A distanza di pochi anni, tra il 1957 e il 1959, Carlo Levi compì un viaggio nel subcontinente indiano e uno in Cina, come inviato per il quotidiano «La Stampa». I suoi reportages, usciti a puntate e qui raccolti in volume, appartengono a un giornalismo che non c’è più, un giornalismo non ancora saturato, e in un certo senso usurato, dall’urgenza della notizia e dall’eccesso del culto dell’immagine: un mondo in cui l’informazione viaggiava lenta e aveva il tempo di sedimentare. I resoconti di viaggio di Levi commuovono come poesie: la narrazione è parte integrante di quell’esperienza in una realtà apparentemente «altra» di cui lo scrittore si appropria per ritrovarvisi come in uno specchio. E insieme, per ritrovare in quella civiltà, lontana ed esotica, le radici profonde della nostra civiltà e della nostra storia. Reportages che sono fotografie, affreschi della società indiana e cinese, che lo scrittore torinese sa penetrare con rispetto e riserbo, e al tempo stesso con apertura e disponibilità a un nuovo che gli desta stupore e curiosità inesauribili. Trapela tutta l’esigenza del viaggiatore di divenire faticosamente e lentamente «una spugna asciutta e vuota», che può riempirsi delle acque in cui è immersa e farne poi dono agli altri che lo aspettano e che, in fondo, hanno viaggiato un po’ con lui. Sul continuo alternarsi di quadri d’insieme coerenti e di squarci dalla possente suggestione lirica, aleggia impalpabile una sorta di presagio di ciò che verrà. Ne sortisce un libro che è un’istantanea preziosa per cogliere nel loro farsi due ormai conclamate potenze mondiali, alle prese con il loro primo impatto con la modernità.
domenica 1 marzo 2015
I viaggi di Carlo Levi in India e in Cina
«I giorni sono passati, le ore del tempo,
fitte e gremite come la folla innumerevole nelle strade e nelle campagne
dell’India che debbo ormai abbandonare, fuggevoli e istantanee come un
batter di palpebre. Che cosa è un giorno, in questi secoli che si
accavallano? E che cosa è un uomo, in queste miriadi? Quello che ho
visto, con le sue infinite facce brillanti e multiformi, non è che un
frammento di una realtà sconfinata. Il tempo è lento come i fiumi sacri
che si avvolgono su sé stessi nelle pianure. È il tempo dei contadini,
che si misura a lune, stagioni, anni, raccolti, che si misura con le
morti, con le nascite, e si segna sui muri di fango, fragili sotto il
monsone, con le rosse mani dipinte».
A distanza di pochi anni, tra il 1957 e il 1959, Carlo Levi compì un viaggio nel subcontinente indiano e uno in Cina, come inviato per il quotidiano «La Stampa». I suoi reportages, usciti a puntate e qui raccolti in volume, appartengono a un giornalismo che non c’è più, un giornalismo non ancora saturato, e in un certo senso usurato, dall’urgenza della notizia e dall’eccesso del culto dell’immagine: un mondo in cui l’informazione viaggiava lenta e aveva il tempo di sedimentare. I resoconti di viaggio di Levi commuovono come poesie: la narrazione è parte integrante di quell’esperienza in una realtà apparentemente «altra» di cui lo scrittore si appropria per ritrovarvisi come in uno specchio. E insieme, per ritrovare in quella civiltà, lontana ed esotica, le radici profonde della nostra civiltà e della nostra storia. Reportages che sono fotografie, affreschi della società indiana e cinese, che lo scrittore torinese sa penetrare con rispetto e riserbo, e al tempo stesso con apertura e disponibilità a un nuovo che gli desta stupore e curiosità inesauribili. Trapela tutta l’esigenza del viaggiatore di divenire faticosamente e lentamente «una spugna asciutta e vuota», che può riempirsi delle acque in cui è immersa e farne poi dono agli altri che lo aspettano e che, in fondo, hanno viaggiato un po’ con lui. Sul continuo alternarsi di quadri d’insieme coerenti e di squarci dalla possente suggestione lirica, aleggia impalpabile una sorta di presagio di ciò che verrà. Ne sortisce un libro che è un’istantanea preziosa per cogliere nel loro farsi due ormai conclamate potenze mondiali, alle prese con il loro primo impatto con la modernità.
A distanza di pochi anni, tra il 1957 e il 1959, Carlo Levi compì un viaggio nel subcontinente indiano e uno in Cina, come inviato per il quotidiano «La Stampa». I suoi reportages, usciti a puntate e qui raccolti in volume, appartengono a un giornalismo che non c’è più, un giornalismo non ancora saturato, e in un certo senso usurato, dall’urgenza della notizia e dall’eccesso del culto dell’immagine: un mondo in cui l’informazione viaggiava lenta e aveva il tempo di sedimentare. I resoconti di viaggio di Levi commuovono come poesie: la narrazione è parte integrante di quell’esperienza in una realtà apparentemente «altra» di cui lo scrittore si appropria per ritrovarvisi come in uno specchio. E insieme, per ritrovare in quella civiltà, lontana ed esotica, le radici profonde della nostra civiltà e della nostra storia. Reportages che sono fotografie, affreschi della società indiana e cinese, che lo scrittore torinese sa penetrare con rispetto e riserbo, e al tempo stesso con apertura e disponibilità a un nuovo che gli desta stupore e curiosità inesauribili. Trapela tutta l’esigenza del viaggiatore di divenire faticosamente e lentamente «una spugna asciutta e vuota», che può riempirsi delle acque in cui è immersa e farne poi dono agli altri che lo aspettano e che, in fondo, hanno viaggiato un po’ con lui. Sul continuo alternarsi di quadri d’insieme coerenti e di squarci dalla possente suggestione lirica, aleggia impalpabile una sorta di presagio di ciò che verrà. Ne sortisce un libro che è un’istantanea preziosa per cogliere nel loro farsi due ormai conclamate potenze mondiali, alle prese con il loro primo impatto con la modernità.
Carlo Levi tra i contadini di Mao
Reportage. Lo scrittore torinese nell’India di Nehru e nelle Comuni popolari cinesi
Angelo Mastrandrea, 26.2.2015
È un Carlo Levi solo apparentemente lontano dai suoi luoghi e dalle tematiche che ne hanno caratterizzato l’attività giornalistica, letteraria e pittorica, quello che tra il 1957 e il 1959 va a raccontare l’India di Nehru e poi «il grande balzo in avanti» della Cina maoista. A ben leggere Buongiorno, Oriente (Donzelli editore, pagine 240, euro 24), la raccolta di reportage asiatici scritti per La Stampa, si intravvede come un filo che lega i contadini lucani con quelli delle campagne cinesi, dei quali rimane «poeticamente innamorato», come scrive nella prefazione il direttore del quotidiano torinese Mario Calabresi, che pure nutre qualche perplessità sul fatto che «la descrizione del mondo dei contadini, centrale in tutto il lungo reportage, non regge all’esame della storia».
L’intellettuale torinese racconta, con la sensibilità dello scrittore e lo sguardo acuto del testimone-giornalista, una società che all’epoca cominciava una lunga marcia sulla via di una modernizzazione che avrà un punto d’approdo molto diverso rispetto alle premesse. Lo fa con uno stile narrativo caratterizzato da lentezza e profondità, impensabile nel mondo odierno delle breaking news e dell’informazione veloce e superficiale. Inviato dall’allora direttore Giulio De Benedetti, vola in Estremo Oriente per raccontare il socialismo di Nehru e il maoismo dal punto di vista dei subalterni, allo stesso modo in cui nel Cristo si è fermato a Eboli aveva raccontato l’Italia fascista dal buco della serratura di Aliano, il paesino del materano dov’era stato inviato al confino dal regime mussoliniano.
Il pretesto per il primo viaggio, nel 1957, è un invito al Congresso panasiatico degli scrittori, a Nuova Delhi, al quale arriva con il disincanto di chi pensa ai reading letterari di casa nostra, «dove siamo abituati giustamente a pensare che la poesia vada letta quasi in segreto, legata a una partecipazione, a un rapporto d’amore che esclude gli estranei e la vanità». Ne rimane invece incantato appena capisce di essere finito «in un mondo antico nel quale anche la poesia aveva un’altra dimensione, altrove ormai perdute; stava come un canto comune, sulla piazza del villaggio». Al congresso farà la conoscenza pure di Jawalrah Nehru, che lo colpirà in particolare per il coraggio: «Non si nasconde né dietro il potere, né dietro la parola, né dietro la tecnica politica, ma è presente, personalmente tutto presente», scrive. Quello che rende il padre dell’India moderna degno di rispetto «anche per chi non condivida le sue idee o non approvi la sua politica», per Levi, è l’uomo, ma quello che lo rende ai suoi occhi quasi un fratello maggiore è il fatto che Nehru è arrivato «a questo valore poetico della persona, oltreché attraverso la comunanza con Gandhi, attraverso due esperienze fondamentali: la prigione (il tempo, la solitudine) e il mondo del villaggio contadino», dove «si è formato il suo pensiero, la sua persona» e «l’azione è diventata conoscenza, totale avventura umana, scoperta». È come se Levi riconoscesse nel leader indiano qualcosa di se stesso, della propria personalissima esperienza di vita: il carcere fascista e il confino, la scoperta del mondo contadino, l’azione politica come ricerca della verità.
Ancora più incentrato sulle campagne è il secondo viaggio, due anni dopo in Cina, dove «la Grande Marcia attraverso le regioni più remote, le terre perdute, le città murate, fino alle montagne e alle grotte di Yennan, decimò, fra battaglie, malattie, stenti e fame, le truppe combattenti, ma dappertutto al passaggio mosse, distribuendo terre e additando una speranza, l’esercito senza numero e senz’armi dei contadini». Levi visita numerose Comuni e ne racconta i principi ispiratori («la terra appartiene al popolo cinese», «il guadagno è diviso secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”»), il funzionamento e le differenze rispetto ai kolkhoz sovietici e ai kibbutz israeliani, rimanendo ancora una volta affascinato dalle poesie contadine «raccolte in una stanza di ritrovo», stampate e rilegate in «fascicoletti colorati», così come dagli artisti del Sichuan per i quali «gli elementi della pittura sono tre: la poesia, l’incisione e i pennelli».
Insieme al riscatto contadino, a colpire lo scrittore è anche il ribaltamento del ruolo della donna, in una società per molti aspetti ancora profondamente arretrata. «Sono dappertutto, come un esercito che conquista, giorno per giorno, la terra dove vive», nei ruoli dirigenti come in quelli operai e contadini, tra le artiste e le poetesse, scrive. «“La rivoluzione ci ha liberate dell’amore”, disse con entusiasmo una signora cinese a Simone de Beauvoir», racconta ancora Levi, perché «amore era, nella vecchia società cinese, per gran parte delle donne, niente altro che servitù, sofferenza, condizione di oggetto e di strumento, infinito dolore di un mondo feudale senza esistenza». Un sistema abolito per legge nel 1950, che non impedisce allo scrittore di interrogarsi se «questa rivoluzione femminile ha vinto dappertutto». La sua risposta è «certamente no», perché «i morti conservano a lungo il dominio», ma egli crede, gettando il cuore oltre l’ostacolo, che a portare «una morale virtuosa e nuova, che si identifica con il senso della libertà», sono le giovani che vede impiegate nelle fabbriche e nelle brigate al lavoro nei campi, come soldatesse e dirigenti.
Anche se le vicende storiche e politiche dei quasi sessant’anni trascorsi dai due viaggi leviani si sono premurate di indirizzare i due Paesi verso un’altra direzione, non per questo il racconto perde di fascino. Rimane la fotografia di un mondo che non c’è più e di una rivoluzione contadina fallita, quella stessa che l’autore aveva ritenuto essenziale per emancipare il nostro Paese. Quella «civiltà», come l’avrebbe definita il suo pupillo Rocco Scotellaro, alla fine degli anni Cinquanta stava però per essere definitivamente travolta dalla modernità. Pure quel pezzo d’Asia che gli sembrò la punta avanzata del riscatto contadino e di una diversa concezione dello Stato e del rapporto tra individuo e collettivo, a guardarla oggi gli avrebbe riservato qualche delusione.
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