domenica 22 febbraio 2015
Renzi era già Bersani, era già D'Alema: tutti ricevono oggi ciò che hanno seminato e che meritano
Michele Prospero, il Manifesto 21.2.2015
È evidente che, con i decreti attuativi della famigerata carta di espropriazione dei diritti denominato Jobs Act, la Costituzione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fondamentali, anche se non ancora toccata in modo esplicito, è indebolita dalla legislazione più recente, vera pistola puntata contro il residuale diritto del lavoro. Frutto della seconda costituzionalizzazione, lo Statuto del 1970 era il compendio di una congiuntura storica irripetibile che presentava condizioni politiche più favorevoli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il simbolo della relativa potenza accumulata dal lavoro, rispetto al dominio assoluto del capitale, e la dimostrazione dei frutti positivi scaturiti dalla congiunzione di conflitto sociale e grande manovra politica.
Ad essere colpito dalla furia restauratrice del governo Renzi è anzitutto il potere del lavoro e di conseguenza i diritti dei singoli dipendenti si spengono come degli astratti postulati morali. Il segno di classe della riforma strutturale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sperticato elogio delle misure renziane, le ha santificate come l’eden resuscitato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel documento l’Ocse spiega le ragioni del suo innamoramento totale: «accrescendo la prevedibilità la norma riduce i costi reali dei licenziamenti, anche quando sono giudicati illegittimi dai tribunali e incoraggia le imprese». Sono felici soltanto perché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.
Quest’assalto normativo alla civiltà del lavoro, con la riduzione del costo del licenziamento, secondo l’Ocse, è una divina benedizione che accrescerà la produttività perché, eliminando del tutto la possibilità del reintegro per l’esclusione dall’impiego per motivi illegittimi, e riducendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene gettato sul lastrico, il Jobs Act sollecita il risveglio immediato degli spiriti animali del capitalismo. Senza la sbrigativa libertà di licenziare, il capitale non riesce più a investire, a innovare, a competere. E quindi, il piano della nichilistica espropriazione del lavoro, continua ad essere perseguito come la variante più allettante per rilanciare l’accumulazione in un paese che si accasa definitivamente nelle periferie del capitalismo globale e che per il suo de te fabula narratur guarda ormai all’Albania.
La filosofia del renzismo si compie nel segno di una integrale decostituzionalizzazione del lavoro. E la sua genuina essenza ideologica è contenuta nella celebre formula sulla libertà dell’imprenditore di licenziare come segno di una grande innovazione destinata a fare epoca. La nuova legislazione, in effetti, è il cuore delle stravolte riforme post-moderne, quelle capovolte costruzioni giuridiche che sopprimono tutele e piccole libertà dal bisogno e assegnano proprio al soggetto già economicamente più forte il diritto di schiacciare il contraente più debole della relazione lavorativa.
Le condizioni sociali della modernità sono basate geneticamente sul differenziale di potere tra capitale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scontro politico della società di massa, cercava di correggere con gli interventi della legislazione gli squilibri sociali più macroscopici conferendo poteri correttivi al lavoro come potenza sociale collettiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scolpito anche sulla norma il potere legale sanzionatorio del capitale sul lavoro. Quando all’impresa si concede il diritto di licenziare il dipendente anche per un solo giorno ingiustificato di assenza, le si consegna un’arma di coercizione sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che succhia l’essere della persona che lavora, nel silenzio della cornice pubblica. Ma Rousseau spiegava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e semplice sanzione ufficiale e formale del dominio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a variabile inanimata.
Ad dominio del capitale, scritto già a chiare lettere nelle oggettive leggi dell’economia e confermato nelle anonime regolarità imposte dalla divisione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo classista che annichilisce la relativa autonomia conquistata nel Novecento dalla legislazione pubblica nel correggere le asimmetrie del rapporto sociale con norme dettate dal senso civile e morale di un’epoca democratica. Il giudice deve ammainare gli strumenti romantici con i quali inseguiva il miraggio della costituzionalizzazione dei rapporti di lavoro. Sebbene con strumenti coercitivi scarichi, perché privi di sanzione effettiva verso l’impresa inadempiente, il giudice del lavoro aveva introdotto la legge e il contratto a più stretto collegamento con l’essere del lavoratore. La bocca del giudice, nell’accertare la adeguata proporzione tra fatto e sanzione, ora si chiude dinanzi alla soverchiante potenza dell’avere, del capitale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.
Si disegna una individualizzazione crescente delle relazioni economiche imponendo un secco rapporto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incontrastato e dall’altra il lavoro, soggetto ancor più precario appeso alla decisione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrutturazioni, sull’opportunità di un demensionamento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scambio indecente tra un (solo) nominativo contratto a tempo indeterminato e un effettivo potere di licenziare senza giusta causa cambia in profondità i rapporti di forza dentro i luoghi di lavoro. Il sindacato è invitato a uscire dalla fabbrica o dall’ufficio, non essendo più rilevante il potere delle organizzazioni nel trattare le condizioni delle ristrutturazioni, degli esuberi, dei tempi, delle mobilità, dei licenziamenti collettivi.
Lo spiegava bene Spinoza: quando un soggetto cede un potere, non ha più le chiavi per rivendicare i suoi diritti. Non esistono infatti diritti fruibili senza una potenza collettiva che li sorregge. E l’attacco del governo è, con qualche perversa sistematicità, indirizzato contro le condizioni (sociali e sindacali) della potenza del lavoro. Strattonato dalle strategie d’impresa che lo rendevano una variabile sempre più precaria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giuridica. Il pubblico si adagia alle esigenze funzionali dell’impresa privata e costruisce un diritto con moduli, tempi, risarcimenti monetari richiesti dal capitale. Con il suo turbo governo Renzi procede a passi di gambero verso l’Ottocento. Nella sua fabbrica entra solo il cartello che intima alla manodopera di perdere ogni speranza di riscatto e di non disturbare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori, l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della repubblica. Già sepolti i suoi soggetti politici (i partiti ideologici di massa), ora sono spenti anche i suoi soggetti sociali, il lavoro come sovrano della costituzione economica. E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto, ma non vinto.
La sinistra Pd incolla i cocci: «Si può incidere solo uniti»
Democrack. All’assemblea di Cuperlo la carica anti jobs act (fuori tempo massimo). A marzo assemblea delle minoranze. «Renzi ha umiliato i parlamentari». Anche Boldrini: il governo ascolti le camere»
Daniela Preziosi, il Manifesto 21.2.2015
L’occasione dell’autocoscienza della sinistra Pd, all’indomani dell’approvazione dei decreti del jobs act, la dà l’assemblea dell’associazione di Gianni Cuperlo, Sinistradem, una delle tante sigle della frastagliata minoranza Pd. Arrivano i molti. Non tutti. Non c’è per esempio Roberto Speranza, il presidente dei parlamentari Pd, oltreché capofila dei bersaniani ’dialoganti’ (con Renzi) di Area riformista. La corrente che ha subito un doppio «schiaffo» — è la parola più ripetuta dal palco — dal jobs act, uno politico l’altro istituzionale: perché il premier ha tradito l’atto di fiducia fatto al momento del voto sul provvedimento (in 29 invece non l’anno votato) inserendo le norme sul licenziamento collettivo che prima non erano specificate; e perché il governo non ha tenuto conto dei pareri negativi delle commissioni, insomma dei parlamentari delle camere. Pareri in cui il Pd per una volta si era espresso unitariamente, renziani e antirenziani. «Il governo ha preso in giro il parlamento, umiliando deputati e senatori che si sono impegnati per migliorare il testo: un atteggiamento ingiustificato e ingiustificabile», secondo i senatori Fornaro, Guerra e Pegorer. Su questo anche la presidente della Camera Laura Boldrini si fa sentire. I pareri delle commissioni parlamentari, in caso di decreto, non sono vincolanti, ma «sarebbe stato opportuno tenerli nel dovuto conto», dice da Ancona, durante la visita a una scuola. E rincara: «Credo nei ruoli intermedi, associazioni, sindacati. L’idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace. Non mi piace».
A Roma anche Stefano Fassina è severo: «Nel nostro paese c’è una deriva plebiscitaria della democrazia. Ormai si disconoscono i corpi intermedi come Cgil, Cisl, Uil, le associazioni di rappresentanza». Ma anche la democrazia interna del Pd lo «preoccupa»: «Negli ultimi dieci giorni, dopo la vicenda felice di Mattarella alla quale si è arrivati non per gentile concessione del sovrano, sono avvenuti due fatti di straordinaria gravità: votare da soli metà Costituzione, e il jobs act che ha ignorato quanto deciso dalle commissioni e dall’odg della direzione nazionale del partito». In disaccordo con lui Andrea Orlando, ministro della giustizia ma presente all’assemblea da autorevole esponente dei giovani turchi. «Questo governo affronta cose che per molto tempo sono state messe sotto il tappeto, a partire dal tema del precariato». Con quali risultati è cronaca di questi giorni. I due hanno uno scambio poco cordiale sotto il palco.
Ma per quanto Fassina speri di cambiare le regole del lavoro con una legge di iniziativa popolare (lo propone la Cgil), e per quanto in molti ora chiedano il finanziamento degli ammortizzatori sociali, il jobs act ormai è nelle mani del governo: cioè una storia chiusa. Affidata semmai al parere dei legali e della Corte Costituzionale, davanti alla quale Cgil e Fiom sperano di arrivare.
Il futuro della minoranza Pd, anche della sua residua (e inefficace) resistenza, è invece in un nodo di fondo: inventarsi qualcosa per contare; o alzare bandiera bianca. Ragiona Alfredo D’Attorre: «I passaggi successivi all’elezione del Capo dello Stato indicano che quando Renzi può procede indipendentemente dal consenso del proprio partito. Insomma: abbiamo inciso solo quando siamo stati uniti e determinati». La prossima frontiera sarà il ritorno alla camera della legge elettorale. Cuperlo, che è deputato, promette battaglia, almeno stavolta. «Ci batteremo per modificare legge elettorale, se il patto del Nazareno non c’è più nulla lo impedisce. Lo faremo e andremo fino in fondo». Anche Bersani si dichiara «leale alla ditta ma prima leale alla democrazia». Fassina insiste però sui comportamenti in aula: «A livello parlamentare possiamo promuovere un coordinamento tra quelle persone che hanno anche provenienze diverse e che però, non in astratto ma con comportamenti concreti, hanno dimostrato sul campo di volersi misurare su quello che sta succedendo assumendosi le proprie responsabilità». Magari, è la conseguenza, non votando un provvedimento. Intanto l’appuntamento è a marzo per un’assemblea di tutte le sfumature della sinistra interna.
Jobs Act, Cgil: «Più precari e meno pagati, non è una riforma, è “ammuina”»
Sul Jobs Act ci sono idee chiare. E inconciliabili.
All’indomani dell’approvazione definitiva dei decreti su
flessibilità e ammortizzatori sociali il governo Renzi ha emesso
un comunicato dove sostiene che il provvedimento avrà un impatto
sul Pil addirittura del +1% nel 2020. Il tam tam ha messo di
buonumore le truppe renziane che hanno esibito l’ottimismo
d’ordinanza: «Dopo 20 anni alla flex si aggiunge security:
ammortizzatori, maternità, basta cococo cocopro» ha scritto la
ministra della funzione pubblica Marianna Madia in un tweet
celebrativo. Il sotto-segretario all’Istruzione Davide Faraone, che ha
l’abitudine di intervenire su tutto, ha preso la mira contro la
Cgil: «Il Jobs act è una riforma del lavoro seria e coerente. Ci
dispiace che ci sia un atteggiamento di resistenza. Quello schema di
gioco che ci ha proposto la Cgil in questi anni non ha funzionato —
dice — tanto è vero che la disoccupazione è aumentata. Noi stiamo
praticando un altro schema di gioco e pensiamo che si vincente.
I segnali che ci arrivano sull’economia sono incoraggianti, ma
arrivano perché c’è un governo che opera».
Dunque, a metà del pomeriggio, dal fronte renziano è spuntata la
seguente teoria: se dal 2078 a oggi, la disoccupazione
è raddoppiata la colpa è della Cgil e non dei governi Berlusconi,
Monti, Letta e Renzi. Gli ultimi tre guidati dalle «larghe intese»,
con il Pd in prima fila. La risposta del sindacato è stata ispirata
dall’ironia ed è stata affidata a twitter con l’hashtag «solo
ammuina»: i decreti attuativi del JobsAct «non cambianoverso».
Segue una serie di messaggi dove, in breve, si riassumono le
critiche ad un provvedimento ritenuto inefficace,
incostituzionale e produttore di nuova precarietà a misura delle
aziende– Quelle che hanno festeggiato l’impresa renziana. «Restano
i cococo e si somma la monetizzazione crescente. La precarietà
aumenta non diminuisce». Si cambia il nome del nuovo contratto
a tempo indeterminato introdotto da uno dei provvedimenti varati
dal Cdm da «tutele crescenti» in «monetizzazione crescente».
E ancora: «Più precarizzati, meno pagati», si legge ancora il
profilo del sindacato. «Sei a termine, somministrato,
a chiamata, P. Iva, accessorio, oppure sei indeterminato ma non
più tutelato. E se rivendichi i tuoi diritti sei demansionato
o licenziato». Come si vede, sono idee difficilmente conciliabili
con quelle del fronte renziano.
Il sindacato di Corso Italia non è rimasto da solo nel gioco
delle dichiarazioni contrapposte. Il segretario della Uil
Carmelo Barbagallo ha le idee chiare: «Hanno detto che avrebbero
tolto tutti i contratti di precarietà, ma poi non l’hanno fatto. Sono
dei bugiardi». Più prudente la reazione di Anna Maria Furlan,
segretaria della Cisl: su alcune cose sono stati «fatti passi avanti»
come per il contratto a tutele crescenti, mentre su altre come lo
sfoltimento del numero dei contratti «il risultato è deludente».
«Ci sono stati anche anche dei pareri non favorevoli da parte delle
commissioni di Camera e Senato e forse sarebbe stato opportuno
tenerli nel dovuto conto» ha detto la presidente della Camera Laura
Boldrini.
Rincara la dose il leader di Sel Vendola: «Questa è una
controriforma. Conferma, nonostante la volontà contraria del
Parlamento, i licenziamenti collettivi, non chiarisce quali
siano le risorse utili ad alimentare gli ammortizzatori sociali,
conferma la sparizione dell’art.18, sparisce il diritto al lavoro
e avanza il diritto al licenziamento, restano 45 contratti atipici
su 47». «Di crescente resta solo la precarietà, culla della
depressione economica; rimangono, per l’appunto, forme
iper-flessibili come il lavoro a chiamata e viene incoraggiata la
»somministrazione» attacca il blog 5 Stelle di Grillo. Maurizio
Sacconi, gamba destra del governo, ha invece illustrato i prossimi
passi dell’esecutivo: cancellato lo statuto dei lavoratori, creare
un nuovo «Statuto dei lavori» dove «riconoscere la pari dignità di
tutti i lavori, dipendenti e indipendenti, con alcune tutele comuni».
Susanna Camusso “Firmiamo per un nuovo statuto dei lavoratori il governo cancella i diritti e non crea posti”
La
leader della Cgil lancia la campagna per una legge di iniziativa
popolare che ripristini l’articolo 18 con reintegro in caso di
licenziamento illegittimo. “Coinvolgeremo il maggior numero di persone”
di Roberto Mania Repubblica 22.2.15
ROMA La sfida della Cgil al governo Renzi si chiama Nuovo Statuto dei
lavoratori. «Si deve fare ogni sforzo — dice Susanna Camusso, segretario
generale del sindacato più grande d’Italia — per ricostruire un diritto
del lavoro dopo i danni determinati dalle scelte del governo. Vanno
affermati diritti universali di tutti coloro che lavorano
indipendentemente dal contratto».
È quel che dice il senatore del centrodestra Maurizio Sacconi secondo
cui lo Statuto dei lavoratori è caduto ora va scritto uno Statuto dei
lavori?
«No, assolutamente no. Il problema non sono i lavori — come sostiene il
vero autore delle politiche del governo sul lavoro — il problema sono i
diritti di coloro che lavorano. Nel decreto del governo non c’è alcuna
estensione dei diritti e delle tutele. Non cambierà nulla ed è
l’ennesima dimostrazione del baratro che c’è tra gli annunci e la
realtà».
Parleremo del Nuovo Statuto. Renzi, intanto, ha detto che quella di
venerdì è stata una “giornata storica” con l’abolizione dell’articolo 18
e la cancellazione delle false collaborazioni. Lei condivide?
«Ahimè sì. È stata una giornata molto negativa per le decisioni prese,
per la filosofia che si è affermata, per il rapporto che si è stabilito
con il Parlamento. Per i diritti, per i lavoratori, per i giovani è una
giornata da segnare in nero, mi auguro che sarà al più presto
cancellata».
Eppure, nel decreto c’è scritto che “il contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Non è la richiesta della Cgil?
«Certo, ma quello che hanno realizzato non è un contratto a tempo
indeterminato. Per noi il rapporto di lavoro porta in sé le tutele e il
riconoscimento delle libertà dei lavoratori. La monetizzazione crescente
non è un rapporto di lavoro nel quale si realizza la libertà del
lavoratore. C’è piuttosto lo stato di perenne condizionamento, la
costituzione di uno stato servile e non paritario».
Lei parla di uno stato “servile” del lavoratore perché è stato abolito
il diritto al reintegro. Ma l’articolo 18 si applicava e si applica ai
lavoratori già assunti solo nelle aziende con più di quindici
dipendenti. Tutti gli altri sarebbero già oggi in condizioni di
servilismo?
«La questione, come abbiamo sempre detto e come ha sempre affermato la
giurisprudenza, è l’effetto deterrente che l’articolo 18 dispiegava: non
mi puoi licenziare ingiustamente perché mi posso difendere. Ora, con la
stessa filosofia della soglia del 3 per cento sull’evasione fiscale, si
stabilisce che è accettabile un comportamento anche se illegittimo.
Questa sì è davvero una rivoluzione o meglio una contro-rivoluzione. Ed è
contro i soggetti più deboli».
La tesi del governo è che il superamento dell’articolo 18 toglie ogni
alibi alle imprese e dunque offre più opportunità di lavoro ai giovani.
Non vale la pena accettare meno diritti e più lavoro?
«Ci sarebbero più opportunità di lavoro se qualcuno si occupasse di
creare lavoro. È che nessuno lo fa. Rimane sempre lo stesso bacino di
tre milioni di disoccupati e del 40 per cento di giovani senza lavoro.
Se solo si sbloccasse quella follia della legge sull’età pensionabile si
determinerebbero 400 mila assunzioni senza bisogno di falcidiare i
diritti, demansionare i lavoratori e creare precariato mascherato. Renzi
sbandiera il vessillo del primato della politica e poi delega tutto
alle imprese».
E se fosse vero che con il decreto 200 mila finti collaboratori saranno
assunti, come ha detto Renzi, con un contratto a tempo indeterminato?
«Ecco: questo è il tipico modo di costruire una notizia. Tutti danno per
scontato questa operazione ma nessuno andrà a verificare cosa, come e
se si realizzerà. Ad esempio, dove sono i vincoli che permettono a un
giovane collaboratore di chiedere la trasformazione del suo contratto?
Non c’è niente. E in più tutti i contratti precari escono indenni dal
decreto».
La Cgil proclamerà un nuovo sciopero generale?
«Continueremo la mobilitazione, con tutte le forme necessarie. Le ho
detto: va ricostruito un diritto del lavoro. Dobbiamo mettere in campo
una campagna che parli a tutto il Paese».
Per difendere il vecchio Statuto del 1970?
«A parte che, per fortuna, non è stato ancora del tutto smantellato,
pensiamo che ci voglia una legge universale che riconosca a tutti gli
stessi diritti perché non è vero che per riconoscere la modernità si
debbano cancellare i diritti. Raccoglieremo le firme su questo per una
legge di iniziativa popolare» Quando sarà pronta?
«Ci stiamo lavorando e coinvolgeremo il maggior numero di lavoratori, persone, associazioni, studiosi possibile».
Pensate anche di raccogliere le firme per un referendum abrogativo del Jobs Act?
«Non abbiamo escluso nulla. Valuteremo tutto ciò che è utile a sostenere la nostra proposta di legge».
Ma se la riforma dovesse funzionare non sarebbe una bella notizia anche per voi?
«Mi chiede se saremmo contenti di una ripresa dell’occupazione? Ne
saremmo entusiasti. Vorrebbe dire che l’Italia, con il lavoro di tanti, è
uscita dalla crisi. La realtà è però un’altra. Se la Fiat decide di
assumere a Melfi lo fa non perché i diritti dell’articolo 18 sono stati
cancellati ma perché, cambiando strategia, ha scelto di produrre un
nuovo modello in Basilicata. La realtà dice anche che a maggio scadrà la
cassa integrazione in deroga. Quelle persone saranno licenziate?».
Graziano Delrio Il sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio: “Non vedo una guida solitaria. C’è un leader e
sono due cose differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership,
ha un problema di modernità”
“Nessuna umiliazione del Parlamento vedremo tra un anno chi avrà avuto ragione”
intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 22.2.15
ROMA . Il sottosegretario a Palazzo Chigi Graziano Delrio risponde a
Laura Boldrini che lamenta il totale disinteresse del governo per i
pareri del Parlamento sul Jobs Act e accusa Renzi di essere un uomo solo
al comando. «Non esiste un uomo solo al comando. Esiste un leader. Sono
due cose differenti. Se la sinistra, e parlo in generale, è spaventata
dalla leadership ha un problema di modernità ». Alla minoranza del Pd
che annuncia battaglia contro l’Italicum, dice: «Tutto è migliorabile,
ma il punto di equilibrio lo abbiamo già raggiunto con il testo votato
in Senato». E interviene anche sul partito per assicurare che non nasce
una corrente di catto-renziani «come area in cui l’appartenenza conta
più del pensiero». Possono nascere invece «luoghi di riflessione
leggeri, aperti, quasi disorganizzati per mantenere il collegamento con
la società».
A proposito di correnti, la Sinistra dem vi accusa di non avere tenuto
conto dei pareri parlamentari sui licenziamenti collettivi, di aver
seguito la linea della trojka. In effetti tutti i deputati del Pd, senza
distinzioni, vi avevano chiesto di cambiare.
«Ormai l’impostazione era quella. E si teneva con un equilibrio
complessivo che per noi era l’unico a garantire la vera efficacia del
provvedimento».
La presidente della Camera Boldrini fa capire che così avete umiliato il Parlamento.
«Abbiamo il massimo rispetto del Parlamento, però non rovesciamo la
frittata. Il parere non era vincolante, non esisteva alcun obbligo di
recepirlo. Il governo quindi ha esercitato un suo pieno diritto ma senza
volontà di umiliare le Camere o i sindacati. Con quei decreti pensiamo
di aumentare complessivamente l’occupazione per la prima volta dopo anni
di perdita. Se ci sbagliamo siamo pronti a correggerci. Siamo convinti
tuttavia che attraverso il mix di misure del Jobs Act fra un anno si
vedranno dei risultati».
Non c’è invece la tendenza di Renzi a procedere evitando il confronto, a
recitare la parte dell’uomo solo al comando come dice la stessa
Boldrini?
«Non vedo l’uomo solo al comando. C’è un leader e sono due cose
differenti. Se la sinistra è spaventata dalla leadership, e non mi
riferisco alla Boldrini parlo in generale, ha un problema di modernità.
La sinistra ha bisogno di un leader come lo hanno avuto i grandi partiti
storici. Come lo erano De Gasperi e Togliatti, Berlinguer e Moro. Eppoi
Matteo non è solo. Ha intorno a sé un gruppo dirigente molto ampio e
molto rinnovato. Nella squadra dei ministri, nei sindaci, sui territori.
Qualcuno può pensare che non sia all’altezza ma non che non esista».
Un team di fedelissimi?
«E’ libero di non credermi, ma Renzi ascolta una quantità impressionante
di persone del mondo del lavoro, dell’impresa, della cultura. Lo fa
ogni giorno, è una ginnastica di ascolto che non si vede ma le
garantisco, è costante, quotidiana. Non sono fedelissimi».
Vi confronterete con la minoranza sull’Italicum, cambiando i capolista
bloccati e dando il premio alla coalizione al ballottaggio?
«L’obiettivo del governo è una buona legge elettorale e al Senato si è
raggiunta un’intesa giusta. Proviamo a fare un flash back. L’Italia, un
anno fa, era il Paese del caos, delle riforme bloccate,
dell’instabilità. Un anno dopo, secondo l’Ocse, siamo il Paese che ha
fatto il maggior numero di riforme strutturali e profonde. Eravamo gli
osservati speciali dodici mesi fa e ora siamo un Paese guida
dell’Eurogruppo, che aiuta a risolvere questioni enormi come la Grecia.
Questa nostra credibilità, conquistata anche con il lavoro straordinario
del Parlamento, non la manteniamo se si rimette tutto in discussione.
Ogni cosa è migliorabile ma in linea di massima, sulla legge elettorale,
il punto di equilibrio lo abbiamo già trovato».
Renzi non aveva promesso “mai più correnti nel Pd”? Sembra che lei e altri ne stiate preparando più di una.
«Con Matteo abbiamo sempre avuto un’idea molto ampia del partito, come
di un campo largo, mai organizzato in settori o in correnti come quelle
che si sono sempre conosciute».
Cioè?
«Gruppi dirigenti attraverso cui persone interessate trovano spazio e
protagonismo solo perché appartengono a un consesso organizzato. Luoghi
difensivi di questo genere non devono e non possono esistere nel Pd».
E allora?
«Allora, come avviene nella Cdu e in tutti i grandi partiti europei, si
possono creare non aree di potere ma di pensiero. Le correnti vanno
rottamate. Luoghi dove la società e i parlamentari riflettono sulle
sfide della modernità possono invece avere un ruolo e offrire un
contributo al partito».
Se non è zuppa è pan bagnato.
«Non è così. Io penso a iniziative leggere, aperte in cui mai
l’appartenenza deve sostituirsi al pensiero. Penso al campo che crearono
Moro e Dossetti. Certo non era una corrente a caccia di poltrone ma di
profondità e di un rapporto con la vita quotidiana delle persone».
Questi movimenti intorno a Renzi non segnalano uno scontro tra fedelissimi per chi siede alla destra del capo?
«Non c’è nessuno scontro nel campo renziano. Vogliamo semmai
moltiplicare i contributi e moltiplicare il protagonismo dei
parlamentari, dei sindaci e degli amministratori locali. Potrà capitare
che qualche volta marceremo divisi per colpire uniti, ma il rischio
correntizio non esiste. Per me le correnti sono la morte delle persone
libere».
Sul suo cellulare il numero di Renzi è sempre memorizzato come Mosè?
«Sempre. E la nostra Terra promessa è quella dove c’è più lavoro, dove ci sono più occupati».
La morsa blocca-politica
Renzi come Mussolini? Da una parte ci sono i consociativisti, dall’altra i maggioritari
di roberto D’Alimonte Il Sole 22.2.15
Renzi come Mussolini? Chi l'avrebbe mai detto un anno fa quando l'allora
segretario del Pd è diventato premier che la sua determinazione a fare
le riforme sarebbe stata paragonata all'autoritarismo del duce? Eppure è
successo. All'indomani del recente voto alla Camera sulla riforma
costituzionale ne abbiamo sentite di tutti i colori. La presunta deriva
autoritaria imputata a Renzi è diventata un ritornello che rischia di
far breccia tra cittadini sempre più disorientati. L'Aula semivuota
della Camera è stata accostata addirittura all'Aventino del 1924.
L’opposizione di Fi, Lega e M5s è diventata la voce di chi vuole
difendere con tutti i mezzi la democrazia in pericolo. Anche chi non
arriva a parlare di deriva autoritaria subisce il fascino perverso
dell’aula semivuota. Perfino dentro la maggioranza di governo c’è chi
pensa in buona fede, o forse no, che in una aula semivuota non si possa
approvare la riforma della Carta. Questa è diventata la nuova tesi dei
frenatori. Come se l’aula semivuota fosse qualcosa di sostanzialmente
diverso dal voto di chi resta in aula e vota no.
A tutti costoro occorre ricordare ancora una volta che questo Parlamento
liquido è il risultato di una elezione che ha creato una situazione
politica fragilissima. Il 25 febbraio 2013 le urne non solo non hanno
prodotto una maggioranza ma hanno portato in Parlamento forze
incompatibili tra di loro. Partiti che non hanno un minimo denominatore
comune come fu invece nella Assemblea Costituente nel 1946. In questo
Parlamento, non in quello che vorremo ci fosse, la scelta è chiara: fare
le riforme con chi ci sta o non farle per niente. Renzi ha scelto di
farle con chi ci sta. Lo ha detto fin dall’inizio della sua avventura e
sta tenendo fede alla sua strategia. Non è detto che ci riesca, ma ci
prova. Il bello è che ora viene criticato perché vuole andare avanti da
solo. Fino a poco tempo fa lo era perché voleva fare le riforme con
Berlusconi. Questo è già un paradosso. Ma ce ne sono altri.
Le differenze tra il testo della riforma costituzionale approvato in
Senato ad agosto 2014 e quello che sta per essere approvato alla Camera
nei prossimi giorni sono modeste. Nessuna norma rilevante è stata
modificata. Al Senato la riforma è stata approvata con i voti di Forza
Italia. Non risulta che il partito di Berlusconi sia stato costretto a
farlo. Si presume che lo abbia fatto perché la riteneva utile al paese.
Adesso che lui e Renzi hanno litigato sulla elezione di Mattarella
quella riforma, che il cavaliere dimezzato aveva sostenuto in agosto al
Senato, non va più bene. È la stessa identica riforma ma non va più
bene.
Ma non è la giravolta di Berlusconi che ci sorprende. Alla incoerenza
del cavaliere siamo abituati. Quello che stupisce sono i commenti di chi
parla ora di deriva autoritaria dopo la rottura del patto del Nazareno.
La maggioranza che ha votato a favore della riforma alla Camera è la
stessa di quella che aveva votato a favore al Senato meno Forza Italia.
Lega, M5s e Sel hanno votato contro allora e hanno votato contro ora. La
differenza la fa Forza Italia. Ergo, con i voti di Forza Italia la
riforma andava bene e adesso che il partito di Berlusconi si è sfilato
non va più bene ? Berlusconi sarà contento di sapere che ha in mano il
potere di decidere sulla legittimità o meno della riforma
costituzionale.
Ma non sono i paradossi che ci aiutano a capire. Il nocciolo della
questione è un altro. Anche se non è del tutto chiaro all’opinione
pubblica, e forse nemmeno ai protagonisti, la vera posta in gioco non è
l’uno o l’altro aspetto delle riforme istituzionali in itinere, ma il
modello di democrazia che queste configurano. Da una parte c'è chi ha
nostalgia di un modello consociativo e consensuale, fatto di continue
mediazioni e di larghe condivisioni. È il modello della Prima Repubblica
cui sono affezionati la sinistra Pd, Sel e tanti costituzionalisti.
Dall’altra c’è il M5s che oscilla tra democrazia diretta e democrazia
assembleare, tra la centralità della rete e quella del parlamento. E poi
c’è Renzi che punta a un modello di democrazia maggioritaria. Quello
che si è fatto strada a partire dal 1993, prima nei governi locali e
regionali e poi – più faticosamente e imperfettamente - a livello
nazionale. È un modello di democrazia in cui chi vince governa. È il
modello dell’Italicum e della attuale riforma costituzionale. Quale sia
in questo preciso momento il modello preferito da Berlusconi non si sa.
Deve ancora decidere.
Questi modelli di democrazia sono incompatibili tra loro. Ognuno ha una
sua logica di funzionamento. Qualche compromesso è possibile su punti
marginali ma non sugli aspetti essenziali. Per questo l'Italia è a un
bivio. È da più di venti anni che si cerca di modernizzare il nostro
sistema istituzionale. Certo, sarebbe meglio farlo con una larga
condivisione come fu nel biennio 1946-1947. Ma i tempi non sono quelli.
Oggi bisogna fare realisticamente i conti con l’esito delle ultime
elezioni e con visioni molto diverse della democrazia. L’alternativa è
lo stallo. Ed è una opzione inaccettabile. Cosa si dovrebbe fare ?
Tornare alle urne per ritrovarsi dopo il voto nello stesso pantano ?
La democrazia maggioritaria non è l’anticamera dell'autoritarismo.
Questa è una caricatura di chi non conosce cosa c'è fuori dai nostri
confini. E poi in nessun articolo della Costituzione è scritto che
occorrano super-maggioranze per cambiare la Carta. È richiesta solo la
maggioranza assoluta. L’idea che la Costituzione vada cambiata con
larghe maggioranze appartiene ad una visione consociativa e consensuale
della democrazia. La Costituzione stessa prevede che al posto di una
super-maggioranza di parlamentari la riforma possa essere approvata
dalla maggioranza dei cittadini attraverso il referendum. Saranno dunque
gli elettori a decidere sulla legittimità della nuova Costituzione. E
nessuno allora si ricorderà delle aule semivuote di oggi. Questa è
democrazia maggioritaria. E di questo modello abbiamo bisogno in questa
fase della nostra storia.
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