Ventiquattro ore dopo l’ accordo raggiunto a Bruxelles tra il governo greco e i 18 paesi dell’eurozona nessuno si considera vincente, né ovviamente ammette di aver concesso più di tanto. In Grecia prevale soprattutto uno spirito di riflessione. Il paese è ancora immerso in un lungo week-end, visto che il lunedì dà inizio alla Quaresima ortodossa.
domenica 22 febbraio 2015
Ritorno nel mondo reale: il problema non è il compromesso ma - come spesso accade - l'aver promesso troppa rivoluzione
Fermo restando che Tachipirinas rimane nei nostri cuori - e anche in
quelli di chi vorrebbe un capitalismo europeo più moderno ed efficiente
di questo feudalesimo che abbiamo -, il problema non è il compromesso, o
il confronto con la realtà.
Il problema è se il compromesso
consiste in una mera riduzione del danno, come spesso è accaduto anche
in passato, o se davvero - al di là delle parole fumose nelle quali
tutti possono dire di aver vinto - il compromesso comincia a inverte la direzione del processo.
Il problema, soprattutto, è la dismisura spropositata tra la modesta
entità del compromesso e le gigantesche e autolesionistiche illusioni
scatenate nei mesi scorsi in patria e - forse soprattutto - fuori.
Eppure, che i rapporti di forza fossero quelli che sono lo sapevano
tutti. Eppure, che la Grecia fosse una semicolonia - una portaerei Nato
priva di sovranità, come l'Italia, la Spagna e altri paesi - era noto
già da prima.
Erano quisquilie da menagrami? E ora è legittimo
farsi delle domande? Certo, è possibile accontentarsi della retorica
della "battaglia vinta" e scoprirsi improvvisamente come quei maestri di
realismo a convenienza che sono sempre bravi a fare le analisi del
giorno dopo [SGA].
“L’austerità è finita”, Tsipras prova a nascondere la disfatta
Domani nuovo vertice, il governo di Atene ha perso ogni autonomia
di Stefano Feltri il Fatto 22.2.15
L’unico modo per reagire a una sconfitta a volte è presentarla come una
vittoria: “Abbiamo vinto una battaglia ma non la guerra, i negoziati più
difficili ci aspettano”, ha detto ieri Alexis Tsipras, premier della
Grecia, Paese natale di quell’Esopo che scrisse la nota favola della
volpe golosa di uva.
IL GIORNO DOPO l’accordo preliminare con i governi dell’Eurogruppo,
l’impressione è che Atene abbia perso sia la battaglia che la guerra.
“Non sono sicuro di capire perché il governo di Syriza abbia iniziato
questo conflitto. Ha ottenuto così poco e speso del capitale politico
che gli sarebbe servito per il terzo programma di salvataggio”, commenta
su Twitter il corrispondente da Bruxelles del Financial Times Peter
Spie-gel. E l’economista Tyler Cowen, nel suo blog Marginal Revolution,
scrive che “la Grecia ha perso”. Il quotidiano conservatore tedesco Die
Welt, voce degli estremisti del rigore, traduce così il senso politico
del compromesso: Atene ha quattro mesi per mettersi in regola o per
prepararsi a un’uscita ordinata dall’euro.
Martedì ad Atene riaprono le banche, durante la giornata festiva di
domani il governo di Syriza dovrà ultimare la lista di riforme da
sottoporre in serata all’approvazione degli altri governi della zona
euro. Difficile una bocciatura drastica, ma ci sarà ancora da negoziare.
A meno di rotture impreviste, martedì le banche greche non falliranno,
non ci sarà la corsa agli sportelli e continueranno ad avere i 10,9
miliardi (pronti ma non utilizzabili fino ad aprile) del Fondo salva
Stati che possono essere usati per ricapitalizzare le banche. Questo è
l’unico risultato di Tsipras che però si vanta di aver ottenuto “la fine
dell’austerità”.
DOPO MENO di un mese di governo, molti annunci e un tour diplomatico
nelle capitali europee, il bilancio di Tsipras e del suo ministro Yanis
Varoufakis è il seguente: abbandonato il progetto di convocare una
conferenza internazionale per tagliare il valore dei 315,5 miliardi del
debito pubblico greco; archiviata l’idea di sostituire i bond in
scadenza con altri a durata perpetua (se in mano alla Bce) o con il
rendimento legato alla crescita del Paese (quelli dei governi e del Fmi)
; quasi respinta la richiesta di ridurre l’avanzo primario, cioè quanto
resta delle entrate dello Stato dopo aver pagato le spese e prima del
conto degli interessi sul debito, dal 4,5 all’1,5 per cento del Pil
(l’Eurogruppo concede una non meglio definita flessibilità nell’ambito
delle regole esistenti) ; la Troika che vigila sulle riforme cambia
nome, ora il trio di supervisori di Commissione europea, Fmi e Bce si
chiama semplicemente “le istituzioni”. Tutto il “Programma di Salonicco”
con cui Syriza ha vinto le elezioni non esiste più: la riassunzione
degli statali licenziati, l’abolizione della tassa sulla casa, la spesa
sociale per le vittime della recessione, gli sconti sull’energia alle
famiglie, il blocco delle privatizzazioni. La Grecia si è impegnata ad
attuare soltanto le riforme che non mettono in discussione i suoi
obiettivi di bilancio (decisi dalla Troika) e a chiedere il permesso per
le misure che potrebbero far peggiorare il deficit. Non solo: Atene
avrà a fine aprile i soldi che, se Tsipras non avesse rimesso in
discussione i provvedimenti del precedente governo, avrebbe ottenuto a
fine febbraio: i redimenti sui bond greci detenuti dalla Bce (2 miliardi
circa), gli ultimi 2 miliardi di prestiti dal fondo salva Stati e circa
7 dal Fmi.
SECONDO molti economisti, Atene dovrà comunque chiedere un terzo piano
di salvataggio perché nessun Paese può permettersi il 9 per cento di
tasso di interesse che oggi i mercati chiedono per detenere bond greci a
10 anni. Ma la Grecia di Tsipras si è già fatta molti nemici: la
Germania, prima di tutto, poi i Paesi che hanno rispettato i dettami
della Troika fino in fondo (Irlanda, Portogallo, Spagna) e il presidente
americano Barack Obama si è spazientito per l’arroganza di Tsipras e
Varoufakis. Ora Atene è isolata, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen
Djesselbloem è arrivato a mettere in dubbio la “buona fede” dei greci al
tavolo. Proprio per non sembrare un appestato ieri Tsipras ha chiamato
il premier Matteo Renzi, per ringraziarlo del ruolo di mediazione. Ma
l’Italia, quando si è trattato di scegliere, si è sempre schierata con
Angela Merkel.
“Il loro problema è che si tratta di un ribaltamento delle loro promesse
elettorali. Non c’è assolutamente nulla sul tavolo che possa essere
considerato una concessione”, ha detto il ministro delle Finanze
irlandese Michael Noonan, citato dalla Reuters. I greci che hanno avuto
fede in Tsipras ancora non se ne sono convinti, ma ci vorrà poco.
Quattro mesi sul filo del rasoio Il Paese fa i conti per sopravvivere
Senza gli aiuti di Fondo monetario e Bce lo Stato crollerebbe
di Stefano Lepri La Stampa 22.2.15
Oggi in Grecia si celebra il carnevale, secondo il calendario ortodosso.
Domani è il «lunedì di purificazione», festivo, dedicato alle
scampagnate. Al ritorno in città martedì senza l’accordo dell’altra sera
all’eurogruppo sarebbe stato impossibile ottenere soldi dai bancomat, e
le banche, causa le casse vuote, sarebbero state costrette a prolungare
la vacanza.
Così gli euro invece non mancheranno, sempre che non si creino nuovi
intoppi lunedì sera, quando il governo di Atene consegnerà una prima
lista di misure. Si tratterà di anticipazioni di emergenza concesse
dalla banca centrale greca autorizzata dalla Bce. In un modo o
nell’altro saranno pagati 1,4 miliardi di euro al Fmi che scadono in
marzo.
I denari veri dall’Europa arriveranno non prima di maggio; e saranno
ancora parte del vecchio programma di aiuto, non aggiuntivi. L’accordo
nell’Eurogruppo prevede infatti di bloccare ogni erogazione fino a un
accordo completo sull’estensione del programma, da raggiungere a fine
aprile, con misure concordate una per una.
Anche allora, si tratterà dello stretto necessario per andare avanti –
pagando altri 1,4 miliardi al Fondo monetario – fino al 30 giugno,
termine dei 4 mesi concessi. I massicci rimborsi di debiti all’Europa
che scadono in luglio e agosto, 6,7 miliardi, non potranno essere
affrontati senza concordare un nuovo programma di aiuti, il terzo dal
2010, con esborsi aggiuntivi.
Un grave errore tattico è stata la minaccia di usare per rimborso dei
debiti i soldi europei destinati a ricapitalizzare le banche. Sono 10,9
miliardi che ora tornano sotto controllo europeo perché si usino davvero
a quello scopo.
Dunque non c’è scampo: il governo Tsipras sarà costretto a vivere
quattro mesi sul filo del rasoio. E durante tutto questo periodo,
scadenza dopo scadenza, la Germania sarà pronta a sfruttare ogni suo
passo falso. I più dottrinari fautori dell’austerità cercano motivi per
addossare alle elezioni anticipate e al nuovo governo la colpa del
mancato risanamento della Grecia.
Che l’austerità sia «finita» resta in dubbio perché non è chiaro né il
punto di arrivo (quanto precisamente sarà più leggero l’obiettivo di
bilancio da raggiungere nel 2015) né il punto di partenza, ossia lo
stato attuale dei conti pubblici. Sýriza aveva sottovalutato il rischio
di promettere un condono in campagna elettorale, ora ne paga le
conseguenze in un crollo del gettito tributario. Nella lista di lunedì
non si parlerà né di lavoro né di pensioni; sono esclusi aumenti
dell’Iva, si dice ora ad Atene.
Ma il programma elettorale prometteva, tra l’altro, di cancellare la
tassa sulla prima casa ed elevare a 12.000 euro annui la soglia di
esenzione dall’imposta sul reddito: tutto questo cade. Un’uscita dalla
crisi aumentando in fretta i redditi e quindi i consumi è preclusa. La
sfida per Tsipras sarà di offrire credibili riforme «di sinistra» in
sostituzione a quelle che rifiuta.
Ma Atene è spiazzata dall’intesa europea “Il nostro governo ha fatto dietrofront”
di Ettore Livini Repubblica 22.2.15
ATENE La cravatta, per ora, può attendere. «La metterò quando i
creditori accetteranno di tagliare il nostro debito», aveva promesso
Alexis Tsipras. Molti greci, forse un po’ troppo ottimisti, si erano
illusi di vederlo già ieri mattina con il collo fasciato da quella che
gli ha regalato Matteo Renzi. Invece no. E malgrado il premier — addosso
la solita camicia bianca sbottonata — abbia celebrato come un successo
l’intesa all’Eurogruppo, il day-after di Atene è iniziato con l’incubo
della “Kolotoumba”, il dietrofront. Lo evocano in coro gli avversari:
«Ha rinnegato tutte le sue promesse elettorali. L’unico partito anti
memorandum siamo noi», dettano alle agenzie sia Alba Dorata che i
comunisti del Kke. Ma il dubbio del voltafaccia — e questo è un po’ più
preoccupante per il leader di Syriza — serpeggia pure tra le fila di
quel 36,3% di greci che il 25 gennaio, esasperato dall’austerity imposta
dalla Troika, ha messo la croce sul simbolo della sinistra.
Il primo assaggio della maretta il presidente del Consiglio l’ha avuto
nelle riunioni informali di ieri a Koumoundourou, nella sede del
partito. Incontri tesissimi dove ha faticato a tenere a bada gli umori
della minoranza del partito («io non voto questa retromarcia »
minacciano in molti). «Non potevamo fare altrimenti — ha spiegato —
Anzi. Abbiamo salvato il paese da una congiura dei conservatori greci ed
europei che volevano metterci all’angolo, facendo chiudere le banche
con la scusa della fuga dei capitali». Spiegazione, dicono i suoi
collaboratori, seguita da un appello: «Giudicatemi tra quattro mesi.
Manterremo le promesse elettorali — ha garantito — . E sarà chiaro a
tutti da domani, quando finalmente potremo iniziare a scrivere da soli
la ricetta per salvare la Grecia, senza farcela dettare dalla Troika».
Il suo pressing diplomatico sul fronte interno, per ora, non ha dato
molti risultati. «Syriza approverà il pacchetto senza problemi anche se
non contiene tutti i punti del programma», ha detto fiducioso il
ministro all’Economia George Stathakis, uomo del cerchio magico del
premier. Più bellicoso il leader di Piattaforma della sinistra, l’ala
radicale del partito: «Ci sono linee rosse che non possono essere
valicate — ha sottolineato sibillino — se no non sarebbero rosse».
Preoccupante anche il silenzio del partner di governo Panos Kammenos,
leader della destra nazionalista di Anel, che la scorsa settimana aveva
detto di essere pronto a farsi esplodere a Bruxelles «se l’Eurogruppo
non avesse accettato le richieste greche». Senza i voti dei suoi 13
parlamentari, l’esecutivo non ha la maggioranza. Anche se Stavros
Theodorakis, leader di Potami, ha detto di essere pronto a lanciare un
salvagente a Tsipras, complimentandosi per il risultato “ragionevole”
dei negoziati.
«Se fossi tra gli elettori di Syriza, stamattina mi sarei svegliato con
una diavolo per capello », ha twittato perfido ieri all’alba Nigel
Farage, leader della destra anti-europea inglese. Arrabbiati no. Molto
dubbiosi però sì. «Sono confusa — racconta prendendo un tiepido sole
primaverile su una panchina a Syntagma Katerina, una delle donne delle
pulizie licenziate dal governo Samaras e riassunte («così hanno
promesso, le carte dovrebbero arrivare nei prossimi giorni») da quello
di Tsipras — Hanno combattuto come leoni. Hanno ribattuto colpo su colpo
ai tedeschi. Alla fine però mi sembra che siamo rimasti con un pugno di
mosche in mano». «L’80% dei greci che sosteneva Syriza perché convinti
riuscisse a domare Wofgang Schaeuble si è alzato oggi di cattivo umore —
dice fatalista Stathis Masouras al mercatino delle pulci di Mo-
nastiraki — Ma l’80% dei greci che voleva rimanere nell’euro si è
svegliato contento». Lui, per capirci, appartiene a entrambi i campioni.
«Capisco la delusione. Venerdì il Parlamento avrebbe dovuto discutere la
legge per bloccare la confisca delle prime case alle famiglie che non
sono in grado di pagare i mutui, fregandosene del parere della Troika —
ammette Stelios Papakonstantinou, 22 anni, studente di economia e altro
elettore spaesato — . Io però ho detto ai miei amici di non aver fretta.
A Bruxelles siamo stati lasciati da soli. La vera partita inizia ora.
Se l’austerità e il memorandum sono davvero alle spalle lo giudicheremo
dai piani che Tsipras e Varoufakis presenteranno ai creditori ».
Altrimenti toccherà a tutti rassegnarsi alla Kolotoumba.
«Doppiopesismo» ed eurodemocrazia
di Adriana Cerretelli Il Sole 22.2.15
A che cosa serve eleggere Alexis Tzipras e un programma di rottura con
l’Europa della troika se poi non cambia niente e Tzipras è costretto a
seguire le orme di Antonis Samaras, il predecessore deprecato per gli
eccessi di austerità che hanno travolto la Grecia?
In breve, in una democrazia indebitata dell’area euro vale ancora la
pena di votare? L’ordine regna a Bruxelles il giorno dopo il sudato
accordo politico tra Atene e i partner della moneta unica. Sospiro di
sollievo generale. Scongiurato il peggio, il default ellenico,
allontanata l’ombra di Grexit e del salto nel buio. Salvaguardate regole
e patti europei. La vera partita negoziale però comincia solo ora e si
annuncia per tutti una nuova corsa ad ostacoli. Piena di insidie.
Tutti hanno l’amaro in bocca, creditori e debitori: chi ha vinto, anzi
stravinto, ma continua a non fidarsi del proprio successo perché
continua a non fidarsi di chi ha sconfitto. E chi ha perso e fa finta di
no, come Yanis Varoufakis: «Ormai sono finiti i tempi in cui le cose ci
venivano imposte e non erano attuate. Ora saremo noi a decidere insieme
ai nostri partner ristabilendo l’indipendenza nazionale della Grecia».
L’autodifesa del ministro delle Finanze suona patetica, se si mette a
confronto il povero risultato con ambizioni e toni roboanti dell’inizio.
Né smentisce questa istantanea dell’Eurogruppo, tornata prepotentemente
in voga a Bruxelles subito dopo la capitolazione di Atene: Eurogruppo?
Un tavolo intorno al quale siedono periodicamente 19 giocatori ma vince
sempre uno solo, lo stesso, la Germania.
Perché dunque affossare il centro-destra e affidarsi alla sinistra
radicale se poi devono comunque governare allo stesso modo?
L’interrogativo sul peso effettivo della dinamica democratica e sui suoi
reali margini di manovra ai tempi dell’euro e del patto di stabilità
non è certo nuovo. Ma la Grecia di Tzipras lo ripropone a tutti senza
veli, perché la sua Grecia sovversiva e nazionalista esprime il primo
vero rigurgito democratico contro il sistema-eurozona. Non sarebbe mai
nata, quella Grecia, se l’Europa non se la fosse ottusamente allevata in
seno con la cecità delle sue politiche tecnocratiche eccessivamente
punitive, socio-economicamente insostenibili, politicamente suicide.
Colpirne uno per educarne cento: l’Europa ha adottato la vecchia massima
maoista nella speranza di bloccare il contagio: ieri come oggi Atene è
la cavia ideale per neutralizzare sul nascere fermenti ribellisti e
assalti all’ordine costituito dei vari Podemos, Sinn Fein, Front
National, dei movimenti nazional-populisti.
L’assunto di partenza è chiaro: nella gerarchia delle regole, quelle
europee prevalgono su quelle nazionali. A maggior ragione quelle del
patto di stabilità e consimili vanno rispettate a prescindere, non
possono nella sostanza soggiacere agli incerti e ai malumori delle
democrazie.
Se l’Europa non fosse, come è, una proterva Unione di Stati nazionali
sovrani ma una vera entità federale dotata di una propria Costituzione,
di una propria politica macro-economica e finanziaria e di un bilancio
comune adeguato, il teorema potrebbe anche avere una logica
inattaccabile.
Non è così. Nel 2005 un tentativo di euro-Costituzione fu bocciato da
Francia e Olanda e dimenticato. Nonostante, complice l’euro,
l’interdipendenza tra Stati si approfondisca, in parallelo si accentuano
spinte centrifughe e arroccamenti nazionalisti, soprattutto
nell’euronord.
Senza contare che le cessioni di sovranità restano ineguali. La Germania
è l’unico paese la cui Corte costituzionale prende decisioni di valenza
europea. Di più, il Bundestag è autorizzato a approvare o respingere le
decisioni del Governo adottate in sede europea per verificarne la
conformità con la Legge fondamentale tedesca. Governi, parlamenti e
strutture democratiche, soprattutto dei paesi debitori, risultano invece
sempre più “minorati” dai nuovi patti sull’euro-governance. Non a caso,
e da molto prima che arrivasse Tzipras, la legittimità della troika è
messa seriamente in dubbio.
Fino a che punto però questo doppiopesismo democratico, questa eurozona
di sovrani ineguali di diritto e di fatto è sostenibile senza provocare
guasti irrimediabili alla convivenza europea e alla tenuta dell’euro,
che per durare ha tra l’altro urgente bisogno di unione economica e
politica? Commissariata ieri come oggi, la Grecia sembra tornata
all’ovile ma il suo profondo disagio europeo non può essere liquidato
con un duro e semplicistico richiamo alla disciplina dei patti europei
(forse un po’ più flessibili).
La stabilità economico-finanziaria dell’euro è prioritaria per tutti ma
non può prescindere dalla stabilità democratica e sociale dei paesi che
lo compongono. Altrimenti, scongiurato il default greco, prima o poi
arriverà quello europeo.
Euro e caso Grecia Gli squilibri mai corretti e il silenzio dell’Europa
di Luca Ricolfi Il Sole 22.2.15
Tre cose sembrano chiare, per ora. La prima è che la Grecia non
abbandonerà l’euro. La seconda è che l’Europa le presterà altri soldi.
La terza è che i politici, greci ed europei, faranno di tutto per
nascondere la verità alle rispettive opinioni pubbliche.
La verità, infatti, è indigeribile sia per Tsipras, sia per gli altri
governi europei. Per questi ultimi, e in particolare per quelli che
hanno dovuto inghiottire le amare medicine (austerità e riforme) imposte
dalla Troika, sarà dura spiegare l’ennesimo salvataggio della Grecia. È
possibile che le loro opinioni pubbliche non capiscano (o capiscano fin
troppo bene), e che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e forse
anche l’Italia, monti la tentazione di fare come in Grecia, e cresca il
consenso ai partiti anti-uro. Per Tsipras, d’altro canto, sarà dura
nascondere che il prestito che si accinge a ricevere dall’Europa ha un
prezzo politico, e che il suo governo avrà le mani legate più o meno
quanto quelli che l’hanno preceduto.
Dunque, prepariamoci. Fin dalle prossime ore, la politica europea si
scatenerà nella ricerca di parole volte a nascondere quel che sta
succedendo. E non sarà difficile trovarle. Se ci siamo abituati a non
pronunciare più parole come spazzino, bidello, cieco, handicappato, e
abbiamo imparato a sostituirle con “operatore ecologico”, “collaboratore
scolastico”, “non vedente”, “diversamente abile”, ci metteremo pochi
minuti a smetterla di pronunciare parole come Troika, salvataggio,
memorandum. D’ora in poi, se tutto andrà per il verso desiderato, la
Troika (Ue, Bce, Fmi) diventerà “le tre Istituzioni”, il salvataggio
verrà chiamato “prestito ponte”, il memorandum verrà ribattezzato “nuovo
accordo”.
Niente di male, naturalmente. Fa parte della politica, anzi forse è
l’essenza stessa dell’arte politica, manipolare i fatti attraverso le
parole. Il problema, tuttavia, è che i fatti resistono. E il fatto
fondamentale, che resta in piedi al di là di ogni accordo, di ogni
dichiarazione, di ogni promessa, è che l’Europa non solo non è ancora
fuori della crisi iniziata sette anni fa, ma non ha trovato alcun
meccanismo per far sì che quel che è successo allora non si ripeta in
futuro. Qui non mi riferisco all’eventualità che la Grecia debba essere
salvata un’altra volta ad agosto, e poi un’altra nel 2016, e poi
un’altra ancora negli anni a venire. No, il punto decisivo è che quel
che è successo in questi anni, con la Grecia come con gli altri Pigs,
potrebbe benissimo ripetersi in futuro. E questo per una ragione molto
semplice: nonostante alcuni tentativi di restyling della governance
europea, i meccanismi economici di base dell’Eurozona sono rimasti
sostanzialmente invariati.
E dopo più di 15 anni di moneta comune tali meccanismi hanno rivelato al
di là di ogni ragionevole dubbio che non sono in grado di correggere
gli squilibri fra gli stati membri.
Lo squilibrio fondamentale, quello che ha innescato la cri si del
2007-2008, non è tanto l’eccessivo indebitamento di alcuni stati, ma è
l’accumularsi sistematico di forti disavanzi della bilancia dei
pagamenti in alcune economie (tipicamente in Grecia, Portogallo e
Spagna) e di altrettanto enormi avanzi in altri (tipicamente in
Germania). In condizioni normali (senza una moneta comune) squilibri di
questo tipo si correggono automaticamente con la svalutazione della
divisa dei paesi deboli, la cui produttività ristagna o cresce troppo
lentamente, e con la rivalutazione della divisa dei paesi forti, la cui
produttività corre troppo in fretta. Dopo la svalutazione, i paesi che
sono vissuti al di sopra dei propri mezzi sono costretti a importare
meno beni prodotti da altri e ad esportare più beni prodotti da sé
stessi, mentre l’esatto contrario accade, con la rivalutazione, per i
paesi che hanno consumato e investito troppo poco, preferendo accumulare
riserve finanziarie.
Ma se si abbandonano le valute nazionali per una valuta comune, il
meccanismo del cambio scompare per definizione, e lo si deve sostituire
con meccanismi alternativi. I fautori della moneta unica,
presumibilmente, pensavano che tali meccanismi potessero essere tre: la
convergenza delle dinamiche della produttività, favorita dalla
concorrenza e dalla liberalizzazione dei mercati; la capacità delle
banche di selezionare oculatamente i clienti, erogando il credito solo a
chi avesse buone possibilità di restituirlo; la propensione dei mercati
finanziari a punire (con gli alti tassi di interesse) gli Stati troppo
spendaccioni. Ebbene, il problema è che in questi 15 anni nessuno di
questi tre meccanismi ha mostrato di poter funzionare.
La convergenza delle produttività nazionali non c’è stata perché, in un
contesto di stati nazionali con lingue e istituzioni diverse, la
liberalizzazione dei mercati e l’armonizzazione delle legislazioni sono
difficilissime da realizzare. La selezione dei clienti da parte delle
banche non si è realizzata per una pluralità di motivi, primo fra tutti
la mancata separazione fra banche d’affari e banche commerciali. Quanto
ai mercati finanziari, essi hanno rivelato di essere ottusi nei periodi
di vacche grasse (quando chiedevano gli stessi interessi alla Germania e
alla Grecia) e iper-sensibili nei periodi di tensione (quando la paura
del default di uno stato faceva schizzare all’insù i tassi di interesse,
rendendo più probabile il default stesso).
Abbiamo motivo di pensare che qualcosa di importante sia cambiato e che quel che non ha funzionato ieri possa funzionare domani?
A me pare di no. Il problema che l’Eurozona aveva nel 1999, sostituire
il meccanismo del cambio con meccanismi alternativi ma altrettanto
efficaci, resta tuttora perfettamente insoluto. Ed è inquietante che
quel problema, quello di gestire economie con sentieri di crescita
divergenti, sia molto più chiaro ai critici dell’Europa che alle
autorità europee. Si può (anzi, si deve) dissentire con chi sogna il
ritorno alle valute nazionali, così come si può dissentire con chi
teorizza lo split della moneta comune in un euro del Nord e un euro del
Sud, o con chi propugna la messa in comune dei debiti pubblici. Ma resta
il fatto che, se si insiste nella difesa a oltranza dell'euro,
bisognerà pure, prima o poi, uscire dal silenzio e porsi il problema che
l’adozione dell’euro ha generato: quello di un continente in cui ogni
nazione vuol decidere da sola la propria strada, ma nessuna vuole
abbandonare il totem della moneta comune.
La strategia negoziale della farfalla ateniese
L'analisi. Tsipras ha promesso che l’austerità è finita e non è disposto a fare un passo indietro. Ancora una volta, ci vorrà fantasia e creatività per trovare un nuovo compromesso. E così fino a quando la diga non crollerà del tutto.
Dimitri Deliolanes, il Manifesto 21.2.2015
Appena lunedì scorso il presidente dell’eurogruppo Dijesslbloem si era permesso di leggere davanti alle telecamere un ultimatum verso il governo greco: Atene doveva richiedere l’estensione del programma di assistenza finanziaria e accettare in blocco le condizioni che vi erano allegate, sottoscritte dal precedente governo di centrodestra.
Già prima dell’ultimatum, lo stesso Dijesslbloem aveva fatto un piccolo «golpe» sostituendo il documento del commissario europeo Moscovici con un documento scritto in tedesco, con condizioni inaccettabili. In pratica, era in forma scritta quello che Schäeuble aveva dichiarato a voce: il nuovo governo greco doveva fare come il vecchio, eseguire gli ordini.
È passata solo una settimana e quell’ultimatum è stato dimenticato. Venerdì sera i 19 ministri dell’eurozona hanno discusso ma sono arrivati anche a delle conclusioni. Berlino spesso si è trovata isolata e le sue richieste massimaliste rifiutate.
Trattative, compromesso, accordo, ecco la strategia di Tsipras contro l’Europa dell’austerità. È una sorpresa, un cedimento?
Sicuramente sì, se si considera l’obiettivo finale del governo della sinistra greca: togliersi dalle spalle il peso del debito e rilanciare la crescita dell’economia reale.
Ma attribuire a Tsipras la promessa che l’economia greca avrebbe cambiato corso in un giorno è una grossolana falsificazione. Per chi aveva orecchie per sentire e buona volontà per capire, la strategia di Syriza girava per intero attorno a una parola: negoziare.
Cosa ha vinto e cosa ha perso Atene venerdì sera?
Ha vinto in credibilità politica: il nuovo governo greco ha tutta la responsabilità della politica economica e i creditori hanno il diritto di controllare l’andamento dell’economia. Lo faranno attraverso una nuova «troika». Non più emissari della Bce, della Commissione e del Fmi che detteranno la linea alla politica greca ma tecnocrati che interverranno a livello di amministrazione. Le questioni di politica economica saranno dibattute solo tra governi.
Atene ha anche ottenuto di abbattere il rigido 4,5% di avanzo primario per l’anno in corso, previsto dal vecchio memorandum. Ora viene riconosciuto un margine di «flessibilità» da lasciar gestire ai greci. Molto probabilmente, una parte di quel surplus sarà indirizzato verso gli interventi di emergenza alle famiglie senza reddito, costrette a nutrirsi alle mense.
Tsipras non potrà invece tenere fede da subito alla sua promessa di ripristinare il salario minimo del periodo pre-crisi e forse neanche di restuire la 13sima mensilità ai pensionati.
Già domani Varoufakis dovrà presentare ai creditori l’elenco dei punti del vecchio memorandum che Atene accoglie e si impegna a realizzare. È escluso che nel suo elenco siano compresi i nuovi tagli alle pensioni e agli stipendi pubblici e l’ennesima ondata di licenziamenti sottoscritti dal precedente governo.
L’enfasi, lo sappiamo già, sarà data alle vere riforme: del sistema fiscale, dell’amministrazione pubblica e dell’apertura del mercato, combattendo posizioni monopoliste.
Saranno sufficienti? Probabilmente no e Varoufakis ha già annunciato che là ci saranno «grossi problemi».
Per come ha funzionato finora l’eurozona, bisogna parlare solo di cifre: quanto si incasserà dalla lotta all’evasione fiscale? Cosa pensate di incassare al posto dell’imposta sulla prima casa, ora in via di abolizione? Perché avete bloccato le privatizzazioni degli aeroporti che portavano alle casse dello stato ben 10 miliardi?
Probabilmente quindi ci stiamo avviando a un nuovo psicodramma: Varoufakis che insiste su un progetto strategico di stimolo dell’economia reale greca e i creditori, tedeschi in testa, che «non capiranno» di cosa sta parlando, chiedendo in cambio i numeri di futuri incassi.
Ma sono battaglie di retroguardia. Tsipras ha promesso che l’austerità è finita e non è disposto a fare un passo indietro.
Ancora una volta, ci vorrà fantasia e creatività per trovare un nuovo compromesso. E così fino a quando la diga non crollerà del tutto.
Atene scrive la «sua» lista
Grecia. Dopo il duro braccio di ferro a Bruxelles, in Grecia prevale l’attesa per le misure del governo. Lotta all’evasione, tasse arretrate in 100 rate, riforma del lavoro. Varoufakis: «Saranno accettate»
Pavlos Nerantzis, il Manifesto SALONICCO, 21.2.2015
Ventiquattro ore dopo l’ accordo raggiunto a Bruxelles tra il governo greco e i 18 paesi dell’eurozona nessuno si considera vincente, né ovviamente ammette di aver concesso più di tanto. In Grecia prevale soprattutto uno spirito di riflessione. Il paese è ancora immerso in un lungo week-end, visto che il lunedì dà inizio alla Quaresima ortodossa.
Ventiquattro ore dopo l’ accordo raggiunto a Bruxelles tra il governo greco e i 18 paesi dell’eurozona nessuno si considera vincente, né ovviamente ammette di aver concesso più di tanto. In Grecia prevale soprattutto uno spirito di riflessione. Il paese è ancora immerso in un lungo week-end, visto che il lunedì dà inizio alla Quaresima ortodossa.
Politicamente, il documento di Bruxelles è un compromesso temporaneo. «Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra», ammette Tsipras. Syriza non ha ottenuto ciò che voleva – ed è ovvio vista la disparità delle forze in campo– ma ha messo per la prima volta sul tavolo dei colloqui il tema dell’Europa e il suo futuro. L’accordo riflette la necessità di una tregua che darà da una parte l’opportunità di costruire rapporti di fiducia tra Atene e i partner europei e, dall’ altra, tempo prezioso affinché tutti si preparino ad un confronto sostanziale sulle politiche europee. Tra quattro mesi, Alexis Tsipras dovrà aver iniziato ad attuare i cambiamenti promessi pur rispettando gli impegni e soprattutto dovrà presentare il suo new deal per un’ «altra Europa anti-austerity». D’altra parte, Angela Merkel dovrà capire se può continuare sulla stessa linea d’intransigenza nei confronti del Sud Europa.
Basato sulla lettera di Yanis Varoufakis, il documento di Bruxelles è un accordo-ponte, l’estensione dell’ attuale programma di risanamento, che prevede un po’ di flessibilità all’austerity. «Ponte» perché di breve durata (solo quattro mesi), «estensione» perché in realtà è la proroga del Master Financial Assistance Facility Agreement (Mfafa). Il Mfafa altro non è che il famigerato «memorandum», che scade il 28 febbraio, e che a sentire il governo greco «è stato annullato» dal momento che il nuovo accordo non è associato a misure specifiche di austerity; a sentire Wolfgang Schäuble, invece, nulla è cambiato, perciò — sempre secondo il ministro delle finanze tedesco -, «Tsipras avrà delle difficoltà a spiegare l’ accordo ai suoi connazionali».
«Abbiamo vinto solo una battaglia, non la guerra, il vero negoziato inizia ora»Alexis Tsipras in tv
L’unico risultato tangibile il governo di Syriza-Anel sembra averlo strappato sull’abbassamento dell’avanzo primario (sicuramente in questo momento è il punto più importante dell’accordo perché solo così si può far fronte alla crisi umanitaria). Ma non ha ottenuto ciò che Tsipras aveva detto durante la campagna elettorale e ha ripetuto la notte della sua vittoria. Che «dal 26 gennaio in Grecia comincia un’altra era, senza misure di austerità». In altri termini l’accordo di Bruxelles è una pesante ipoteca sul programma di Salonicco presentato da Syriza.
Il massimalismo verbale di Tsipras offre all’ala radicale e agli oppositori interni una buona opportunità per criticare l’ esito delle trattative. Il ministro della Ristrutturazione produttiva e dell’ambiente, Panagiotis Lafazanis, leader della potente «Corrente di Sinistra» dentro Syriza, ha ribadito prima e dopo i negoziati che «l’accordo-ponte deve comunque essere in linea con il nostro programma (di Salonicco, ndr), abbiamo delle zone rosse che non possono essere superate». «Abbiamo promesso di essere liberati dall’austerità e dalle tenaglie del capitale europeo ma nulla è successo a Bruxelles», ammetteva ieri un dirigente di Syriza a Salonicco. Lamentele anche per l’atteggiamento di Varoufakis, il ministro delle finanze greco, che «con il suo stile casual e con ciò che diceva ha irritato i suoi colleghi europei». «Tsipras e Varoufakis hanno cercato di ottenere più di quanto potevano avere dai partner pur non conoscendo le regole del gioco», è il commento di un anziano ex dirigente di una banca ellenica.
La stampa greca ha dato molta enfasi alla telefonata tra Tsipras e Merkel, mentre era in corso il negoziato a Bruxelles, perché a quanto pare è stata decisiva per l’esito positivo del terzo round all’Eurogruppo. Alcuni attivisti della sinistra radicale dicono che «in un faccia a faccia tra Merkel e Tsipras in un vertice Ue tutti avranno le idee chiare. Non solo i «19» ma tutti i membri dell’Ue, che in realtà dovranno decidere non sulla permanenza della Grecia nell’euro ma se prevalgono l’architettura europea e i suoi principi fondamentali oppure la volontà del più forte».
Alle 2 di ieri Tsipras è apparso alla tv pubblica dicendo che «abbiamo annullato i piani delle forze conservatrici che miravano all’asfissia del nostro paese… ma abbiamo vinto una battaglia, non la guerra. Le vere difficoltà sono ancora di fronte a noi. Comunque abbiamo raggiunto il nostro principale obiettivo all’interno dell’eurozona, l’intesa ha cancellato gli impegni sull’austerity dei precedenti governi… ma il negoziato non è finito, anzi adesso entra in una nuova fase, di sostanza».
In serata Tsipras ha riunito il consiglio dei ministri per preparare la lista di misure da presentare domani. Non saranno misure che gravano sul bilancio. Secondo la tv greca Mega, ci sono l’introduzione di una rateizzazione fino a 100 rate per le tasse arretrate, nuove regole sul lavoro, lotta all’evasione fiscale e l’indipendenza della Segreteria generale delle entrate. Altre misure verrebbero dalle analisi fatte con l’Ocse nei giorni scorsi. «Sono praticamente certo che la nostra lista di riforme sarà approvata dalle istituzioni, non diranno di no, altrimenti l’accordo sarebbe già morto e sepolto», ha detto Varoufakis al termine del consiglio dei ministri.
Berlino, la trappola dei crediti
Eurogruppo. I variegati commenti il giorno dopo l'accordo
Jacopo Rosatelli, 21.2.2015
Grande è la confusione sotto il cielo. Sarà un bene? Sull’accordo all’Eurogruppo in Germania le reazioni e i commenti del giorno dopo sono molto variegati: nei media e nelle forze politiche non c’è una lettura univoca su chi sia uscito vincitore dalla battaglia di venerdì a Bruxelles. Fra i conservatori non sono tutti d’accordo sul fatto che a spuntarla sia stato il ministro delle finanze democristiano (Cdu) Wolfgang Schäuble, e a sinistra non c’è condivisione unanime dell’interpretazione di Alexis Tsipras, secondo il quale sarebbe il governo greco ad avere avuto la meglio sul partito dell’austerità. Tutti, in ogni caso, aspettano di vedere cosa accadrà a partire da domani, quando le due paginette dell’intesa dovranno tradursi in pratica: nel «programma di riforme» in cambio del quale sono concessi i crediti.
Ha pochi dubbi su come siano andate le cose la Bild, tabloid destrorso molto letto e (purtroppo) molto influente, che attacca: «Il premier greco Tsipras non ha ancora capito che la situazione è seria? La sua retorica di guerra è solo per indorare la pillola ai suoi sostenitori? Il suo governo lunedì deve presentare ai ministri delle finanze dell’Eurogruppo una lista di risparmi e riforme economiche!». La Bild dà quindi per scontato che l’intesa di venerdì sera preveda che le misure che l’esecutivo ellenico appronterà debbano essere in linea con le politiche di tagli e privatizzazioni seguite fino ad ora. Più dubbiosa si mostra la Frankfurter Allgemenine (Faz), che della Germania liberal-conservatrice è la voce più seria e autorevole: «A prima vista l’accordo è buono perché l’austerità continuerà, ma in realtà il governo di Atene è troppo ambiguo perché ci si possa fidare di loro», afferma in sostanza il giornale di Francoforte.
Cosa turba la Faz? Che il ministro greco Yannis Varoufakis venerdì sera abbia annunciato di volere aumentare il salario minimo: un errore, secondo la testata conservatrice, perché «l’economia greca non è ancora competitiva». «Forse le privatizzazioni potrebbero rendere il Paese più efficiente, ma il governo ne intende sempre ancora bloccare alcune», afferma con tono di rimprovero l’editorialista della Faz Patrick Bernau. Parole dalle quali si nota chiaramente come il vero problema sia, al di là della retorica ufficiale sul «rispetto delle regole», la natura delle riforme che Syriza vuole realizzare: chiunque provi a fermare la svendita del patrimonio pubblico bloccando privatizzazioni selvagge viene immediatamente stigmatizzato come pericoloso sabotatore che viola i patti. Lo stesso scetticismo del quotidiano di Francoforte si riscontra nelle file della
Cdu e dei bavaresi della Csu, anche se il capogruppo parlamentare democristiano, Volker Kauder si professa ottimista: «il Bundestag approverà l’accordo la prossima settimana».
Voci discordanti anche a sinistra. L’europarlamentare socialdemocratico Udo Bullmann in un’intervista alla radio pubblica si dichiara soddisfatto «perché l’Europa ha mostrato capacità di azione». Ma quel che più conta è che l’esponente della Spd affermi con chiarezza che «la troika ha fallito», e denunci la drammatica situazione sociale che si vive in Grecia: «Se oggi si visitano i quartieri periferici di Atene – ha dichiarato – sembra di essere a Beirut». Giudizio positivo sull’accordo anche dalla Linke: per l’eurodeputato Fabio De Masi «il ricatto è finito, Varoufakis ha salvato i soldi dei contribuenti tedeschi». A suo giudizio politiche espansive e socialmente sostenibili sono compatibili con la lettera dell’intesa di venerdì sera. Dello stesso avviso anche la co-segretaria dei Verdi Simone Peter.
Su tutt’altra linea è, invece, il quotidiano progressista die Taz: «la battaglia l’ha vinta Schäuble, e la Grecia dovrà continuare la politica dell’austerità» si legge nel commento di Eric Bonse. «L’obiettivo raggiunto dal ministro tedesco è stato aver dimostrato che è solo lui che decide le regole del gioco»: questa la tesi dell’analista della Taz. «Schäuble ha imposto al governo greco un’agenda impossibile da realizzare, e ha precluso ogni possibilità di una politica migliore. Per questo il dramma del debito continuerà».
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