martedì 21 ottobre 2014

Scacco matto dell'imbroglione giovane: verso il premio di lista e il bonapartismo compiuto

Mentre il PD prepara il colpo finale alla democrazia in Italia, per Repubblica il vero scandalo è il M5S che espelle i dissidenti. Non c'è bisogno di avere simpatia per Grillo (io non ne ho per nulla) per riconoscere che il titolone di oggi, che mette sapientemente in contrapposizione il concetto di espulsione e quello di apertura, è una sintesi della malafede e della manipolazione giornalistica imperante [SGA].

Il cerchio rosso sui dissidentiCome può una forza che si candida a governare il paese dare di sé l’immagine di una setta nella quale il potere è nelle mani di un’eminenza grigia?di Sebastiano Messina Repubblica 21.10.14








Italicum, premio alla lista. Anche Alfano dice sìLegge elettorale. No di Forza Italia, ma Berlusconi è tentato di accettareAndrea Colombo, il Manifesto 21.10.2014 


Con due paro­lette but­tate là quasi a casac­cio di fronte alla Dire­zione Pd, Mat­teo Renzi rove­scia come un cal­zino l’Italicum: «Sarebbe meglio il pre­mio alla lista anzi­ché alla coa­li­zione». Che il pre­si­den­tis­simo avesse in mente que­sta “lieve” cor­re­zione alla legge par­to­rita nelle segrete stanze del Naza­reno era noto da set­ti­mane, ma la ten­ta­zione assume ora i con­torni di una pro­po­sta pre­cisa. E inca­mera subito, a sor­presa, il sì dell’Ncd. «Siamo asso­lu­ta­mente favo­re­voli», risponde Ange­lino Alfano e non lesina spie­ga­zioni: M5S e Pd non hanno biso­gno di coa­liz­zarsi, men­tre «il cen­tro­de­stra è fram­men­tato tra euro­pei­sti e anti­eu­ro­pei­sti, dun­que non è più coalizzabile».Gli scis­sio­ni­sti di Fi, in con­creto, vogliono poter cor­rere da soli, senza essere costretti a un’alleanza che li ripor­te­rebbe sotto il tal­lone di Arcore o addi­rit­tura li costrin­ge­rebbe ad abbrac­ciare una Lega che ha ripreso più che mai vigore. Nella ver­sione ori­gi­na­ria della legge naza­rena, con due soglie diverse per i coa­liz­zati e i soli­tari, sareb­bero stati costretti ad allearsi, essendo di fatto proi­bi­tiva la soglia per i par­titi non coa­liz­zati. Col pre­mio alla lista, la dop­pia soglia invece scom­pa­ri­rebbe. Anche così, però, cor­rere da soli vuol dire gio­carsi tutto alla rou­lette russa. Il pre­mio alla lista avvan­tag­gia gio­co­forza il voto utile: non a caso Renzi, nello stesso discorso, si è schie­rato senza mezzi ter­mini a favore del bipartitismo.Il segreto, pro­ba­bil­mente, va indi­vi­duato in un altro pas­sag­gio, piut­to­sto sibil­lino, del discorso di Alfano: «Va rivi­sta la soglia di sbar­ra­mento tec­nico che biso­gna cal­co­lare per acce­dere a quel 45% di rap­pre­sen­tanza degli ita­liani, se il 55% va al primo par­tito». Potrebbe pro­fi­larsi qual­cosa in più dell’ovvia richie­sta di abbas­sare la soglia. L’Ncd potrebbe chie­dere di modi­fi­care il sistema di cal­colo delle per­cen­tuali, in modo che siano valu­tate non sul totale del corpo elet­to­rale ma sul 45%. In ogni caso, con una soglia sen­si­bil­mente abbas­sata, i cen­tri­sti avreb­bero ottime pos­si­bi­lità di entrare in Par­la­mento per poi pro­porsi, in caso di bal­lot­tag­gio, nelle vesti di junior part­ner, come dichiara all’Huff Post Quagliariello.L’incognita è Fi. A botta calda fioc­cano i no. «Se que­sto è il metodo di Renzi non si va da nes­suna parte: pronti a discu­tere ma senza impo­si­zioni leo­nine», attacca subito la testa calda Bru­netta. E’ tutt’altro che iso­lato: il coro azzurro è una­nime e con­corda con lui. Per­sino Ver­dini avrebbe con­si­gliato al capo di pun­tare i piedi: «Così siamo morti: al bal­lot­tag­gio ci vanno Pd e M5S». Invece il cava­liere è ten­tato dall’accettare, e del resto quel pas­sag­gio del discorso di dome­nica, «vin­ce­remo da soli», pun­tava in quella dire­zione. In parte dipende dal fatto che anche re Sil­vio, dopo vent’anni di tor­menti, delle coa­li­zioni non ne può più e ritiene che col pre­mio di lista, pur per­dendo le pros­sime ele­zioni poli­ti­che, spaz­ze­rebbe via ogni for­ma­zione di destra, con la sola esclu­sione del Car­roc­cio. Sem­pre che, però, le soglie non ven­gano abbas­sate di molto, come chie­derà Alfano. In parte mag­giore, il “sui­ci­dio” azzurro rispon­de­rebbe a logi­che e a mer­can­teg­gia­menti che c’entrano sì con gli inte­ressi di Ber­lu­sconi, non con quelli poli­tici però. Infine il cen­tro­si­ni­stra: il pre­mio alla lista spaz­ze­rebbe via ogni pos­si­bile con­cor­renza, ma senza il ritorno delle pre­fe­renze eli­mi­ne­rebbe anche ogni dis­senso interno al Pd. Non ha tutti i torti l’azzurra Ravetto quando afferma che così «il Pd diven­te­rebbe la Lista Renzi».


Il nuovo scarto del premier per arrivare al bipartitismo
di Maria Teresa Meli Corriere 21.10.14

ROMA «Io preferisco l’arroganza alla mancanza di ambizioni»: è uno dei motti preferiti di Renzi. Ma quando le aspirazioni sono alte, anche la sfrontatezza si può archiviare. Perciò chi si aspettava un premier irridente nei confronti della minoranza è rimasto deluso.
Certo, Renzi è rimasto fermo sulle sue posizioni ma ha replicato a tutti gli oppositori «con grande calma», come aveva preannunciato ai fedelissimi. Anche sulla Leopolda, disegnata come un partito parallelo. Però per uno la cui «ambizione per l’Italia non è fare meglio della Grecia, bensì della Germania», per uno che sogna di mettere un punto se non definitivo almeno «di svolta» sulle riforme «entro sei mesi», ingaggiare una polemica con Cuperlo o Fassina non è il caso.
Tant’è vero che quando è scoppiato il caso delle tessere del Pd e all’epoca il bravissimo Luca Lotti era riuscito a scoprire che non erano ancora pervenunuti tra gli iscritti nomi di peso come quelli di Bersani, Fassina e Civati (com’è naturale che sia, quando non vi sono congressi locali in vista), Renzi non ha voluto assolutamente che queste notizie filtrassero all’esterno. A lui avrebbero fatto gioco. Al suo progetto no.
E il suo progetto è semplice: quello di prendere per mano il Pd e portarlo in un territorio più ampio, «offrirgli i nuovi consensi», che può dargli la Leopolda e non solo quella. «Perché — confida il premier agli amici — anche gli ex gril-lini ci stanno facendo delle avances». E così gli espulsi pentastellati diventano un potenziale bacino elettorale per quella forza politica che «va da Gennaro Migliore ad Andrea Romano», passando per i cattolici che non vogliono entrare nel Nuovo centrodestra.
Il «partito della Nazione», lo ha chiamato Alfredo Reichlin, il «partito degli italiani», ha preferito chiamarlo in tempi passati il premier. Il partito che fa paura alla minoranza di Largo del Nazareno perche non è la sinistra che si allarga al resto ma è una nuova forza politica, o, meglio, sempre per dirla alla Renzi, «è il progetto originario del Pd». Su questo il capo del governo ha pochi dubbi: «Per me bipolarismo significa bipartismo». Più chiaro di così.
Tradotto in legge elettorale: «Premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, sbarramento del 5 per cento e ballottaggio dal 40 in su». Certo, c’è un problemino che si chiama Berlusconi. Renzi però non è pessimista: «Vediamo — spiega ai suoi — perché lui ci sta ancora ragionando. Non ha chiuso tassativamente, come pure è stato scritto, anche se non ha ancora fatto un’apertura decisa e definitiva, però...». Però «si potrebbe presentare l’occasione adatta», insiste il premier. E c’è chi, in Forza Italia, giura che l’ex Cavaliere oscilla. E che, sotto sotto, si rende conto, che le aziende vengono prima di tutto e che quindi che senso avrebbe dare un dispiacere a Renzi? Verdini per ora lo frena, ma chi conosce il premier sa quanto possa essere insistente. E persuasivo.
Anche per questo, ieri, in Direzione, di tutto aveva voglia tranne che di mettersi a litigare con la minoranza interna, peraltro sempre più sparuta. Aveva cose più importanti da fare. «Il Jobs Act dobbiamo portarlo a casa a gennaio ed entro aprile dobbiamo dimostrare che cosa siamo capaci di fare», è il suo leitmotiv. Ossia ben prima dei famosi mille giorni di tempo che si era dato. Nel frattempo urge una decisione, che verrà presa ad horas: la sostituzione di Federica Mogherini agli Esteri. Renzi sembra orientato su Marina Sereni (anche se questa sua scelta potrebbe portare alle dimissioni del viceministro Lapo Pistelli), anche per rinsaldare il suo rapporto con Fassino, benché i bookmakers di Montecitorio non diano ancora in calo le azioni di una renziana di ferro come Simona Bonafè. 


Italicum, Matteo apre un doppio fronte
di Marcello Sorgi La Stampa 21.10.14

Proponendo, seppure per inciso, alla direzione del Pd di modificare l’Italicum per passare dal premio di coalizione a quello di lista, Matteo Renzi ieri ha aperto - in realtà riaperto - un doppio fronte, interno e esterno. Una legge maggioritaria a doppio turno con premio per il partito, e non per la coalizione, che prende più voti, avrebbe come effetto di trasformare le prossime elezioni in un referendum su Renzi. Lui e Grillo farebbero la campagna l’un contro l’altro armati, né più né meno come alle ultime europee, ma Renzi, vincendo, com’è probabile, conquisterebbe la maggioranza, avendo anche il potere di ridisegnare in gran parte la compagine dei parlamentari che dovrebbero poi dargli la fiducia.
Si tratterebbe di una svolta presidenzialista, oltre che maggioritaria. Logico che non sia piaciuta alla minoranza del Pd, che per bocca di Gianni Cuperlo si era spinta a proporre una convivenza da “separati in casa” tra le varie componenti del partito, una sorta di confederazione aperta alla possibilità estrema di una scissione nel caso in cui l’emarginazione in cui la minoranza è stata ridotta dalla gestione renziana dovesse consolidarsi. Con Renzi padrone delle liste e del premio elettorale gli spazi per gli ex-Pci verrebbero invece ulteriormentente a ridursi.
Non è affatto sicuro,però, che su una simile ipotesi concordi l’altro firmatario del “patto del Nazareno”: il premio di coalizione, com’è stato inserito nel testo dell’Italicum approvato dalla Camera, porterebbe il centrodestra a riunirsi, superando per causa di forza maggiore tutte le divisioni e le difficoltà degli ultimi tempi, quello di lista no. Quanto questo processo di riunificazione sia difficile, per non dire irrealistico, lo dimostrano le sterili (fin qui) trattative per cercare di ricostruire la coalizione in vista delle regionali. Politicamente infatti la contraddizione in cui il centrodestra si trova è che Berlusconi è ancora il solo ad avere un (ridotto) potenziale elettorale, ma è anche quello che impedisce la trasformazione della sua parte in una normale federazione democratica, in cui il leader e i candidati ai vari livelli sono scelti tramite primarie. Di qui le resistenze dell’ex-Cavaliere: quanto forti, non si sa, dato che Berlusconi alla fine non delude mai Renzi e di recente è sempre più disamorato del suo partito, abbandonato a una lotta correntizia infinita e senza rimedio.
Favorevoli all’ultima proposta di Renzi sono invece i partiti minori, sia di governo, come l’Ncd, sia di opposizione, perché il premio alla lista porterebbe con se l’abbassamento della soglia di sbarramento per l’ingresso in Parlamento. Al primo turno, insomma, ognuno potrebbe presentarsi per conto suo: salvo poi rinegoziare i propri voti prima del ballottaggio, in cambio di impegni sulla composizione del governo.

Il Sole 21.10.14
Renzi sente la vocazione maggioritaria ma gli serve la legge elettorale
di Stefano Folli


Verso la Leopolda: il premier non ama che gli oppositori parlino di «partito parallelo»
Nel mezzo del contrasto irrisolto con le regioni e dovendo ancora mettere a punto il testo della legge di stabilità, Matteo Renzi non ha paura di restare con le mani in mano. Ma il premier è soprattutto un uomo politico con un progetto in testa. E oggi più che mai tale progetto passa attraverso la legge elettorale. Senza questa riforma, oggi meno vicina di quanto non si creda, l'intera strategia renziana rischia di avvilupparsi nelle sue contraddizioni: un grande dinamismo a cui corrispondono enormi attese, ma risultati tutt'altro che certi.
Anche ieri, nella direzione del Pd, Renzi ha lasciato capire che quasi tutto ruota intorno alla legge elettorale. Nelle sue mani essa è lo strumento per governare la legislatura – in quanto diventa credibile la minaccia di sciogliere le Camere – e per gestire il suo stesso partito. Su quest'ultimo terreno il premier-segretario ha imparato a muoversi in spazi assai ristretti. Si capisce perché: il Pd di oggi non è una "comunità" politica bene assortita, né ha la possibilità di diventarlo a breve. È piuttosto una "confederazione", come dice Cuperlo. Qualcosa di simile, forse, alla vecchia Dc, dove però non esisteva un capo carismatico e incombente, come tende a essere oggi Renzi nel centrosinistra. Quindi la "confederazione" è sbilanciata e instabile, tenuta insieme dalla voglia di rivincita più che da un disegno condiviso.
D'altra parte la fazione "renziana" non può nemmeno assomigliare a una corrente vecchio stile, del tipo di quelle in cui si divideva, appunto, la Dc. È comprensibile che i collaboratori del premier si risentano se qualcuno evoca questo termine per definire il convegno di sabato, la famosa Leopolda. Naturalmente c'è sempre il rischio che emerga una sorta di "partito parallelo", un movimento "renziano" che fa gioco a sé all'interno del Pd. Ma nemmeno questo va bene al premier per via dei rischi che comporta; ed ecco perché il suo sentiero oggi appare tortuoso.
La legge elettorale sarebbe, almeno nelle intenzioni, la panacea di tutti i mali. Un Pd a "vocazione maggioritaria": la vecchia definizione di Veltroni è tornata in auge e una ragione c'è. Nel partito rimodellato dalla riforma la maggioranza governerebbe e la minoranza interna sarebbe garantita nei suoi spazi residui. In Parlamento il premio in seggi offrirebbe la massima tranquillità, specie quando il sistema sarà monocamerale. Non a caso, per rafforzare tale prospettiva, Renzi ha riproposto con tenacia l'idea del premio di maggioranza assegnato non più alla coalizione, bensì alla lista vincitrice. Ossia, secondo le previsioni, al solo Pd. E infatti il premier ha citato Gennaro Migliore e Andrea Romano come protagonisti di un fenomeno che aggrega le forze da sinistra (ex Sel) e dal centro moderato (ex Scelta Civica).
Ora si tratta di capire quanto sia davvero convinto Berlusconi di una riforma che regala un gran numero di seggi a un singolo partito, anziché a un'alleanza di forze politiche. I dubbi sono legittimi. Per un verso l'innovazione può piacergli, visto che l'intesa con Alfano oggi sarebbe insufficiente e quella con Salvini problematica. Per l'altro verso c'è un problema non di poco conto perché Forza Italia oggi risulta terza in tutti i sondaggi, superata anche (e in misura rilevante) dai Cinque Stelle. Grillo è senza dubbio in crisi di idee e di strategia, ma i suoi elettori non lo hanno del tutto abbandonato. Non ancora. E comunque è difficile che tornino da Berlusconi.


La svolta bipartitica del patto del Nazareno
di Roberto D'Alimonte Il Sole 21.10.14

Sulla riforma elettorale c'è una grossa novità. Per ora sulla carta. Nella versione dell'Italicum approvata alla Camera il premio di maggioranza può andare sia a un partito singolo che a una coalizione di partiti. Era così anche nel sistema elettorale bocciato dalla Consulta. Erano i partiti a scegliere se presentarsi da soli o in compagnia. Ma sembra che Renzi e Berlusconi abbiano cambiato idea. Secondo quanto il premier ha detto nella direzione del Pd di ieri il nuovo progetto dovrebbe cancellare la possibilità che i partiti concorrano in coalizione nella gara per conquistare il premio. Devono andare da soli. Berlusconi lo aveva già detto qualche settimana fa, ma sembrava una dichiarazione estemporanea. Adesso che lo ha detto anche Renzi siamo davanti a un fatto nuovo di grande rilievo.
Nell'attuale versione dell'Italicum il premio alla coalizione è inserito in un sistema di regole, fortemente voluto da Verdini, che lo rendono funzionale al progetto di ricompattare il centrodestra intorno a una coalizione dei moderati a guida Forza Italia. Il meccanismo chiave è quello della soglia con lo sconto. Attualmente chi decide di presentarsi alle elezioni da solo deve avere l'8% dei voti per ottenere seggi. Se invece si entra in coalizione allora la soglia si abbassa al 4,5%. Con questo meccanismo il Ncd di Alfano, Fdi della Meloni e la Lega di Salvini sono "costretti" a fare l'accordo con Berlusconi per non rischiare di restare fuori dalla Camera. E così Berlusconi torna ad essere il federatore del centrodestra italiano come ai bei tempi.
Oggi questo "schema verdiniano" sembra superato. Pare che Renzi e Berlusconi vogliano puntare dritti verso il bipartitismo. Non basta più il bipolarismo. Non una coalizione deve vincere le elezioni ma un partito. Va da sé che un sistema del genere semplifica non solo il quadro politico ma anche l'ingegneria elettorale. Se il premio va al partito e non alla coalizione tutti i problemi legati al conteggio dei voti di liste coalizzate, ma sotto la soglia, o alla presentazione di liste fasulle, ma buone per raccattare qualche voto in più, sono superati. Tutto è più semplice e più comprensibile. Ma resta qualche dubbio.
Perché Berlusconi si è convinto a rinunciare allo "schema verdiniano"? Senza avere informazioni dirette è difficile rispondere. La vera ragione potrebbe essere la Lega. Il partito di Salvini non è più quello di Bossi, con cui il Cavaliere andava d'amore e d'accordo. La Lega non è più il partito della padania ma sta diventando il partito della destra nazionale. Una destra dura che assomiglia sempre di più al Fronte nazionale di Marine Le Pen. Con una destra del genere anche Berlusconi non può fare accordi. E allora forse meglio puntare a fare il partito unico dei moderati invece della coalizione dei moderati.
Resta da capire perché i partiti minori dovrebbero appoggiare un disegno del genere. Soprattutto quelli del centrodestra. Certo, se il premio va solo al partito e quindi sparisce lo sconto, il buon senso dice che la soglia dell'8% sarà abbassata. Immaginiamo che venga portata al 4%. A quel punto Ncd e Fdi, ma anche Sel, avrebbero in teoria una scelta: entrare nel partito unico (di centrodestra e di centrosinistra) o presentarsi da soli. La seconda opzione presenta il vantaggio che se nessuno dei maggiori partiti vince il premio al primo turno e si va al ballottaggio i loro voti possono diventare determinanti. Ma in primo luogo dovrebbe essere modificato l'Italicum che al momento non prevede apparentamenti. E poi non è detto che questo evento si verifichi. Potrebbe invece verificarsi un evento ancora più deleterio per loro: potrebbero non superare la soglia e restare fuori dalla Camera. Ergo sparire. Si capisce che per Alfano e soci tornare sotto le ali del Cavaliere è cosa indigesta, ma sparire forse lo è ancora di più.
Ora capita che il Ncd sia un alleato di Renzi al governo. Per essere più precisi il premier non ha al Senato la maggioranza senza i voti del Ncd. L'Italicum in versione bipartitica può essere approvato anche senza i voti di Alfano ma poi Alfano che fa? Continua a stare al governo con il Pd come se nulla fosse? E se non succede Renzi il governo con chi lo fa? Oppure punta al voto con l'attuale sistema elettorale proporzionale, quello disegnato dalla Consulta? L'incertezza sotto il cielo è ancora tanta.


Renzi vuole un nuovo Pd “Il partito della nazione con gli ex Sel e Scelta civica”
La minoranza attacca: “La Leopolda è un movimento parallelo” Il segretario nega: “Niente correnti e io non sono un usurpatore”
Repubblica 21.10.14

ROMA «’Sta Leopolda, veniteci. La drammatizzazione è stata un po’ un autogol... fa perdere». Renzi contrattacca alla fine di una direzione che deve parlare del futuro del Pd ma diventa subito un match con la minoranza dem su chi vuole veramente bene al partito. Gianni Cuperlo denuncia: «Matteo, con la Leopolda cosa stai facendo? Dobbiamo essere chiari, se tu costruisci e rafforzi un partito parallelo scegli un particolare modello, la locomotiva si avvia in quella direzione e si porta appresso tutti gli altri vagoni. A quel punto andremo verso una confederazione». Verso una deriva. Non il solo attacco. Alfredo D’Attorre afferma che «il partitofederazione non reggerebbe una settimana».
Francesco Boccia chiede «si costruisca un’idea paese da sinistra». Pippo Civati vuole un referendum tra gli iscritti sul Jobs Act. Una pioggia di critiche.
Il segretario-premier assicura: «Prendo un impegno: mai e poi mai ci sarà la strutturazione di una organizzazione parallela sul territorio da parte mia, niente correnti». La sua idea di Pd è nella scommessa di allargare le maglie del partito, che includa perciò dalla sinistra di Gennaro Migliore a Scelta civica di Andrea Romano a Italia Popolare. Un Partito interclassista, maggioritario: il Partito della Nazione.
Un paio di «puntini sulle i», Renzi vuole metterli. Sulla fiducia, non si può fare come pare: la fiducia si vota, «dobbiamo darci delle regole», su questo non c’è libertà di coscienza. E’ l’avviso ai dissidenti. Poi rispetto reciproco. «Il rapporto tra di noi deve superare le tensioni che ci sono state - insiste - Per questo dico che così come non ci sono Flintstones contro innovatori non ci sono usurpatori contro legittimi detentori».
D’altra parte la politica è cambiata. Ora la parola di sinistra è «opportunità». E soprattutto è ormai «finito il voto a tempo indeterminato, è finito l’articolo 18 del voto. Non è che la gente continui a votare sempre gli stessi, comunque vada, gli elettori fanno zapping», ironizza. In questo nuovo paesaggio non c’è nessun Pd-confederazione. La Leopolda è uno spazio di libertà e bellezza della politica. Ci sarebbe molto da dire sul finanziamento del partito. Renzi il 6 a Milano e il 7 a Roma sarà alle cene di autofinanziamento. «Non è che si vuole bene solo al Pd ma anche al paese». E c’è la questione degli iscritti. Una polemica «fuori luogo» per Renzi che fa un raffronto con gli altri partiti di sinistra europei e però ammette che serve una riflessione.


Il baratro tra segretario e minoranza Due strade destinate a allontanarsi ancora
Il segretario si muove, i suoi oppositori restano fermi
di Federico Geremicca La Stampa 21.10.14

Che succede quando un partito - o almeno la sua nomenklatura - considera il proprio leader alla stregua di un usurpatore, di un «barbaro», e il leader - dal suo canto - vive il partito come un freno, una pesante e noiosa palla al piede? E’ l’inedito interrogativo al quale Renzi e il Pd dovranno ineludibilmente dare una risposta, visto che da ieri la minoranza interna e il segretario sembrano esser passati dalla guerra guerreggiata all’accidiosa incomunicabilità dei separati in casa. Il che, se possibile, è segno ancor peggiore.
La dialettica tra il premier-segretario ed i suoi oppositori non è più sintetizzabile, ormai, nemmeno con l’abusata immagine della rotta di collisione. Le traiettorie, infatti, divergono, si allontanano: per l’ottima ragione che il primo si muove (in direzione giusta o sbagliata si vedrà) ed i secondi sono fermi, ancorati ad antiche certezze ed al totem della tradizione.
Nulla di quel che il premier propone o fa è accettabile per gli oppositori: dalle riforme del Senato e della legge elettorale al jobs act, dagli 80 euro fino alla manovra appena varata, niente va bene. Per non parlare dell’idea stessa di partito: tema che ieri ha prodotto momenti di crudele comicità quando Renzi, rispondendo a chi lo accusava di aver organizzato un’altra Leopolda ormai essendo segretario, ha invitato tutta la Direzione ad andar lì (piuttosto che perdere tempo con la Cgil e noiosità simili).
E mentre gli oppositori son lì a piantonare la vecchia linea, Matteo Renzi utilizza l’idea veltroniana di partito a vocazione maggioritaria per calare la sua rete e provare - letteralmente - a cambiare fisionomia al Pd: vengano da noi, che c’è spazio, i deputati e i senatori usciti dai partiti di Vendola e di Monti. Dalla sinistra estrema, dunque, alla quasi destra (o centro tecnocratico, per dir così) in ossequio a un disegno che sembra esser quello di una sorta di «partito mangiatutto». Corollario tecnico di tale suggestione è un’idea che Renzi butta lì, quasi si trattasse di una faccenda da niente, di un dettaglio: cambiare il profilo dell’Italicum, attribuendo il premio di maggioranza non più alla coalizione vincente ma al partito più forte...
La tendenza al «partito mangiatutto» merita un inciso, per il gran parlare che si fa di Democrazia cristiana e delle similitudini con il Pd a trazione renziana. L’evocazione pare errata, e qui si annotano due soli punti di contatto: la sempre più ferrea organizzazione in correnti del Pd (confederazione, l’ha definito ieri Cuperlo) e una ormai evidente tendenza all’interclassismo (che si spiega, però, con l’incontestabile evidenza che il Pd oggi guida l’esecutivo: ed escludendo i soviet e le dittature di destra non c’è governo democratico che non fatichi per tener conto delle richieste delle diverse classi sociali).
Assai più evidenti e profonde, piuttosto, sono le differenze: a cominciare dal rigidissimo ancoraggio alle tradizioni che caratterizzava l’azione della Dc (quella cattolica, quella popolare: quella italiana, insomma), un partito che mai avrebbe battuto la via dei cosiddetti diritti civili; per continuare con l’idea stessa di modernità, e quel che ne consegue. Lo stesso straboccante modo di far politica di Matteo Renzi, a ben vedere, è distante anni luce da quello tradizionale dei maggiori leader democristiani, si pensi solo a Moro o ad Andreotti: così che è forse possibile dire, paradossalmente, che pochi dirigenti politici sono meno democristiani di quanto lo sia oggi Renzi, pure nato cattolico, popolare e perfino boy scout...
Al di là degli inevitabili corsi e ricorsi storici, quel che sembra aprire un baratro insuperabile tra il premier-segretario e la generazione di dirigenti che l’ha preceduto (da Bersani a Bindi, da D’Alema fino allo stesso «giovane» Cuperlo) è il rapporto con quello che un tempo si sarebbe ironicamente definito “il nuovo che avanza”. Soprattutto nel discorso di replica alla riunione di ieri della Direzione, Renzi è sembrato quasi tenere una lezione sul come affrontarlo: “I nuovi strumenti di comunicazione - ha detto ad un certo punto - impongono la disintermediazione. Non che i corpi intermedi non contino più, ma il rapporto con la gente si è fatto più diretto...”.
Potrebbe sembrare - e a molti che lo ascoltavano probabilmente così è sembrato - un ragionamento astruso, un po’ alla Casaleggio... E invece è la base teorica di una pratica politica che lo porta puntualmente a “scavalcare” i sindacati, la Confindustria, talvolta sindaci e presidenti di Regione, spesso la stessa magistratura. Nella sua costruzione del “partito mangiatutto” Renzi li bypassa e parla - ormai è noto - direttamente alla gente, al cittadino-elettore. Ieri, forse per la prima volta, si è avuta la sensazione che non avesse più voglia di parlare nemmeno al Pd: un partito che pare considerare sempre più un freno. Un partito - a detta di Renzi - che continua “a guardare al futuro come a una minaccia, piuttosto che un’opportunità”. Un partito inutile, o giù di lì...

Nessun commento: