martedì 25 novembre 2014

Tradotta l'ultima opera di Guy Debord

Questa cattiva reputazione...Apprezzo molto Debord, il quale - nonostante il trotzkismo di fondo - ha capito e ha spiegato molte cose con largo anticipo.
Tuttavia, ho fatto due corsi su di lui, a suo tempo e in anni diversi, e li ho dovuti interrompere entrambi per ricoverarmi d'urgenza in ospedale. O c'è qualcosa di freudiano nell'interprete, il che è possibile, o c'è qualcosa che non va nella materia e quindi non si sa mai e mi tocco... [SGA]. 

Guy Debord: Questa cattiva reputazionePostmedia Books



Il duello di Guy Debord con i professionisti della società dello spettacolo
Saggi. «Questa cattiva reputazione» di Guy Debord. Una meticolosa replica alle accuse provenienti dai «comunicatori» che diventa una sorta di testamento politico

Mattia Cinquegrani, il Manifesto 25.11.2014 

Sono le imma­gini pati­nate di uno spot pub­bli­ci­ta­rio del tutto simile – nel sapore e per lo stile – alle com­me­die musi­cali di Busby Ber­ke­ley ad accom­pa­gnare la voce asciutta e caden­zata di Guy Debord: «l’organizzazione spet­ta­co­lare di que­sta società di classe com­porta due con­se­guenze che sono ovun­que rico­no­sci­bili: da una parte, la fal­si­fi­ca­zione gene­ra­liz­zata dei pro­dotti così come dei ragio­na­menti; dall’altra l’obbligo, per tutti coloro che pre­ten­dono di tro­varvi ogni loro bene, di tenersi sem­pre a gran distanza da ciò che osten­tano di amare, poi­ché non hanno mai i mezzi, intel­let­tuali o di altro genere, per rag­giun­gere una cono­scenza diretta o appro­fon­dita, una pra­tica com­pleta e un gusto auten­tico». Così ha ini­zio Réfu­ta­tion de tous le juge­ments, tant élo­gieux qu’hostiles, qui ont été jusqu’ici por­tés sur le film “La société du spec­ta­cle”, quinto e penul­timo lavoro cine­ma­to­gra­fico dell’autore parigino. 
Troppo one­sto agli occhi del potere, troppo coe­rente nel mondo intel­let­tuale, troppo ela­bo­rato per il grande pub­blico. Per non finire costretto, egli stesso, in quel sistema che aveva instan­ca­bil­mente con­te­stato, per tutta la pro­pria vita Debord ha dovuto – e senza dub­bio anche voluto – rispon­dere tanto alle accuse sde­gnanti mosse con­tro la sua opera (e, a ben vedere, con­tro la sua per­sona) quanto a quelle lodi piene di esal­tata appro­va­zione e, pro­prio per que­sto, prive di valore. 
È certo dif­fi­cile scri­vere di un uomo che disprez­zava, aper­ta­mente e senza remore, la stampa «per quello che dice e per quello che è», ma l’uscita della tra­du­zione ita­liana – la pub­bli­ca­zione fran­cese risale a ven­tun anni fa, per Gal­li­mard – di Que­sta cat­tiva repu­ta­zione… (Post­me­dia, pp. 78, euro 9,90) è una buona ragione per pro­vare a farlo. Ultima opera di Debord, que­sto libello (pres­sap­poco come avve­niva in Réfu­ta­tion) pone sotto esame le aspre cri­ti­che for­mu­late dai media­tici – durante i cin­que anni pre­ce­denti alla prima pub­bli­ca­zione dell’opera – nei con­fronti delle teo­riz­za­zioni e della vita stessa dello scrittore. 
Ben lon­tano, tanto nella sua arti­co­la­zione quanto nella com­po­si­zione, da una excu­sa­tio non petita, dall’auto-assoluzione di un uomo ora­mai scon­fitto, que­sto volu­metto (scritto con una iro­nia forse ina­spet­tata) dice ancora molto riguardo alla società dello spet­ta­colo. L’autore rie­sce a tra­sfor­mare con suc­cesso la pro­pria posi­zione da quella di «oggetto da inda­gare» in quella di «mate­ria spec­chiante», sulla quale pro­iet­tare i mec­ca­ni­smi e le insa­na­bili con­trad­di­zioni della società. «In que­sta sede, – afferma nella con­clu­sione del libro – mi è pia­ciuto citarmi in più occa­sioni. Non ignoro che molti tro­ve­ranno que­sto fatto scioc­cante. Però nes­suno sarebbe tur­bato – e non sarebbe nean­che stato utile farmi que­sta cat­tiva repu­ta­zione – se mi fossi tro­vato, come gli altri, nell’impossibilità di citare ancora oggi quello che avevo pen­sato in precedenza». Le molte cri­ti­che mosse a Debord e qui ripor­tate «con pre­ci­sione (…) e in ordine cro­no­lo­gico, che è la cosa più impar­ziale», sono sem­pre ana­lisi inten­zio­nate: a coglierlo in fallo, a met­terne in discus­sione la mora­lità, a inven­tarne la con­trad­dit­to­rietà del pen­siero, a pro­durne la cor­ru­zione intel­let­tuale. A un uomo che, prima di tutto, si è sem­pre impe­gnato «sem­pli­ce­mente (a) fare quello che (amava) di piú» viene pro­gres­si­va­mente (ma con vio­lenza) sosti­tuita l’immagine di un bieco appro­fit­ta­tore, di un indi­vi­duo che ha sem­pre ope­rato cal­co­lando il pro­prio bene­fi­cio. D’altro canto, non vi è nulla che fac­cia più paura di una intel­li­genza impla­ca­bil­mente coe­rente con se stessa e poco affa­sci­nata dalle sirene del potere e della fama, nulla appare più sov­ver­sivo dell’integrità di chi sce­glie di vivere e di agire, sem­pli­ce­mente, «essendo quello che è».

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