venerdì 19 settembre 2014

Un nuovo governo della malavita

La questione non è se i fassini e i landini si piegheranno, ma quando [SGA].

L’opposizione Pd a cena con D’Alema
Il piano per arginare il segretario L’ex ministro ai suoi: non ha tenuto fede a ciò che mi aveva detto sulla Ue Al tavolo anche Speranza e i neo componenti della segreteria Campana e Amendola
Anche due esponenti lontani come Civati e Fioroni stanno studiando iniziative comuni
di Maria Teresa Meli qui Corriere 18.9.14

Se il premier diventa inevitabile
di Giovanni Orsina La Stampa 18.9.14

L’inevitabile. Così già nel 1903, quando l’età giolittiana cominciava appena, Francesco Papafava definì Giovanni Giolitti in una delle sue acutissime cronache politiche per il «Giornale degli Economisti». L’apatia rassegnata con la quale l’altroieri le Camere hanno accolto il discorso di Renzi lascia credere che, dopo più d’un secolo, di «inevitabile» la politica italiana ne abbia infine trovato un altro. Il parallelismo non è soltanto retorico o giocoso: se vogliamo davvero comprendere la mutazione profonda che il sistema politico italiano ha subito negli ultimi tre anni, guardare a Giolitti e all’Italia liberale potrebbe esserci assai più utile che restare aggrappati alle logiche bipolari per il momento del tutto superate del 1994-2011, o a quelle partitiche del 1948-1992.
Col discorso di martedì – in particolare coi passaggi su lavoro e giustizia, nei quali ha preso posizioni che solo con grande sforzo possono esser distinte da quelle della tradizione berlusconiana – Renzi ha completato un’operazione che, in senso tecnico e non morale, potremmo definire trasformistica: ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro.
È un pezzo che quest’operazione va prendendo forma, del resto: si pensi soltanto alle retoriche e ai ragionamenti sul Pd «partito della nazione» che hanno cominciato a circolare all’indomani delle elezioni europee e sono proseguiti per tutta l’estate.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche quella che sta compiendo il presidente del Consiglio si collega – causa e conseguenza insieme – all’evanescenza politica delle opposizioni. Troppo deboli in partenza per impedire a Renzi di conquistare il centro, i suoi avversari sono condannati adesso a scegliere fra due vie ugualmente perdenti: o condurre un’opposizione del tutto sterile, o convergere con lui, ma in posizione subalterna. Sulla prima strada si è buttato il Movimento 5 stelle – che, pur andando ancora bene nei sondaggi, a un anno e mezzo dalle elezioni si configura in termini politici come un’esperienza completamente fallimentare. La seconda opzione è invece quella a cui sempre più si va accomodando Forza Italia, con buona pace di Renato Brunetta. A guardarli, salgono davvero alla mente gli avversari dell’uomo di Dronero: il povero Sidney Sonnino, galantuomo impolitico i cui due governi non riuscirono a durare più di cento giorni l’uno; i socialisti perennemente oscillanti fra la collaborazione e il sovversivismo; i radicali che non sapevano più da che parte girarsi, finché non si misero in pancia a Giolitti dando due ministri al suo quarto gabinetto.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche in questo caso i dissensi e le insoddisfazioni, frustrati e compressi dall’assenza di uno sbocco politico, riemergono di continuo in maniera surrettizia, disordinata, distruttiva. Tutte le votazioni a scrutinio segreto che si sono svolte nelle Camere negli ultimi tempi, ad esempio, hanno sistematicamente dato un risultato differente da quello che ci si aspettava sulla carta – fino allo psicodramma attuale dell’elezione dei giudici costituzionali. O ancora: Renzi, che come ogni buon comunicatore ha bisogno di nemici, non riesce a trovarne neppure uno che abbia un volto e un’identità precisi, e deve continuare all’infinito a sgranare il rosario, tanto vago quanto stucchevole, dei gufi e rosiconi.
L’inevitabile Giolitti lo era a tal punto che la sua era è durata fino al 1914. Fra l’uomo di Dronero e quello di Pontassieve, però, corrono due differenze fondamentali. La prima: Giolitti poteva governare un parlamento sminuzzato e caotico perché si appoggiava su tre pilastri: il sovrano; la capacità di convocare e condizionare le elezioni; un controllo ferreo sulla macchina amministrativa, fatto di grande competenza e durezza sorprendente. A Renzi un punto d’appoggio al Quirinale certo non manca, ma non si sa per quanto tempo ancora resterà. Le elezioni il presidente del Consiglio le minaccia, proprio perché soltanto così può sperare di aver ragione delle opposizioni striscianti – ma la minaccia non è efficacissima, visto che non è facile darle davvero seguito. La macchina amministrativa, infine, per lui non è una soluzione, ma un problema.
La seconda differenza è che il sistema politico giolittiano era fatto per funzionare così, e altro non si conosceva. Il trasformismo renziano viene invece dopo quasi vent’anni di bipolarismo – e i protagonisti stessi dell’operazione trasformistica, l’uomo di Pontassieve e quello di Arcore, restano in teoria dei bipolaristi convinti. Bisognerà capire, in queste circostanze, se la soluzione trasformista oggi provvisoria è destinata a farsi permanente, complici il sistema elettorale proporzionale attualmente in vigore e le viscosità della cultura politica italiana. Oppure se stiamo vivendo una fase di transizione verso il ripristino di una situazione di competizione politica nella quale di «inevitabili», almeno, ce ne siano due.

Il Pd si spacca
Fassina: “Dal governo ricette di destra É inaccettabile” Iniziativa Cgil-Cisl-Uil, sindacati verso lo scioperodi Giovanna Casadio 
Repubblica 18.9.14
ROMA L’emendamento al Jobs Act del governo spiazza il Pd. In direzione martedì Renzi aveva detto: «Ne discuteremo, sul lavoro ci confronteremo». Ma ieri mattina la proposta del contratto a tutele crescenti e lo spettro dell’abolizione dell’articolo 18 erano sul tavolo della commissione Lavoro del Senato. Una doccia fredda. La sinistra dem è ormai in trincea. Al punto che stamani alle 8 è stata convocata a Palazzo Madama la riunione del gruppo. I democratici avevano chiesto ci fosse subito il ministro Giuliano Poletti, che però è impegnato a Livorno.
Il clima è teso, mai la spaccatura era stata così profonda nel partito, perché ne va del Dna del Pd. E intanto la Cgil leva gli scudi. Il segretario Susanna Camusso non esclude uno sciopero coinvolgendo Cisl e Uil: «L’articolo 18 è uno scalpo per i falchi dell’Unione europea». Non ci sono rassicurazioni che bastino.
Arrivano dal fronte renziano, precisazioni e distinguo.
Stefano Lepri, senatore, vice presidente del gruppo dem, spiega che il dado è tratto e che però restano i diritti acquisiti e il cambiamento si applicherà ai nuovi contratti. Anzi il lavoratore potrà scegliere se scambiare un maggior reddito con la rinuncia alla certezza del posto fisso. Ma Epifani, Fassina, Bersani avvertono dei rischi. Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, denuncia la resa alla destra: «Per onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che Sacconi ha ragione: l’emendamento proposto dal governo contiene tutte le ricette della destra, agognate per anni e arginate finanche durante il governo Monti, in condizioni politiche molto meno favorevoli di oggi».
Un attacco alzo zero a Renzi. L’ex segretario Pierluigi Bersani sposta un po’ il tiro, convinto com’è che l’incrociare di spade sull’articolo 18 rappresenti tanto rumore per nulla, però invita a procedere «senza strappi» e giudica inaccettabile di intervenire sullo Statuto dei lavoratori a colpi di decreto. Epifani, che ha traghettato il Pd nel post Bersani ed è stato a capo della Cgil, invita alla discussione. I “pontieri” provano a calmare le acque. Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio a Montecitorio, pensa a una mediazione di Cesare Damiano, alla guida della commissione Lavoro, ex ministro, di sinistra dem.
Molti insistono sul modello tedesco. La sinistra denuncia l’arretramento passo dopo passo delle tutele dei lavoratori. «Discuteremo: l’assemblea del gruppo è interlocutoria», dice Luigi Zanda, il presidente dei senatori democratici. Rita Ghedini, tra i membri della commissione Lavoro al Senato, chiederà di avere subito una riunione del partito, dal momento che «dobbiamo decidere adesso, non fra due settimane».
Tra quindici giorni infatti è prevista una direzione ad hoc. Però lo scontro a quel punto potrebbe già essersi consumato.

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