domenica 1 marzo 2015

I viaggi di Carlo Levi in India e in Cina

Responsive imageCarlo Levi: Buon­giorno, Oriente, Don­zelli edi­tore, pagine 240, euro 24

Risvolto
«I giorni sono passati, le ore del tempo, fitte e gremite come la folla innumerevole nelle strade e nelle campagne dell’India che debbo ormai abbandonare, fuggevoli e istantanee come un batter di palpebre. Che cosa è un giorno, in questi secoli che si accavallano? E che cosa è un uomo, in queste miriadi? Quello che ho visto, con le sue infinite facce brillanti e multiformi, non è che un frammento di una realtà sconfinata. Il tempo è lento come i fiumi sacri che si avvolgono su sé stessi nelle pianure. È il tempo dei contadini, che si misura a lune, stagioni, anni, raccolti, che si misura con le morti, con le nascite, e si segna sui muri di fango, fragili sotto il monsone, con le rosse mani dipinte».
A distanza di pochi anni, tra il 1957 e il 1959, Carlo Levi compì un viaggio nel subcontinente indiano e uno in Cina, come inviato per il quotidiano «La Stampa». I suoi reportages, usciti a puntate e qui raccolti in volume, appartengono a un giornalismo che non c’è più, un giornalismo non ancora saturato, e in un certo senso usurato, dall’urgenza della notizia e dall’eccesso del culto dell’immagine: un mondo in cui l’informazione viaggiava lenta e aveva il tempo di sedimentare. I resoconti di viaggio di Levi commuovono come poesie: la narrazione è parte integrante di quell’esperienza in una realtà apparentemente «altra» di cui lo scrittore si appropria per ritrovarvisi come in uno specchio. E insieme, per ritrovare in quella civiltà, lontana ed esotica, le radici profonde della nostra civiltà e della nostra storia. Reportages che sono fotografie, affreschi della società indiana e cinese, che lo scrittore torinese sa penetrare con rispetto e riserbo, e al tempo stesso con apertura e disponibilità a un nuovo che gli desta stupore e curiosità inesauribili. Trapela tutta l’esigenza del viaggiatore di divenire faticosamente e lentamente «una spugna asciutta e vuota», che può riempirsi delle acque in cui è immersa e farne poi dono agli altri che lo aspettano e che, in fondo, hanno viaggiato un po’ con lui. Sul continuo alternarsi di quadri d’insieme coerenti e di squarci dalla possente suggestione lirica, aleggia impalpabile una sorta di presagio di ciò che verrà. Ne sortisce un libro che è un’istantanea preziosa per cogliere nel loro farsi due ormai conclamate potenze mondiali, alle prese con il loro primo impatto con la modernità.


Carlo Levi tra i contadini di Mao 
Reportage. Lo scrittore torinese nell’India di Nehru e nelle Comuni popolari cinesi

Angelo Mastrandrea, 26.2.2015

È un Carlo Levi solo appa­ren­te­mente lon­tano dai suoi luo­ghi e dalle tema­ti­che che ne hanno carat­te­riz­zato l’attività gior­na­li­stica, let­te­ra­ria e pit­to­rica, quello che tra il 1957 e il 1959 va a rac­con­tare l’India di Nehru e poi «il grande balzo in avanti» della Cina maoi­sta. A ben leg­gere Buon­giorno, Oriente (Don­zelli edi­tore, pagine 240, euro 24), la rac­colta di repor­tage asia­tici scritti per La Stampa, si intrav­vede come un filo che lega i con­ta­dini lucani con quelli delle cam­pa­gne cinesi, dei quali rimane «poe­ti­ca­mente inna­mo­rato», come scrive nella pre­fa­zione il diret­tore del quo­ti­diano tori­nese Mario Cala­bresi, che pure nutre qual­che per­ples­sità sul fatto che «la descri­zione del mondo dei con­ta­dini, cen­trale in tutto il lungo repor­tage, non regge all’esame della storia». 

L’intellettuale tori­nese rac­conta, con la sen­si­bi­lità dello scrit­tore e lo sguardo acuto del testimone-giornalista, una società che all’epoca comin­ciava una lunga mar­cia sulla via di una moder­niz­za­zione che avrà un punto d’approdo molto diverso rispetto alle pre­messe. Lo fa con uno stile nar­ra­tivo carat­te­riz­zato da len­tezza e pro­fon­dità, impen­sa­bile nel mondo odierno delle brea­king news e dell’informazione veloce e super­fi­ciale. Inviato dall’allora diret­tore Giu­lio De Bene­detti, vola in Estremo Oriente per rac­con­tare il socia­li­smo di Nehru e il maoi­smo dal punto di vista dei subal­terni, allo stesso modo in cui nel Cri­sto si è fer­mato a Eboli aveva rac­con­tato l’Italia fasci­sta dal buco della ser­ra­tura di Aliano, il pae­sino del mate­rano dov’era stato inviato al con­fino dal regime mussoliniano. 

Il pre­te­sto per il primo viag­gio, nel 1957, è un invito al Con­gresso pana­sia­tico degli scrit­tori, a Nuova Delhi, al quale arriva con il disin­canto di chi pensa ai rea­ding let­te­rari di casa nostra, «dove siamo abi­tuati giu­sta­mente a pen­sare che la poe­sia vada letta quasi in segreto, legata a una par­te­ci­pa­zione, a un rap­porto d’amore che esclude gli estra­nei e la vanità». Ne rimane invece incan­tato appena capi­sce di essere finito «in un mondo antico nel quale anche la poe­sia aveva un’altra dimen­sione, altrove ormai per­dute; stava come un canto comune, sulla piazza del vil­lag­gio». Al con­gresso farà la cono­scenza pure di Jawal­rah Nehru, che lo col­pirà in par­ti­co­lare per il corag­gio: «Non si nasconde né die­tro il potere, né die­tro la parola, né die­tro la tec­nica poli­tica, ma è pre­sente, per­so­nal­mente tutto pre­sente», scrive. Quello che rende il padre dell’India moderna degno di rispetto «anche per chi non con­di­vida le sue idee o non approvi la sua poli­tica», per Levi, è l’uomo, ma quello che lo rende ai suoi occhi quasi un fra­tello mag­giore è il fatto che Nehru è arri­vato «a que­sto valore poe­tico della per­sona, oltre­ché attra­verso la comu­nanza con Gan­dhi, attra­verso due espe­rienze fon­da­men­tali: la pri­gione (il tempo, la soli­tu­dine) e il mondo del vil­lag­gio con­ta­dino», dove «si è for­mato il suo pen­siero, la sua per­sona» e «l’azione è diven­tata cono­scenza, totale avven­tura umana, sco­perta». È come se Levi rico­no­scesse nel lea­der indiano qual­cosa di se stesso, della pro­pria per­so­na­lis­sima espe­rienza di vita: il car­cere fasci­sta e il con­fino, la sco­perta del mondo con­ta­dino, l’azione poli­tica come ricerca della verità. 
Ancora più incen­trato sulle cam­pa­gne è il secondo viag­gio, due anni dopo in Cina, dove «la Grande Mar­cia attra­verso le regioni più remote, le terre per­dute, le città murate, fino alle mon­ta­gne e alle grotte di Yen­nan, decimò, fra bat­ta­glie, malat­tie, stenti e fame, le truppe com­bat­tenti, ma dap­per­tutto al pas­sag­gio mosse, distri­buendo terre e addi­tando una spe­ranza, l’esercito senza numero e senz’armi dei con­ta­dini». Levi visita nume­rose Comuni e ne rac­conta i prin­cipi ispi­ra­tori («la terra appar­tiene al popolo cinese», «il gua­da­gno è diviso secondo il prin­ci­pio “a cia­scuno secondo il suo lavoro”»), il fun­zio­na­mento e le dif­fe­renze rispetto ai kol­khoz sovie­tici e ai kib­butz israe­liani, rima­nendo ancora una volta affa­sci­nato dalle poe­sie con­ta­dine «rac­colte in una stanza di ritrovo», stam­pate e rile­gate in «fasci­co­letti colo­rati», così come dagli arti­sti del Sichuan per i quali «gli ele­menti della pit­tura sono tre: la poe­sia, l’incisione e i pennelli». 
Insieme al riscatto con­ta­dino, a col­pire lo scrit­tore è anche il ribal­ta­mento del ruolo della donna, in una società per molti aspetti ancora pro­fon­da­mente arre­trata. «Sono dap­per­tutto, come un eser­cito che con­qui­sta, giorno per giorno, la terra dove vive», nei ruoli diri­genti come in quelli ope­rai e con­ta­dini, tra le arti­ste e le poe­tesse, scrive. «“La rivo­lu­zione ci ha libe­rate dell’amore”, disse con entu­sia­smo una signora cinese a Simone de Beau­voir», rac­conta ancora Levi, per­ché «amore era, nella vec­chia società cinese, per gran parte delle donne, niente altro che ser­vitù, sof­fe­renza, con­di­zione di oggetto e di stru­mento, infi­nito dolore di un mondo feu­dale senza esi­stenza». Un sistema abo­lito per legge nel 1950, che non impe­di­sce allo scrit­tore di inter­ro­garsi se «que­sta rivo­lu­zione fem­mi­nile ha vinto dap­per­tutto». La sua rispo­sta è «cer­ta­mente no», per­ché «i morti con­ser­vano a lungo il domi­nio», ma egli crede, get­tando il cuore oltre l’ostacolo, che a por­tare «una morale vir­tuosa e nuova, che si iden­ti­fica con il senso della libertà», sono le gio­vani che vede impie­gate nelle fab­bri­che e nelle bri­gate al lavoro nei campi, come sol­da­tesse e dirigenti. 
Anche se le vicende sto­ri­che e poli­ti­che dei quasi sessant’anni tra­scorsi dai due viaggi leviani si sono pre­mu­rate di indi­riz­zare i due Paesi verso un’altra dire­zione, non per que­sto il rac­conto perde di fascino. Rimane la foto­gra­fia di un mondo che non c’è più e di una rivo­lu­zione con­ta­dina fal­lita, quella stessa che l’autore aveva rite­nuto essen­ziale per eman­ci­pare il nostro Paese. Quella «civiltà», come l’avrebbe defi­nita il suo pupillo Rocco Sco­tel­laro, alla fine degli anni Cin­quanta stava però per essere defi­ni­ti­va­mente tra­volta dalla moder­nità. Pure quel pezzo d’Asia che gli sem­brò la punta avan­zata del riscatto con­ta­dino e di una diversa con­ce­zione dello Stato e del rap­porto tra indi­vi­duo e col­let­tivo, a guar­darla oggi gli avrebbe riser­vato qual­che delusione.

1 commento:

Unknown ha detto...

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