La questione non è se i fassini e i landini si piegheranno, ma quando [SGA].
L’opposizione Pd a cena con D’Alema
Il piano per arginare il segretario L’ex ministro ai suoi: non ha tenuto fede a ciò che mi aveva detto sulla Ue Al tavolo anche Speranza e i neo componenti della segreteria Campana e Amendola
Anche due esponenti lontani come Civati e Fioroni stanno studiando iniziative comunidi Maria Teresa Meli
qui Corriere 18.9.14
Se il premier diventa inevitabile
di Giovanni Orsina La Stampa 18.9.14
L’inevitabile.
Così già nel 1903, quando l’età giolittiana cominciava appena,
Francesco Papafava definì Giovanni Giolitti in una delle sue acutissime
cronache politiche per il «Giornale degli Economisti». L’apatia
rassegnata con la quale l’altroieri le Camere hanno accolto il discorso
di Renzi lascia credere che, dopo più d’un secolo, di «inevitabile» la
politica italiana ne abbia infine trovato un altro. Il parallelismo non è
soltanto retorico o giocoso: se vogliamo davvero comprendere la
mutazione profonda che il sistema politico italiano ha subito negli
ultimi tre anni, guardare a Giolitti e all’Italia liberale potrebbe
esserci assai più utile che restare aggrappati alle logiche bipolari per
il momento del tutto superate del 1994-2011, o a quelle partitiche del
1948-1992.
Col discorso di martedì – in particolare coi passaggi su
lavoro e giustizia, nei quali ha preso posizioni che solo con grande
sforzo possono esser distinte da quelle della tradizione berlusconiana –
Renzi ha completato un’operazione che, in senso tecnico e non morale,
potremmo definire trasformistica: ha colmato parte del fossato che
divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande
confluenza al centro.
È un pezzo che quest’operazione va prendendo
forma, del resto: si pensi soltanto alle retoriche e ai ragionamenti sul
Pd «partito della nazione» che hanno cominciato a circolare
all’indomani delle elezioni europee e sono proseguiti per tutta
l’estate.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche
quella che sta compiendo il presidente del Consiglio si collega – causa e
conseguenza insieme – all’evanescenza politica delle opposizioni.
Troppo deboli in partenza per impedire a Renzi di conquistare il centro,
i suoi avversari sono condannati adesso a scegliere fra due vie
ugualmente perdenti: o condurre un’opposizione del tutto sterile, o
convergere con lui, ma in posizione subalterna. Sulla prima strada si è
buttato il Movimento 5 stelle – che, pur andando ancora bene nei
sondaggi, a un anno e mezzo dalle elezioni si configura in termini
politici come un’esperienza completamente fallimentare. La seconda
opzione è invece quella a cui sempre più si va accomodando Forza Italia,
con buona pace di Renato Brunetta. A guardarli, salgono davvero alla
mente gli avversari dell’uomo di Dronero: il povero Sidney Sonnino,
galantuomo impolitico i cui due governi non riuscirono a durare più di
cento giorni l’uno; i socialisti perennemente oscillanti fra la
collaborazione e il sovversivismo; i radicali che non sapevano più da
che parte girarsi, finché non si misero in pancia a Giolitti dando due
ministri al suo quarto gabinetto.
Come sempre accade nelle operazioni
trasformistiche, anche in questo caso i dissensi e le insoddisfazioni,
frustrati e compressi dall’assenza di uno sbocco politico, riemergono di
continuo in maniera surrettizia, disordinata, distruttiva. Tutte le
votazioni a scrutinio segreto che si sono svolte nelle Camere negli
ultimi tempi, ad esempio, hanno sistematicamente dato un risultato
differente da quello che ci si aspettava sulla carta – fino allo
psicodramma attuale dell’elezione dei giudici costituzionali. O ancora:
Renzi, che come ogni buon comunicatore ha bisogno di nemici, non riesce a
trovarne neppure uno che abbia un volto e un’identità precisi, e deve
continuare all’infinito a sgranare il rosario, tanto vago quanto
stucchevole, dei gufi e rosiconi.
L’inevitabile Giolitti lo era a tal
punto che la sua era è durata fino al 1914. Fra l’uomo di Dronero e
quello di Pontassieve, però, corrono due differenze fondamentali. La
prima: Giolitti poteva governare un parlamento sminuzzato e caotico
perché si appoggiava su tre pilastri: il sovrano; la capacità di
convocare e condizionare le elezioni; un controllo ferreo sulla macchina
amministrativa, fatto di grande competenza e durezza sorprendente. A
Renzi un punto d’appoggio al Quirinale certo non manca, ma non si sa per
quanto tempo ancora resterà. Le elezioni il presidente del Consiglio le
minaccia, proprio perché soltanto così può sperare di aver ragione
delle opposizioni striscianti – ma la minaccia non è efficacissima,
visto che non è facile darle davvero seguito. La macchina
amministrativa, infine, per lui non è una soluzione, ma un problema.
La
seconda differenza è che il sistema politico giolittiano era fatto per
funzionare così, e altro non si conosceva. Il trasformismo renziano
viene invece dopo quasi vent’anni di bipolarismo – e i protagonisti
stessi dell’operazione trasformistica, l’uomo di Pontassieve e quello di
Arcore, restano in teoria dei bipolaristi convinti. Bisognerà capire,
in queste circostanze, se la soluzione trasformista oggi provvisoria è
destinata a farsi permanente, complici il sistema elettorale
proporzionale attualmente in vigore e le viscosità della cultura
politica italiana. Oppure se stiamo vivendo una fase di transizione
verso il ripristino di una situazione di competizione politica nella
quale di «inevitabili», almeno, ce ne siano due.
Il Pd si spacca
Fassina: “Dal governo ricette di destra É inaccettabile” Iniziativa Cgil-Cisl-Uil, sindacati verso lo scioperodi Giovanna Casadio Repubblica 18.9.14
ROMA
L’emendamento al Jobs Act del governo spiazza il Pd. In direzione
martedì Renzi aveva detto: «Ne discuteremo, sul lavoro ci
confronteremo». Ma ieri mattina la proposta del contratto a tutele
crescenti e lo spettro dell’abolizione dell’articolo 18 erano sul tavolo
della commissione Lavoro del Senato. Una doccia fredda. La sinistra dem
è ormai in trincea. Al punto che stamani alle 8 è stata convocata a
Palazzo Madama la riunione del gruppo. I democratici avevano chiesto ci
fosse subito il ministro Giuliano Poletti, che però è impegnato a
Livorno.
Il clima è teso, mai la spaccatura era stata così profonda
nel partito, perché ne va del Dna del Pd. E intanto la Cgil leva gli
scudi. Il segretario Susanna Camusso non esclude uno sciopero
coinvolgendo Cisl e Uil: «L’articolo 18 è uno scalpo per i falchi
dell’Unione europea». Non ci sono rassicurazioni che bastino.
Arrivano dal fronte renziano, precisazioni e distinguo.
Stefano
Lepri, senatore, vice presidente del gruppo dem, spiega che il dado è
tratto e che però restano i diritti acquisiti e il cambiamento si
applicherà ai nuovi contratti. Anzi il lavoratore potrà scegliere se
scambiare un maggior reddito con la rinuncia alla certezza del posto
fisso. Ma Epifani, Fassina, Bersani avvertono dei rischi. Stefano
Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, denuncia la
resa alla destra: «Per onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che
Sacconi ha ragione: l’emendamento proposto dal governo contiene tutte le
ricette della destra, agognate per anni e arginate finanche durante il
governo Monti, in condizioni politiche molto meno favorevoli di oggi».
Un
attacco alzo zero a Renzi. L’ex segretario Pierluigi Bersani sposta un
po’ il tiro, convinto com’è che l’incrociare di spade sull’articolo 18
rappresenti tanto rumore per nulla, però invita a procedere «senza
strappi» e giudica inaccettabile di intervenire sullo Statuto dei
lavoratori a colpi di decreto. Epifani, che ha traghettato il Pd nel
post Bersani ed è stato a capo della Cgil, invita alla discussione. I
“pontieri” provano a calmare le acque. Francesco Boccia, presidente
della commissione Bilancio a Montecitorio, pensa a una mediazione di
Cesare Damiano, alla guida della commissione Lavoro, ex ministro, di
sinistra dem.
Molti insistono sul modello tedesco. La sinistra
denuncia l’arretramento passo dopo passo delle tutele dei lavoratori.
«Discuteremo: l’assemblea del gruppo è interlocutoria», dice Luigi
Zanda, il presidente dei senatori democratici. Rita Ghedini, tra i
membri della commissione Lavoro al Senato, chiederà di avere subito una
riunione del partito, dal momento che «dobbiamo decidere adesso, non fra
due settimane».
Tra quindici giorni infatti è prevista una direzione ad hoc. Però lo scontro a quel punto potrebbe già essersi consumato.
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