domenica 15 febbraio 2015

Il manoscritto Voynich




Uno spiraglio sul codice segreto che respinse i traduttori di Enigma
Un matematico brasiliano scopre una coerenza linguistica nel manoscritto Voynich, dal Rinascimento incubo dei crittografi

di Fabio Sindici La Stampa 15.2.15

Il manoscritto prende il nome dal bibliofilo polacco Wilfrid Voynich (nella foto) che lo acquistò a Roma nel 1912, proveniente dalla biblioteca del celebre gesuita Athanasius Kircher inventore del fonografo e pioniere dell’Egittologia
L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo pagò 600 ducati d’oro per averlo nella sua collezione, al castello di Hradacany a Praga. John Tiltman, uno dei migliori crittografi dell’intelligence britannica, che insieme ad Alan Turing penetrò i codici nazisti, ci si ruppe la testa per trent’anni, dalla prima volta che lo vide fino alla morte.
Il manoscritto Voynich è il miraggio, l’ossessione dei crittografi, dei linguisti, degli studiosi di simboli, degli appassionati di enigmi. E la loro nemesi. In circa sei secoli, i segreti del suo alfabeto oscuro e delle illustrazioni che lo accompagnano non sono mai stati scalfiti. Fino a poco tempo fa, quando Diego Amancio, professore dell’Istituto di Scienze Matematiche dell’Università di San Paolo, in Brasile, non ha messo un computer di ultima generazione a interrogare le pagine del «manoscritto più misterioso del mondo». Riuscendo, forse per la prima volta, a trovare un senso nell’affascinante foresta di segni e figure che riempie fitta le 240 pagine del codice rinascimentale.
Amancio ha elaborato un modello statistico capace di mettere in relazione i caratteri tracciati sul vello; non li ha tradotti in un significato, ma ha accertato l’esistenza di un linguaggio dietro i segni sconosciuti. «La nostra ricerca ha mostrato che il Voynich presenta una grande quantità di modelli statistici simili a quelli di un linguaggio reale», spiega il professore brasiliano. Non è una traduzione, ma non è poco. L’impossibilità di decifrare il manoscritto aveva portato molti a pensare che fosse un’elaborata beffa, o una truffa ben congegnata. Si era ipotizzato che l’autore fosse John Dee, celebre mago e alchimista inglese, che lo avrebbe confezionato - e attribuito al filosofo Roger Bacon - appositamente per stuzzicare le curiosità molteplici di Rodolfo II, appassionato di alchimia ed esoterismo. Ma una prova al carbonio 14 ha accertato che il manoscritto risale ai primi decenni del 1400, più di un secolo prima della nascita dell’Asburgo.
I modelli matematici dell’istituto di San Paolo hanno rilevato costanti, «clusters di parole» nella scrittura del Voynich simili a quelli presenti in un libro. E hanno rilanciato gli studi sul mistero del manoscritto. Lo scorso anno, Stephen Bax dell’Università del Bedfordshire, ha proposto una traduzione per dieci parole e diversi caratteri, utilizzando un metodo che unisce l’esame dei caratteri a quello delle figure. 
Dal 2014, gli studiosi hanno potuto leggere il codice dagli schermi dei rispettivi personal computer, dopo che la Beinecke Library dell’Università di Yale ha deciso di metterlo interamente online, come un messaggio in bottiglia. Affidato all’indagine collettiva, dagli scienziati agli hacker. Ma cosa, in questo manoscritto oscuro, ha attirato la curiosità di crittografi, letterati, artisti?
Una strana bellezza, probabilmente. Che lo rende diverso da tutti i manoscritti dell’epoca. I segni hanno un’oscura eleganza. Le illustrazioni mostrano piante sconosciute (o assemblate da diverse parti di piante note, una sorta di ingegneria genetica); donne nude che percorrono un intricato sistema di tubi e si bagnano in ampolle che ricordano quelle di un fantastico laboratorio alchemico. E mappe astrologiche, diagrammi bizzarri, che contengono fornaci e vulcani, simboli di trasformazione, ninfe con corone da regine, che sorreggono stelle. Un’iconografia che ha colpito l’avanguardia artistica e letteraria. Tanto che il Codex Seraphinianus, libro d’artista degli Anni 70 di Luigi Serafini, ne cita le piante immaginarie e la scrittura fantastica. E il compositore contemporaneo Hanspeter Kyburz gli ha intitolato un concerto da Camera. 
Parte del fascino è nella sua storia. Dalle biblioteche degli alchimisti di Praga, a quella di Athanasius Kircher, l’eclettico gesuita che inventò il megafono e fu tra i fondatori dell’egittologia. Dal rivoluzionario e bibliofilo polacco Wilfrid Voynich che lo acquistò a Frascati, e gli diede il nome attuale, ai crittografi della Nsa americana che tentarono inutilmente di aprirne il codice. Se un codice c’è. Il Voynich sembra arrivato da una dimensione parallela, o da una congiura di intellettuali, come nel racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius di Jorge Luis Borges, dove un’enciclopedia rimanda a una serie di mondi immaginari. L’analisi statistica è riuscita a mettere in caratteri latini alcune parole del Voynich. E il tipo di linguaggio rivelato non fa pensare a un codice, ma a una lingua orientale, forse a un dialetto sino-tibetano. Ma cosa ci fa un dialetto dell’estremo oriente in un manoscritto dell’Europa del primo Rinascimento? La porta sul mistero del Voynich è stata appena socchiusa.

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