Massimo Bucciantini: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi, Torino, pagg. 392, € 32,00.
Risvolto
«Tra il 1888 e il 1889 attorno a Campo dei Fiori si concentrarono le speranze
e i timori di gran parte degli italiani che videro nella statua di
Giordano Bruno il simbolo supremo della libertà o della peggiore delle
maledizioni, del riscatto o della vergogna, di un'Italia fieramente laica
e anticlericale o di un'Italia priva di ogni valore morale e principio
di civiltà».
I cattolici piú intransigenti le cambiarono persino il nome. Dopo quanto
accadde la mattina del 9 giugno 1889 chiamarono quella piazza non piú
Campo dei Fiori ma Campo Maledetto. E nelle loro intenzioni sarebbe
rimasta tale fino al giorno in cui al posto del "monumento infame" non
sarebbe sorta una cappella di espiazione al Cuore Santissimo di Gesú.
Questo libro è il racconto drammatico di un conflitto durato la bellezza
di tredici anni, tanti ne occorsero per erigere quella statua. Un burrascoso
affresco che trovò linfa vitale nelle passioni di studenti innamorati
di Bruno e Mazzini, di Garibaldi e Oberdan, e decisi a mettere
in pratica un disegno radicale che in breve tempo si trasformò in una
seconda Porta Pia.
Ma Campo dei Fiori è anche il capitolo di una storia piú grande, che tra
la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento è scandita dalle battaglie
per l'emancipazione femminile e il suffragio universale, per la cremazione
e l'abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole e della
pena di morte.
Sono trascorsi 125 anni dall'inaugurazione della statua, e oltre quattro
secoli da quando, all'alba di un giovedí di febbraio, a dorso di mulo,
Giordano Bruno venne trasportato in quella piazza, e lí legato a un
palo e bruciato vivo.
Campo dei Fiori è una biografia: la biografia
di una statua. Ma è anche un libro sull'Italia,
sulle tante debolezze del fronte laico e
sulla ostinata chiusura a ogni idea di modernità
presente nella Chiesa cattolica di allora.
È l'avvincente ricostruzione di una lotta
politica che ebbe numerosi protagonisti: il
movimento studentesco romano, Francesco
Crispi e la massoneria, Ettore Ferrari e Giovanni
Bovio, papa Leone XIII e i gesuiti della
«Civiltà Cattolica», Francesco De Sanctis,
Antonio Labriola, Giuseppe Garibaldi. E anche
un certo Armand Lévy, di professione
rivoluzionario, ex comunardo, esule, ebreo
e socialista, sconosciuto ai piú, ma che svolse
un ruolo decisivo nella fase preparatoria
del monumento.
Si trattò di una vera e propria battaglia laica
e anticlericale: una delle poche combattute
nel nostro Paese e che è giusto non dimenticare.
Non tanto per celebrarla quanto per
conoscerla, anzi forse è meglio dire per decifrarla:
attraverso la comprensione di uno
scontro che fu violentissimo e dei tentativi
compiuti per disinnescarlo, come delle alleanze
e degli opportunismi che di volta in
volta furono messi in campo per vincere la
partita o per rinviarla per sempre.
Il sogno Bruno dell’Italia laicaMassimo
Bucciantini ha scritto la storia del monumento di Campo dei Fiori
dedicato al filosofo bruciato in quella piazza nel 1600 L’inaugurazione, nel 1889, fu la prima vera uscita della nazione senza timori verso la Chiesadi Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 15.2.15
Di
fotoreporter ce n’erano parecchi, quel giorno in Campo dei Fiori, anche
se i loro nomi hanno poi faticato a entrare negli annali della grande
fotografia: Carlo Rocchi, M.C. Sirani, T. Fabbri... La manifestazione
popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno – Roma, 9
giugno 1889 – è una delle primissime nella storia d’Italia che sia
fotograficamente documentata, come nell’«istantanea» del «corteggio in
via Nazionale» pubblicata di lì a poco dall’«Illustrazione italiana». In
quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo
dei Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come
Italia laica. Per contestare al Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa
non più soltanto il potere temporale, ormai cancellato da Porta Pia, ma
anche il potere spirituale.
Treni speciali trasportano a Roma
pellegrini laici a migliaia, da Pisa, da Napoli, dai quattro angoli di
un Paese che è andato scoprendo negli anni precedenti – per effetto di
un’insistita campagna d’opinione – la figura stessa di Giordano Bruno:
il frate domenicano che la Chiesa della Controriforma aveva perseguitato
come apostata, condannato come eretico e infine, il 17 febbraio 1600,
bruciato vivo in Campo dei Fiori. Ventimila, nei calcoli della Questura,
i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo
disegnata da Ettore Ferrari (ma sembrano di meno, a dire il vero, nel
colpo d’occhio delle fotografie). Cui va aggiunta la gente affacciata
alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza, romani
benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai
popolani residenti nel Campo.
Invano il cardinale Rampolla,
segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la
cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire
biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla
capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per
l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni
d’Italia – consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci
garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari – sfilano in
corteo dalla stazione Termini a Campo dei Fiori. Il tutto in un clima di
festosa animazione descritto l’indomani dal cronista del «Messaggero»:
«Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano
Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie». «La folla
sparpagliata dovunque si fa sempre piu fitta», e «tutte le classi
sociali vi sono rappresentate». «Moltissime le donne» (ma anche di
queste, nelle fotografie scattate quel giorno, non se ne riconoscono poi
tante).
Era un sospirato punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di
Giordano Bruno. Coronava un progetto – vendicare il rogo inquisitoriale
del 1600 con il più parlante dei simboli, la statua della vittima eretta
nel luogo stesso del martirio – che risaliva a una dozzina d’anni
prima. Nel 1876 una manciata di studenti dell’università di Roma,
intraprendenti giovanotti originari delle province dell’ex Stato
pontificio, si erano visti regalare l’idea da un loro amico straniero:
un rivoluzionario francese per nascita e cosmopolita per vocazione, un
esule della Comune di Parigi che di nome faceva Armand Lévy. Progetto
abbracciato con entusiasmo da Giuseppe Garibaldi («possa il monumento da
voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla
baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del
Tevere»), ma poi arenatosi fra le secche della politica politicante,
quali davvero non mancavano lungo entrambi i versanti dell’Isola
Tiberina.
Secondo Massimo Bucciantini, che della statua di Campo dei
Fiori ha scritto adesso la fascinosa storia, il progetto sarebbe
definitivamente fallito senza l’intervento di un professore
universitario di filosofia destinato a contare nella vicenda del
socialismo italiano: Antonio Labriola. Nel 1885, fu grazie al prestigio
di Labriola che una rinnovata conventicola di studenti romani poté
rilanciare l’idea della statua raccogliendo adesioni – e sottoscrizioni,
cioè soldi – da tutta Europa e perfino dalle Americhe. Allora il
progetto perse il suo carattere più provinciale e striminzito, di
goliardata anticlericale, e assunse la cifra di un omaggio
internazionale alla libertà di pensiero. Quelli di Victor Hugo, Ernest
Renan, Henrik Ibsen, Walt Whitman, furono soltanto alcuni tra i bei nomi
che accettarono di figurare nel Comitato d’onore dell’erigendo
monumento a Giordano Bruno.
Una «brunomania» – come fu sdegnosamente
qualificata dai gesuiti della «Civiltà cattolica» – percorse la cultura
democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della
statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie
teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio
1888-89. A Roma, un Consiglio comunale politicamente moderato mantenne a
lungo un atteggiamento ostruzionistico. Ma a partire dal 1887, quando
alla presidenza del Consiglio dei ministri assurse un ex garibaldino del
peso politico di Francesco Crispi, la bilancia prese a pendere in
favore degli ammiratori di Bruno. E nell’autunno del 1888, quando gli
elettori della capitale elessero al Campidoglio una maggioranza
liberale, le condizioni furono riunite perché il bronzo della statua
potesse finalmente essere fuso.
Cammin facendo, i promotori del
monumento avevano dovuto rinunciare a raffigurare Bruno – come in un
primo bozzetto di Ferrari – alla stregua di un profeta trascinante, o
addirittura di un avatar capitolino della Statua della Libertà montata
in quegli anni tra Parigi e New York. Pur di realizzare il progetto,
avevano dovuto contentarsi di un Bruno statico e riflessivo, meno
apostolo che filosofo. Ma che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in
Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra
contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i
cattolici d’Italia, Sommo Pontefice in testa. Il 30 giugno, in
un’allocuzione davanti al Concistoro, Leone XIII tenne a ribadire come
Giordano Bruno fosse stato «doppiamente apostata, convinto eretico,
ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». «Così dunque le
straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro,
essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana
ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo».
Punto
d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno non riuscì a
costituire un punto di partenza. Nei decenni successivi al 1889,
l’Italia laica avrebbe perso più battaglie (sul divorzio, sul riposo
domenicale, sulle opere pie, sull’insegnamento religioso nelle scuole)
di quante ne avrebbe vinte. E la storia d’Italia avrebbe evidenziato –
sottolinea Bucciantini – tutti i limiti di un radicalismo astratto, da
salotto borghese o da cattedra universitaria, che inneggiava alla poesia
della scienza e della filosofia più di quanto praticasse la prosa della
riforma politica e sociale.
Alla lunga, il monumento di Campo dei
Fiori rischierà di sembrare niente più che il simbolo di un’inutile fuga
in avanti: il bronzeo giocattolo di un pugno di vincitori perdenti. E
quarant’anni dopo il 1889, nell’Italia dei Patti lateranensi, Benito
Mussolini sarà costretto a smentire pubblicamente – nel suo discorso di
ratifica del Concordato, il 13 maggio 1929 – le voci secondo cui lo
Stato aveva promesso alla Chiesa la demolizione del monumento di Campo
dei Fiori: «Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno,
malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è». Non avrà
bisogno, il Duce, di abbattere la statua dell’eretico. Perché a quel
punto l’Italia laica sarà già in macerie, sarà già crollata sotto i
colpi di mazza del clerico-fascismo.
Giordano Bruno e le sue ceneri parlanti
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