrambi hanno le loro autosufficienti che non solo non
s’incontrano e non si scontrano, ma hanno anche il medesimo, altissimo,
fondamento in Dio: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti
fosse stato dall’alto » (Gv 19,11). Il medesimo concetto è sviluppato da
San Paolo nel celeberrimo capitolo XIII della lettera ai Romani, il cui
senso si compendia nel “nulla potestas nisi a Deo” che ha, come
corollario, l’invito, rivolto ai cristiani, a stare sottomessi alle
autorità costituite.
Questo dualismo senza interferenze conduce però a
un’impasse morale, a un paradosso che può rivelarsi tragico in
situazioni estreme, come fu quella d’un fedele cristiano ch’era anche
cittadino leale al potere. Ne ricordiamo la vicenda per mostrare quanto
le più apparentemente astratte discussioni teologiche possano incidere
nella carne viva delle persone. Un uomo di fede evangelica certa – Kurt
Gerstein (recentemente menzionato in un libro di Marco Rizzo, Cesare e
Dio, Bologna, il Mulino, 2009) – nel momento della presa del potere da
parte di Hitler, aveva aderito al nazismo, arruolandosi nelle SS. A
fondamento della sua scelta stava il «date a Cesare quel che è di Cesare
» e il «nulla potestas nisi a Deo». Nel 1938, però, scoppia la
contraddizione. Davvero, egli si chiese, la parola di Dio «si trova
nelle stelle», come dice Schiller; davvero la giustizia di cui parlano i
potenti della terra è solo una “prostituta di Stato” e davvero, la voce
di Dio non ha nulla da dire in proposito, riservandosi per il momento
finale della consumazione dei tempi? Tormentato da una coscienza
impigliata tra due fedeltà contraddittorie, a Dio e a Hitler, alla fine
trovò la via d’uscita togliendosi la vita. Ecco che cosa può significare
per un cristiano che prende sul serio la sua fede l’idea che il cielo
sta a guardare la terra, nel tempo in cui sulla terra ci tocca di
vivere. Se fosse così, il cristiano che s’interroga su che cosa il suo
Dio chiede da lui dovrebbe riconoscere che questa sua domanda cade nel
vuoto e dovrebbe disperare: il suo Dio non gli fornisce criteri di
giustizia, perché sua è soltanto la salvezza e la salvezza sta in cielo,
non in terra. Gli verrebbe a mancare ogni punto d’appoggio morale.
Cadrebbe nel vuoto il motto degli apostoli, condotti a giustificarsi di
fronte al sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»
(Atti 5, 29).
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