domenica 22 febbraio 2015

Renzi era già Bersani, era già D'Alema: tutti ricevono oggi ciò che hanno seminato e che meritano

Risultati immagini per calcio in culoUn premier che marcia spedito verso l’800
Michele Prospero, il Manifesto 21.2.2015 

È evi­dente che, con i decreti attua­tivi della fami­ge­rata carta di espro­pria­zione dei diritti deno­mi­nato Jobs Act, la Costi­tu­zione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fon­da­men­tali, anche se non ancora toc­cata in modo espli­cito, è inde­bo­lita dalla legi­sla­zione più recente, vera pistola pun­tata con­tro il resi­duale diritto del lavoro. Frutto della seconda costi­tu­zio­na­liz­za­zione, lo Sta­tuto del 1970 era il com­pen­dio di una con­giun­tura sto­rica irri­pe­ti­bile che pre­sen­tava con­di­zioni poli­ti­che più favo­re­voli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il sim­bolo della rela­tiva potenza accu­mu­lata dal lavoro, rispetto al domi­nio asso­luto del capi­tale, e la dimo­stra­zione dei frutti posi­tivi sca­tu­riti dalla con­giun­zione di con­flitto sociale e grande mano­vra politica. 
Ad essere col­pito dalla furia restau­ra­trice del governo Renzi è anzi­tutto il potere del lavoro e di con­se­guenza i diritti dei sin­goli dipen­denti si spen­gono come degli astratti postu­lati morali. Il segno di classe della riforma strut­tu­rale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sper­ti­cato elo­gio delle misure ren­ziane, le ha san­ti­fi­cate come l’eden resu­sci­tato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel docu­mento l’Ocse spiega le ragioni del suo inna­mo­ra­mento totale: «accre­scendo la pre­ve­di­bi­lità la norma riduce i costi reali dei licen­zia­menti, anche quando sono giu­di­cati ille­git­timi dai tri­bu­nali e inco­rag­gia le imprese». Sono felici sol­tanto per­ché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare. 
Quest’assalto nor­ma­tivo alla civiltà del lavoro, con la ridu­zione del costo del licen­zia­mento, secondo l’Ocse, è una divina bene­di­zione che accre­scerà la pro­dut­ti­vità per­ché, eli­mi­nando del tutto la pos­si­bi­lità del rein­te­gro per l’esclusione dall’impiego per motivi ille­git­timi, e ridu­cendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene get­tato sul lastrico, il Jobs Act sol­le­cita il risve­glio imme­diato degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Senza la sbri­ga­tiva libertà di licen­ziare, il capi­tale non rie­sce più a inve­stire, a inno­vare, a com­pe­tere. E quindi, il piano della nichi­li­stica espro­pria­zione del lavoro, con­ti­nua ad essere per­se­guito come la variante più allet­tante per rilan­ciare l’accumulazione in un paese che si accasa defi­ni­ti­va­mente nelle peri­fe­rie del capi­ta­li­smo glo­bale e che per il suo de te fabula nar­ra­tur guarda ormai all’Albania. 
La filo­so­fia del ren­zi­smo si com­pie nel segno di una inte­grale deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione del lavoro. E la sua genuina essenza ideo­lo­gica è con­te­nuta nella cele­bre for­mula sulla libertà dell’imprenditore di licen­ziare come segno di una grande inno­va­zione desti­nata a fare epoca. La nuova legi­sla­zione, in effetti, è il cuore delle stra­volte riforme post-moderne, quelle capo­volte costru­zioni giu­ri­di­che che sop­pri­mono tutele e pic­cole libertà dal biso­gno e asse­gnano pro­prio al sog­getto già eco­no­mi­ca­mente più forte il diritto di schiac­ciare il con­traente più debole della rela­zione lavorativa. 
Le con­di­zioni sociali della moder­nità sono basate gene­ti­ca­mente sul dif­fe­ren­ziale di potere tra capi­tale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scon­tro poli­tico della società di massa, cer­cava di cor­reg­gere con gli inter­venti della legi­sla­zione gli squi­li­bri sociali più macro­sco­pici con­fe­rendo poteri cor­ret­tivi al lavoro come potenza sociale col­let­tiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scol­pito anche sulla norma il potere legale san­zio­na­to­rio del capi­tale sul lavoro. Quando all’impresa si con­cede il diritto di licen­ziare il dipen­dente anche per un solo giorno ingiu­sti­fi­cato di assenza, le si con­se­gna un’arma di coer­ci­zione spro­por­zio­nata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che suc­chia l’essere della per­sona che lavora, nel silen­zio della cor­nice pub­blica. Ma Rous­seau spie­gava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e sem­plice san­zione uffi­ciale e for­male del domi­nio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a varia­bile inanimata. 
Ad domi­nio del capi­tale, scritto già a chiare let­tere nelle ogget­tive leggi dell’economia e con­fer­mato nelle ano­nime rego­la­rità impo­ste dalla divi­sione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo clas­si­sta che anni­chi­li­sce la rela­tiva auto­no­mia con­qui­stata nel Nove­cento dalla legi­sla­zione pub­blica nel cor­reg­gere le asim­me­trie del rap­porto sociale con norme det­tate dal senso civile e morale di un’epoca demo­cra­tica. Il giu­dice deve ammai­nare gli stru­menti roman­tici con i quali inse­guiva il mirag­gio della costi­tu­zio­na­liz­za­zione dei rap­porti di lavoro. Seb­bene con stru­menti coer­ci­tivi sca­ri­chi, per­ché privi di san­zione effet­tiva verso l’impresa ina­dem­piente, il giu­dice del lavoro aveva intro­dotto la legge e il con­tratto a più stretto col­le­ga­mento con l’essere del lavo­ra­tore. La bocca del giu­dice, nell’accertare la ade­guata pro­por­zione tra fatto e san­zione, ora si chiude dinanzi alla sover­chiante potenza dell’avere, del capi­tale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità. 

Si dise­gna una indi­vi­dua­liz­za­zione cre­scente delle rela­zioni eco­no­mi­che impo­nendo un secco rap­porto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incon­tra­stato e dall’altra il lavoro, sog­getto ancor più pre­ca­rio appeso alla deci­sione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrut­tu­ra­zioni, sull’opportunità di un demen­sio­na­mento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scam­bio inde­cente tra un (solo) nomi­na­tivo con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato e un effet­tivo potere di licen­ziare senza giu­sta causa cam­bia in pro­fon­dità i rap­porti di forza den­tro i luo­ghi di lavoro. Il sin­da­cato è invi­tato a uscire dalla fab­brica o dall’ufficio, non essendo più rile­vante il potere delle orga­niz­za­zioni nel trat­tare le con­di­zioni delle ristrut­tu­ra­zioni, degli esu­beri, dei tempi, delle mobi­lità, dei licen­zia­menti col­let­tivi.
Lo spie­gava bene Spi­noza: quando un sog­getto cede un potere, non ha più le chiavi per riven­di­care i suoi diritti. Non esi­stono infatti diritti frui­bili senza una potenza col­let­tiva che li sor­regge. E l’attacco del governo è, con qual­che per­versa siste­ma­ti­cità, indi­riz­zato con­tro le con­di­zioni (sociali e sin­da­cali) della potenza del lavoro. Strat­to­nato dalle stra­te­gie d’impresa che lo ren­de­vano una varia­bile sem­pre più pre­ca­ria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giu­ri­dica. Il pub­blico si ada­gia alle esi­genze fun­zio­nali dell’impresa pri­vata e costrui­sce un diritto con moduli, tempi, risar­ci­menti mone­tari richie­sti dal capi­tale. Con il suo turbo governo Renzi pro­cede a passi di gam­bero verso l’Ottocento. Nella sua fab­brica entra solo il car­tello che intima alla mano­do­pera di per­dere ogni spe­ranza di riscatto e di non distur­bare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato. 
Nel regime giu­ri­dico duale, cioè con la com­pe­ti­zione inne­stata dalla norma dise­guale che dif­fe­ren­zia tra vec­chi e nuovi assunti ser­ven­dosi di pro­fili discri­mi­na­tori, l’impresa spera di otte­nere mag­giori poten­ziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minac­cia in virtù di nuovi poteri dispo­si­tivi e san­zio­na­tori. Con il suo Pier delle Vigne, la coman­dante dei vigili urbani di Firenze nomi­nata sul campo capo dell’ufficio legi­sla­tivo di palazzo Chigi, Renzi ha dav­vero posto fine al costi­tu­zio­na­li­smo della repub­blica. Già sepolti i suoi sog­getti poli­tici (i par­titi ideo­lo­gici di massa), ora sono spenti anche i suoi sog­getti sociali, il lavoro come sovrano della costi­tu­zione eco­no­mica. E’ comin­ciata un’altra epoca nel segno della destra eco­no­mica, cioè con lo sfac­ciato potere dell’impresa, con la sua giu­ri­sdi­zione pri­vata spie­tata e senza con­tro­par­tite. Il lavoro è scon­fitto, ma non vinto.



La sinistra Pd incolla i cocci: «Si può incidere solo uniti» 
Democrack. All’assemblea di Cuperlo la carica anti jobs act (fuori tempo massimo). A marzo assemblea delle minoranze. «Renzi ha umiliato i parlamentari». Anche Boldrini: il governo ascolti le camere» 

Daniela Preziosi, il Manifesto 21.2.2015 

L’occasione dell’autocoscienza della sini­stra Pd, all’indomani dell’approvazione dei decreti del jobs act, la dà l’assemblea dell’associazione di Gianni Cuperlo, Sini­stra­dem, una delle tante sigle della fra­sta­gliata mino­ranza Pd. Arri­vano i molti. Non tutti. Non c’è per esem­pio Roberto Spe­ranza, il pre­si­dente dei par­la­men­tari Pd, oltre­ché capo­fila dei ber­sa­niani ’dia­lo­ganti’ (con Renzi) di Area rifor­mi­sta. La cor­rente che ha subito un dop­pio «schiaffo» — è la parola più ripe­tuta dal palco — dal jobs act, uno poli­tico l’altro isti­tu­zio­nale: per­ché il pre­mier ha tra­dito l’atto di fidu­cia fatto al momento del voto sul prov­ve­di­mento (in 29 invece non l’anno votato) inse­rendo le norme sul licen­zia­mento col­let­tivo che prima non erano spe­ci­fi­cate; e per­ché il governo non ha tenuto conto dei pareri nega­tivi delle com­mis­sioni, insomma dei par­la­men­tari delle camere. Pareri in cui il Pd per una volta si era espresso uni­ta­ria­mente, ren­ziani e anti­ren­ziani. «Il governo ha preso in giro il par­la­mento, umi­liando depu­tati e sena­tori che si sono impe­gnati per miglio­rare il testo: un atteg­gia­mento ingiu­sti­fi­cato e ingiu­sti­fi­ca­bile», secondo i sena­tori For­naro, Guerra e Pego­rer. Su que­sto anche la pre­si­dente della Camera Laura Bol­drini si fa sen­tire. I pareri delle com­mis­sioni par­la­men­tari, in caso di decreto, non sono vin­co­lanti, ma «sarebbe stato oppor­tuno tenerli nel dovuto conto», dice da Ancona, durante la visita a una scuola. E rin­cara: «Credo nei ruoli inter­medi, asso­cia­zioni, sin­da­cati. L’idea di avere un uomo solo al potere, con­tro tutti e in barba a tutto a me non piace. Non mi piace». 
A Roma anche Ste­fano Fas­sina è severo: «Nel nostro paese c’è una deriva ple­bi­sci­ta­ria della demo­cra­zia. Ormai si disco­no­scono i corpi inter­medi come Cgil, Cisl, Uil, le asso­cia­zioni di rap­pre­sen­tanza». Ma anche la demo­cra­zia interna del Pd lo «pre­oc­cupa»: «Negli ultimi dieci giorni, dopo la vicenda felice di Mat­ta­rella alla quale si è arri­vati non per gen­tile con­ces­sione del sovrano, sono avve­nuti due fatti di straor­di­na­ria gra­vità: votare da soli metà Costi­tu­zione, e il jobs act che ha igno­rato quanto deciso dalle com­mis­sioni e dall’odg della dire­zione nazio­nale del par­tito». In disac­cordo con lui Andrea Orlando, mini­stro della giu­sti­zia ma pre­sente all’assemblea da auto­re­vole espo­nente dei gio­vani tur­chi. «Que­sto governo affronta cose che per molto tempo sono state messe sotto il tap­peto, a par­tire dal tema del pre­ca­riato». Con quali risul­tati è cro­naca di que­sti giorni. I due hanno uno scam­bio poco cor­diale sotto il palco. 
Ma per quanto Fas­sina speri di cam­biare le regole del lavoro con una legge di ini­zia­tiva popo­lare (lo pro­pone la Cgil), e per quanto in molti ora chie­dano il finan­zia­mento degli ammor­tiz­za­tori sociali, il jobs act ormai è nelle mani del governo: cioè una sto­ria chiusa. Affi­data sem­mai al parere dei legali e della Corte Costi­tu­zio­nale, davanti alla quale Cgil e Fiom spe­rano di arrivare. 
Il futuro della mino­ranza Pd, anche della sua resi­dua (e inef­fi­cace) resi­stenza, è invece in un nodo di fondo: inven­tarsi qual­cosa per con­tare; o alzare ban­diera bianca. Ragiona Alfredo D’Attorre: «I pas­saggi suc­ces­sivi all’elezione del Capo dello Stato indi­cano che quando Renzi può pro­cede indi­pen­den­te­mente dal con­senso del pro­prio par­tito. Insomma: abbiamo inciso solo quando siamo stati uniti e deter­mi­nati». La pros­sima fron­tiera sarà il ritorno alla camera della legge elet­to­rale. Cuperlo, che è depu­tato, pro­mette bat­ta­glia, almeno sta­volta. «Ci bat­te­remo per modi­fi­care legge elet­to­rale, se il patto del Naza­reno non c’è più nulla lo impe­di­sce. Lo faremo e andremo fino in fondo». Anche Ber­sani si dichiara «leale alla ditta ma prima leale alla demo­cra­zia». Fas­sina insi­ste però sui com­por­ta­menti in aula: «A livello par­la­men­tare pos­siamo pro­muo­vere un coor­di­na­mento tra quelle per­sone che hanno anche pro­ve­nienze diverse e che però, non in astratto ma con com­por­ta­menti con­creti, hanno dimo­strato sul campo di volersi misu­rare su quello che sta suc­ce­dendo assu­men­dosi le pro­prie respon­sa­bi­lità». Magari, è la con­se­guenza, non votando un prov­ve­di­mento. Intanto l’appuntamento è a marzo per un’assemblea di tutte le sfu­ma­ture della sini­stra interna.


Jobs Act, Cgil: «Più precari e meno pagati, non è una riforma, è “ammuina”»
Jobs Act. Il governo: «Il Pil crescerà dell’1% nel 2020»
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Sul Jobs Act ci sono idee chiare. E incon­ci­lia­bili. All’indomani dell’approvazione defi­ni­tiva dei decreti su fles­si­bi­lità e ammor­tiz­za­tori sociali il governo Renzi ha emesso un comu­ni­cato dove sostiene che il prov­ve­di­mento avrà un impatto sul Pil addi­rit­tura del +1% nel 2020. Il tam tam ha messo di buo­nu­more le truppe ren­ziane che hanno esi­bito l’ottimismo d’ordinanza: «Dopo 20 anni alla flex si aggiunge secu­rity: ammor­tiz­za­tori, mater­nità, basta cococo coco­pro» ha scritto la mini­stra della fun­zione pub­blica Marianna Madia in un tweet cele­bra­tivo. Il sotto-segretario all’Istruzione Davide Faraone, che ha l’abitudine di inter­ve­nire su tutto, ha preso la mira con­tro la Cgil: «Il Jobs act è una riforma del lavoro seria e coe­rente. Ci dispiace che ci sia un atteg­gia­mento di resi­stenza. Quello schema di gioco che ci ha pro­po­sto la Cgil in que­sti anni non ha fun­zio­nato — dice — tanto è vero che la disoc­cu­pa­zione è aumen­tata. Noi stiamo pra­ti­cando un altro schema di gioco e pen­siamo che si vin­cente. I segnali che ci arri­vano sull’economia sono inco­rag­gianti, ma arri­vano per­ché c’è un governo che opera».
Dun­que, a metà del pome­rig­gio, dal fronte ren­ziano è spun­tata la seguente teo­ria: se dal 2078 a oggi, la disoc­cu­pa­zione è rad­dop­piata la colpa è della Cgil e non dei governi Ber­lu­sconi, Monti, Letta e Renzi. Gli ultimi tre gui­dati dalle «lar­ghe intese», con il Pd in prima fila. La rispo­sta del sin­da­cato è stata ispi­rata dall’ironia ed è stata affi­data a twit­ter con l’hashtag «solo ammuina»: i decreti attua­tivi del Job­sAct «non cam­bia­no­verso». Segue una serie di mes­saggi dove, in breve, si rias­su­mono le cri­ti­che ad un prov­ve­di­mento rite­nuto inef­fi­cace, inco­sti­tu­zio­nale e pro­dut­tore di nuova pre­ca­rietà a misura delle aziende– Quelle che hanno festeg­giato l’impresa ren­ziana. «Restano i cococo e si somma la mone­tiz­za­zione cre­scente. La pre­ca­rietà aumenta non dimi­nui­sce». Si cam­bia il nome del nuovo con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato intro­dotto da uno dei prov­ve­di­menti varati dal Cdm da «tutele cre­scenti» in «mone­tiz­za­zione crescente».
E ancora: «Più pre­ca­riz­zati, meno pagati», si legge ancora il pro­filo del sin­da­cato. «Sei a ter­mine, som­mi­ni­strato, a chia­mata, P. Iva, acces­so­rio, oppure sei inde­ter­mi­nato ma non più tute­lato. E se riven­di­chi i tuoi diritti sei deman­sio­nato o licen­ziato». Come si vede, sono idee dif­fi­cil­mente con­ci­lia­bili con quelle del fronte renziano.
Il sin­da­cato di Corso Ita­lia non è rima­sto da solo nel gioco delle dichia­ra­zioni con­trap­po­ste. Il segre­ta­rio della Uil Car­melo Bar­ba­gallo ha le idee chiare: «Hanno detto che avreb­bero tolto tutti i con­tratti di pre­ca­rietà, ma poi non l’hanno fatto. Sono dei bugiardi». Più pru­dente la rea­zione di Anna Maria Fur­lan, segre­ta­ria della Cisl: su alcune cose sono stati «fatti passi avanti» come per il con­tratto a tutele cre­scenti, men­tre su altre come lo sfol­ti­mento del numero dei con­tratti «il risul­tato è delu­dente». «Ci sono stati anche anche dei pareri non favo­re­voli da parte delle com­mis­sioni di Camera e Senato e forse sarebbe stato oppor­tuno tenerli nel dovuto conto» ha detto la pre­si­dente della Camera Laura Boldrini.
Rin­cara la dose il lea­der di Sel Ven­dola: «Que­sta è una con­tro­ri­forma. Con­ferma, nono­stante la volontà con­tra­ria del Par­la­mento, i licen­zia­menti col­let­tivi, non chia­ri­sce quali siano le risorse utili ad ali­men­tare gli ammor­tiz­za­tori sociali, con­ferma la spa­ri­zione dell’art.18, spa­ri­sce il diritto al lavoro e avanza il diritto al licen­zia­mento, restano 45 con­tratti ati­pici su 47». «Di cre­scente resta solo la pre­ca­rietà, culla della depres­sione eco­no­mica; riman­gono, per l’appunto, forme iper-flessibili come il lavoro a chia­mata e viene inco­rag­giata la »som­mi­ni­stra­zione» attacca il blog 5 Stelle di Grillo. Mau­ri­zio Sac­coni, gamba destra del governo, ha invece illu­strato i pros­simi passi dell’esecutivo: can­cel­lato lo sta­tuto dei lavo­ra­tori, creare un nuovo «Sta­tuto dei lavori» dove «rico­no­scere la pari dignità di tutti i lavori, dipen­denti e indi­pen­denti, con alcune tutele comuni».


Susanna Camusso “Firmiamo per un nuovo statuto dei lavoratori il governo cancella i diritti e non crea posti”

La leader della Cgil lancia la campagna per una legge di iniziativa popolare che ripristini l’articolo 18 con reintegro in caso di licenziamento illegittimo. “Coinvolgeremo il maggior numero di persone”

di Roberto Mania Repubblica 22.2.15

ROMA La sfida della Cgil al governo Renzi si chiama Nuovo Statuto dei lavoratori. «Si deve fare ogni sforzo — dice Susanna Camusso, segretario generale del sindacato più grande d’Italia — per ricostruire un diritto del lavoro dopo i danni determinati dalle scelte del governo. Vanno affermati diritti universali di tutti coloro che lavorano indipendentemente dal contratto».
È quel che dice il senatore del centrodestra Maurizio Sacconi secondo cui lo Statuto dei lavoratori è caduto ora va scritto uno Statuto dei lavori?
«No, assolutamente no. Il problema non sono i lavori — come sostiene il vero autore delle politiche del governo sul lavoro — il problema sono i diritti di coloro che lavorano. Nel decreto del governo non c’è alcuna estensione dei diritti e delle tutele. Non cambierà nulla ed è l’ennesima dimostrazione del baratro che c’è tra gli annunci e la realtà».
Parleremo del Nuovo Statuto. Renzi, intanto, ha detto che quella di venerdì è stata una “giornata storica” con l’abolizione dell’articolo 18 e la cancellazione delle false collaborazioni. Lei condivide?
«Ahimè sì. È stata una giornata molto negativa per le decisioni prese, per la filosofia che si è affermata, per il rapporto che si è stabilito con il Parlamento. Per i diritti, per i lavoratori, per i giovani è una giornata da segnare in nero, mi auguro che sarà al più presto cancellata».
Eppure, nel decreto c’è scritto che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Non è la richiesta della Cgil?
«Certo, ma quello che hanno realizzato non è un contratto a tempo indeterminato. Per noi il rapporto di lavoro porta in sé le tutele e il riconoscimento delle libertà dei lavoratori. La monetizzazione crescente non è un rapporto di lavoro nel quale si realizza la libertà del lavoratore. C’è piuttosto lo stato di perenne condizionamento, la costituzione di uno stato servile e non paritario».
Lei parla di uno stato “servile” del lavoratore perché è stato abolito il diritto al reintegro. Ma l’articolo 18 si applicava e si applica ai lavoratori già assunti solo nelle aziende con più di quindici dipendenti. Tutti gli altri sarebbero già oggi in condizioni di servilismo?
«La questione, come abbiamo sempre detto e come ha sempre affermato la giurisprudenza, è l’effetto deterrente che l’articolo 18 dispiegava: non mi puoi licenziare ingiustamente perché mi posso difendere. Ora, con la stessa filosofia della soglia del 3 per cento sull’evasione fiscale, si stabilisce che è accettabile un comportamento anche se illegittimo. Questa sì è davvero una rivoluzione o meglio una contro-rivoluzione. Ed è contro i soggetti più deboli».
La tesi del governo è che il superamento dell’articolo 18 toglie ogni alibi alle imprese e dunque offre più opportunità di lavoro ai giovani. Non vale la pena accettare meno diritti e più lavoro?
«Ci sarebbero più opportunità di lavoro se qualcuno si occupasse di creare lavoro. È che nessuno lo fa. Rimane sempre lo stesso bacino di tre milioni di disoccupati e del 40 per cento di giovani senza lavoro. Se solo si sbloccasse quella follia della legge sull’età pensionabile si determinerebbero 400 mila assunzioni senza bisogno di falcidiare i diritti, demansionare i lavoratori e creare precariato mascherato. Renzi sbandiera il vessillo del primato della politica e poi delega tutto alle imprese».
E se fosse vero che con il decreto 200 mila finti collaboratori saranno assunti, come ha detto Renzi, con un contratto a tempo indeterminato?
«Ecco: questo è il tipico modo di costruire una notizia. Tutti danno per scontato questa operazione ma nessuno andrà a verificare cosa, come e se si realizzerà. Ad esempio, dove sono i vincoli che permettono a un giovane collaboratore di chiedere la trasformazione del suo contratto? Non c’è niente. E in più tutti i contratti precari escono indenni dal decreto».
La Cgil proclamerà un nuovo sciopero generale?
«Continueremo la mobilitazione, con tutte le forme necessarie. Le ho detto: va ricostruito un diritto del lavoro. Dobbiamo mettere in campo una campagna che parli a tutto il Paese».
Per difendere il vecchio Statuto del 1970?
«A parte che, per fortuna, non è stato ancora del tutto smantellato, pensiamo che ci voglia una legge universale che riconosca a tutti gli stessi diritti perché non è vero che per riconoscere la modernità si debbano cancellare i diritti. Raccoglieremo le firme su questo per una legge di iniziativa popolare» Quando sarà pronta?
«Ci stiamo lavorando e coinvolgeremo il maggior numero di lavoratori, persone, associazioni, studiosi possibile».
Pensate anche di raccogliere le firme per un referendum abrogativo del Jobs Act?
«Non abbiamo escluso nulla. Valuteremo tutto ciò che è utile a sostenere la nostra proposta di legge».
Ma se la riforma dovesse funzionare non sarebbe una bella notizia anche per voi?
«Mi chiede se saremmo contenti di una ripresa dell’occupazione? Ne saremmo entusiasti. Vorrebbe dire che l’Italia, con il lavoro di tanti, è uscita dalla crisi. La realtà è però un’altra. Se la Fiat decide di assumere a Melfi lo fa non perché i diritti dell’articolo 18 sono stati cancellati ma perché, cambiando strategia, ha scelto di produrre un nuovo modello in Basilicata. La realtà dice anche che a maggio scadrà la cassa integrazione in deroga. Quelle persone saranno licenziate?».



Graziano Delrio Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “Non vedo una guida solitaria. C’è un leader e sono due cose differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership, ha un problema di modernità”

“Nessuna umiliazione del Parlamento vedremo tra un anno chi avrà avuto ragione”

intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 22.2.15

ROMA . Il sottosegretario a Palazzo Chigi Graziano Delrio risponde a Laura Boldrini che lamenta il totale disinteresse del governo per i pareri del Parlamento sul Jobs Act e accusa Renzi di essere un uomo solo al comando. «Non esiste un uomo solo al comando. Esiste un leader. Sono due cose differenti. Se la sinistra, e parlo in generale, è spaventata dalla leadership ha un problema di modernità ». Alla minoranza del Pd che annuncia battaglia contro l’Italicum, dice: «Tutto è migliorabile, ma il punto di equilibrio lo abbiamo già raggiunto con il testo votato in Senato». E interviene anche sul partito per assicurare che non nasce una corrente di catto-renziani «come area in cui l’appartenenza conta più del pensiero». Possono nascere invece «luoghi di riflessione leggeri, aperti, quasi disorganizzati per mantenere il collegamento con la società».
A proposito di correnti, la Sinistra dem vi accusa di non avere tenuto conto dei pareri parlamentari sui licenziamenti collettivi, di aver seguito la linea della trojka. In effetti tutti i deputati del Pd, senza distinzioni, vi avevano chiesto di cambiare.
«Ormai l’impostazione era quella. E si teneva con un equilibrio complessivo che per noi era l’unico a garantire la vera efficacia del provvedimento».
La presidente della Camera Boldrini fa capire che così avete umiliato il Parlamento.
«Abbiamo il massimo rispetto del Parlamento, però non rovesciamo la frittata. Il parere non era vincolante, non esisteva alcun obbligo di recepirlo. Il governo quindi ha esercitato un suo pieno diritto ma senza volontà di umiliare le Camere o i sindacati. Con quei decreti pensiamo di aumentare complessivamente l’occupazione per la prima volta dopo anni di perdita. Se ci sbagliamo siamo pronti a correggerci. Siamo convinti tuttavia che attraverso il mix di misure del Jobs Act fra un anno si vedranno dei risultati».
Non c’è invece la tendenza di Renzi a procedere evitando il confronto, a recitare la parte dell’uomo solo al comando come dice la stessa Boldrini?
«Non vedo l’uomo solo al comando. C’è un leader e sono due cose differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership, e non mi riferisco alla Boldrini parlo in generale, ha un problema di modernità. La sinistra ha bisogno di un leader come lo hanno avuto i grandi partiti storici. Come lo erano De Gasperi e Togliatti, Berlinguer e Moro. Eppoi Matteo non è solo. Ha intorno a sé un gruppo dirigente molto ampio e molto rinnovato. Nella squadra dei ministri, nei sindaci, sui territori. Qualcuno può pensare che non sia all’altezza ma non che non esista».
Un team di fedelissimi?
«E’ libero di non credermi, ma Renzi ascolta una quantità impressionante di persone del mondo del lavoro, dell’impresa, della cultura. Lo fa ogni giorno, è una ginnastica di ascolto che non si vede ma le garantisco, è costante, quotidiana. Non sono fedelissimi».
Vi confronterete con la minoranza sull’Italicum, cambiando i capolista bloccati e dando il premio alla coalizione al ballottaggio?
«L’obiettivo del governo è una buona legge elettorale e al Senato si è raggiunta un’intesa giusta. Proviamo a fare un flash back. L’Italia, un anno fa, era il Paese del caos, delle riforme bloccate, dell’instabilità. Un anno dopo, secondo l’Ocse, siamo il Paese che ha fatto il maggior numero di riforme strutturali e profonde. Eravamo gli osservati speciali dodici mesi fa e ora siamo un Paese guida dell’Eurogruppo, che aiuta a risolvere questioni enormi come la Grecia. Questa nostra credibilità, conquistata anche con il lavoro straordinario del Parlamento, non la manteniamo se si rimette tutto in discussione. Ogni cosa è migliorabile ma in linea di massima, sulla legge elettorale, il punto di equilibrio lo abbiamo già trovato».
Renzi non aveva promesso “mai più correnti nel Pd”? Sembra che lei e altri ne stiate preparando più di una.
«Con Matteo abbiamo sempre avuto un’idea molto ampia del partito, come di un campo largo, mai organizzato in settori o in correnti come quelle che si sono sempre conosciute».
Cioè?
«Gruppi dirigenti attraverso cui persone interessate trovano spazio e protagonismo solo perché appartengono a un consesso organizzato. Luoghi difensivi di questo genere non devono e non possono esistere nel Pd».
E allora?
«Allora, come avviene nella Cdu e in tutti i grandi partiti europei, si possono creare non aree di potere ma di pensiero. Le correnti vanno rottamate. Luoghi dove la società e i parlamentari riflettono sulle sfide della modernità possono invece avere un ruolo e offrire un contributo al partito».
Se non è zuppa è pan bagnato.
«Non è così. Io penso a iniziative leggere, aperte in cui mai l’appartenenza deve sostituirsi al pensiero. Penso al campo che crearono Moro e Dossetti. Certo non era una corrente a caccia di poltrone ma di profondità e di un rapporto con la vita quotidiana delle persone».
Questi movimenti intorno a Renzi non segnalano uno scontro tra fedelissimi per chi siede alla destra del capo?
«Non c’è nessuno scontro nel campo renziano. Vogliamo semmai moltiplicare i contributi e moltiplicare il protagonismo dei parlamentari, dei sindaci e degli amministratori locali. Potrà capitare che qualche volta marceremo divisi per colpire uniti, ma il rischio correntizio non esiste. Per me le correnti sono la morte delle persone libere».
Sul suo cellulare il numero di Renzi è sempre memorizzato come Mosè?
«Sempre. E la nostra Terra promessa è quella dove c’è più lavoro, dove ci sono più occupati».



La morsa blocca-politica

Renzi come Mussolini? Da una parte ci sono i consociativisti, dall’altra i maggioritari

di roberto D’Alimonte Il Sole 22.2.15

Renzi come Mussolini? Chi l'avrebbe mai detto un anno fa quando l'allora segretario del Pd è diventato premier che la sua determinazione a fare le riforme sarebbe stata paragonata all'autoritarismo del duce? Eppure è successo. All'indomani del recente voto alla Camera sulla riforma costituzionale ne abbiamo sentite di tutti i colori. La presunta deriva autoritaria imputata a Renzi è diventata un ritornello che rischia di far breccia tra cittadini sempre più disorientati. L'Aula semivuota della Camera è stata accostata addirittura all'Aventino del 1924. L’opposizione di Fi, Lega e M5s è diventata la voce di chi vuole difendere con tutti i mezzi la democrazia in pericolo. Anche chi non arriva a parlare di deriva autoritaria subisce il fascino perverso dell’aula semivuota. Perfino dentro la maggioranza di governo c’è chi pensa in buona fede, o forse no, che in una aula semivuota non si possa approvare la riforma della Carta. Questa è diventata la nuova tesi dei frenatori. Come se l’aula semivuota fosse qualcosa di sostanzialmente diverso dal voto di chi resta in aula e vota no.
A tutti costoro occorre ricordare ancora una volta che questo Parlamento liquido è il risultato di una elezione che ha creato una situazione politica fragilissima. Il 25 febbraio 2013 le urne non solo non hanno prodotto una maggioranza ma hanno portato in Parlamento forze incompatibili tra di loro. Partiti che non hanno un minimo denominatore comune come fu invece nella Assemblea Costituente nel 1946. In questo Parlamento, non in quello che vorremo ci fosse, la scelta è chiara: fare le riforme con chi ci sta o non farle per niente. Renzi ha scelto di farle con chi ci sta. Lo ha detto fin dall’inizio della sua avventura e sta tenendo fede alla sua strategia. Non è detto che ci riesca, ma ci prova. Il bello è che ora viene criticato perché vuole andare avanti da solo. Fino a poco tempo fa lo era perché voleva fare le riforme con Berlusconi. Questo è già un paradosso. Ma ce ne sono altri.
Le differenze tra il testo della riforma costituzionale approvato in Senato ad agosto 2014 e quello che sta per essere approvato alla Camera nei prossimi giorni sono modeste. Nessuna norma rilevante è stata modificata. Al Senato la riforma è stata approvata con i voti di Forza Italia. Non risulta che il partito di Berlusconi sia stato costretto a farlo. Si presume che lo abbia fatto perché la riteneva utile al paese. Adesso che lui e Renzi hanno litigato sulla elezione di Mattarella quella riforma, che il cavaliere dimezzato aveva sostenuto in agosto al Senato, non va più bene. È la stessa identica riforma ma non va più bene.
Ma non è la giravolta di Berlusconi che ci sorprende. Alla incoerenza del cavaliere siamo abituati. Quello che stupisce sono i commenti di chi parla ora di deriva autoritaria dopo la rottura del patto del Nazareno. La maggioranza che ha votato a favore della riforma alla Camera è la stessa di quella che aveva votato a favore al Senato meno Forza Italia. Lega, M5s e Sel hanno votato contro allora e hanno votato contro ora. La differenza la fa Forza Italia. Ergo, con i voti di Forza Italia la riforma andava bene e adesso che il partito di Berlusconi si è sfilato non va più bene ? Berlusconi sarà contento di sapere che ha in mano il potere di decidere sulla legittimità o meno della riforma costituzionale.
Ma non sono i paradossi che ci aiutano a capire. Il nocciolo della questione è un altro. Anche se non è del tutto chiaro all’opinione pubblica, e forse nemmeno ai protagonisti, la vera posta in gioco non è l’uno o l’altro aspetto delle riforme istituzionali in itinere, ma il modello di democrazia che queste configurano. Da una parte c'è chi ha nostalgia di un modello consociativo e consensuale, fatto di continue mediazioni e di larghe condivisioni. È il modello della Prima Repubblica cui sono affezionati la sinistra Pd, Sel e tanti costituzionalisti. Dall’altra c’è il M5s che oscilla tra democrazia diretta e democrazia assembleare, tra la centralità della rete e quella del parlamento. E poi c’è Renzi che punta a un modello di democrazia maggioritaria. Quello che si è fatto strada a partire dal 1993, prima nei governi locali e regionali e poi – più faticosamente e imperfettamente - a livello nazionale. È un modello di democrazia in cui chi vince governa. È il modello dell’Italicum e della attuale riforma costituzionale. Quale sia in questo preciso momento il modello preferito da Berlusconi non si sa. Deve ancora decidere.
Questi modelli di democrazia sono incompatibili tra loro. Ognuno ha una sua logica di funzionamento. Qualche compromesso è possibile su punti marginali ma non sugli aspetti essenziali. Per questo l'Italia è a un bivio. È da più di venti anni che si cerca di modernizzare il nostro sistema istituzionale. Certo, sarebbe meglio farlo con una larga condivisione come fu nel biennio 1946-1947. Ma i tempi non sono quelli. Oggi bisogna fare realisticamente i conti con l’esito delle ultime elezioni e con visioni molto diverse della democrazia. L’alternativa è lo stallo. Ed è una opzione inaccettabile. Cosa si dovrebbe fare ? Tornare alle urne per ritrovarsi dopo il voto nello stesso pantano ?
La democrazia maggioritaria non è l’anticamera dell'autoritarismo. Questa è una caricatura di chi non conosce cosa c'è fuori dai nostri confini. E poi in nessun articolo della Costituzione è scritto che occorrano super-maggioranze per cambiare la Carta. È richiesta solo la maggioranza assoluta. L’idea che la Costituzione vada cambiata con larghe maggioranze appartiene ad una visione consociativa e consensuale della democrazia. La Costituzione stessa prevede che al posto di una super-maggioranza di parlamentari la riforma possa essere approvata dalla maggioranza dei cittadini attraverso il referendum. Saranno dunque gli elettori a decidere sulla legittimità della nuova Costituzione. E nessuno allora si ricorderà delle aule semivuote di oggi. Questa è democrazia maggioritaria. E di questo modello abbiamo bisogno in questa fase della nostra storia.

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