martedì 23 giugno 2015

Il socialismo complottista degli imbecilli e dei malriusciti: una destra reattiva e plebea

Risultati immagini per Simonetti: La verità sul piano Kalergi
Una destra sulla quale Nietzsche non avrebbe manco scaracchiato, per paura di improfumarla.
Se lo meritano, Francesco Lacan [SGA].

Matteo Simonetti: La verità sul piano Kalergi. Europa, inganno, immigrazione, Edizioni Radio Spada, pp. 160, euro 15,90

Risvolto
Questo libro, saggio storico-filosofico tutto rivolto all’attualità, colma una lacuna enorme. Il primo libro in Italia e il secondo in assoluto ad esaminare in profondità attori,  fatti e misfatti dal 1920 ad oggi, “La verità sul piano Kalergi” rivela ciò che coscientemente è stato celato ai popoli e agli individui circa la natura di questa Europa. Il conte Kalergi, mente di rilievo ma anche inconsapevole (?) pedina è la figura di spicco di questa costruzione artificiale. Con lui e tramite lui agiscono poteri nascosti, che in un piano dettagliato e tramite un’opera paziente forgiano, anche nella teoria, una nuova élite, un nuovo stile di vita, che in parte è già in atto e in parte deve ancora completarsi.
Matteo Simonetti è nato nel 1971, vive a Potenza Picena. Professore di storia e filosofia, pianista. Giornalista dal 2002, ha scritto, tra gli altri, per Secolo d'Italia, L'Indipendente, Liberal, Il Borghese, Percorsi di cultura politica, La Destra, Il Giornale del Ribelle. Insegna inoltre al Master "E. Mattei" presso l'Università di Teramo, dove è anche cultore della materia in Storia delle relazioni internazionali. Ha già pubblicato "Stasera dirige Nietzsche", Pantheon 2005, "Demonocrazia", Solfanelli 2010, "Hannah l'antisemita", Edizioni all'Insegna del Veltro 2011.

Il padre dell’Ue, razzista pro-meticci 
Un’analisi del piano di Kalergi, ispiratore dell’unità europea, rivela: l’immigrazione serve a cancellare i popoli e controllare gli Stati 
1 giu 2015  Libero MARIOBERNARDIGUARDI 
Ignoto ai più, ben noto ai piani alti e nelle segrete stanze della politica tra le due guerre, Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972) è considerato uno deipadri di questa Europa. 

Apprezzato da personaggi come Edward Beneš, Otto d’Asburgo, Hjalmar Schacht, Konrad Adenauer, Robert Schuman, Alcide de Gasperi, Winston Churchill, Aristide Briand e detestato, invece, da Adolf Hitler, Kalergi ha fornito suggerimenti e suggestioni per l’Unione Parlamentare Europea, il Consiglio d’Europa, ilMercatoComune, ilParlamento Europeo. 
Non basta: perché fu lui, insignito nel 1950, ad Aachen, del Premio Carlo Magno per il suo impegno europeista, a proporre il Coro della Nona Sinfonia di Beethoven come inno europeo (1971). Insomma, di tutto. 
E in questo dipiù c’è anche il complesso profilo ideologico del nobiluomo austriaco. Ne tratta Matteo Simonetti, marchigiano e autore di La verità sul piano Kalergi ( Edizioni Radio Spada, pp. 160, euro 15,90). 

Come ha incontrato Kalergi? 

«Per caso, viaggiando in rete. Ma era da tempo che mi ponevo domande su questa Europadelle crisi indotte, della 
scomparsa della sovranità monetaria, dei governi non eletti al comando degli stati, della troika, deipopoli che vedono passare il destino sulle loro teste, dell’invasione accettata e autoprocurata». Ebbene? «Ebbene, tutto questo non poteva essere frutto solo del caso o della cattiva gestione. Avevourgenza di capire le origini e le cause dello stato dei fatti». 

Eha individuato inKalergi il responsabile di tanto scempio? 

«La figura è ambigua: da una parte il titolo di “padre dell’Europa”, conAngelaMerkel che ritira il premio a lui intitolato, dall’altra alcuni aspetti inquietanti». 

Senonsbaglio, a suo avviso, per capire Kalergi bisogna leggere lasua opera filosofica più compiuta e cioè Praktischer Idealismus”. 

«Indubbiamente. Qui troviamo tutto. Il progressista: piùsi va avantinel tempo, più l’uomo si emancipa da errori e pregiudizi. Il pensatore che ha una visione messianica della storia, con in prospettivalarigenerazione dellasocietà fino a una sorta di “paradiso in terra”. Il materialista: per essere felici bisogna che non ci siano impedimenti fisici allamanipolazione e al controllo della natura. L’antidemocratico e l’eugenista sociale: lemasse sono incapaci di governarsi, hanno bisogno di un leader; la democrazia scomparirà da sé quando si realizzerà una “nuova nobiltà” capace di condurle “da una ingiusta ineguaglianza, passando per l’uguaglianza, verso una ineguaglianza giusta”». 

Lei parla anche del «razzista biologico»… 

«Sì, per lui, le caratteristiche fisiche, spirituali, caratteriali si tramandano per linee di sangue. La razza destinta a dominare i popoli europei è quella ebraica per motivi sia storicoculturali, sia, soprattutto, di selezione eugenetica». 

Un razzista ma anche un bolscevico… 


« Sì, credeva credeva che la rivoluzione sovietica avesse realizzato quel connubio tra “nuova nobiltà” e filantropismo, che era il suomodello di guidapolitica. Epoi si auguravala nascitadiunnuovoorganismo superstatuale che scongiurasse laguerra tra ipopoli europei». Come? «Eliminando “i popoli come identità fisiognomiche e culturaliattraverso ilmeticciato, evidentemente frutto di unaimmigrazione indiscriminata”. La razza del futuro, negro-euroasiatica avrebberimpiazzato la molteplicità dei popoli. “Nei meticci”, scriveva, “si uniscono spesso mancanza di carattere, assenza di scrupoli, debolezza di volontà, instabilità, mancanza di rispetto”, tutte caratteristiche che le rendono facilmente manovrabili dalla “nuova nobiltà” diburocrati, finanzieri e banchieri. Anglofoni».



La cultura dell’accoglienza che distrugge i popoli 
Ieri eventi e concerti hanno celebrato i «migranti» e la solidarietà In nome della quale cancelliamo il nostro patrimonio e quello altrui 
21 giu 2015 Libero FRANCESCOBORGONOVO
(...) impegnate nel sociale. Il presidente SergioMattarella si è sentito in dovere di dire che «l’Italia sente forte ildoveredella solidarietà», e avrebbe potuto anche dire «oggi fa caldo e ho voglia di una granita»: l’impatto sui cittadini sarebbe stato il medesimo. Eventi piccini e ambiziosi sono stati approntati un po’ ovunque. A Roma, perdire, è andata inscenal’imperdibile kermesse Noi come voi siamo tuttimigranti. 

È evidente che ci troviamo davanti a un’offensiva che è prima di tutto culturale. Ci sono slogan, parole d’ordine, mantra da scandire, frasi da piantare nel cervello degli italiani affinché ne scaturisca rigogliosa la pianta dell’accoglienza. Kulturkampf, dunque, a cui non si può che rispondere sul terreno culturale. Cominciando dal banale buonsenso: «Noicome voi siamo tutti migranti» è una bugia. Non è vero che siamo tutti migranti. Anzi, siamo in maggioranza stanziali, persino gli zingari. Dopo tutto, «a nessuno piace migrare». Non lo diciamo noi, lo scrive addirittura l’Espresso nel serviziodi copertinadell’ultimonumero, unreportage diFabrizioGatti. Ilnoto giornalista spiega che, nel solo 2014, l’Italia ha speso per l’assistenza agli sbarchi 746.172.000 euro. Quasi 750 milionidieuroandatia170mila immigrati o poco più. Dal 2011 al 2014, invece, abbiamo speso 2.288.000.000. Con questiduemiliardi e passa avremmopotuto crearenelcontinente africano, dice l’Espresso, oltre unmilione e ottocentomila posti di lavoro, che avrebbero sostenuto qualcosa come dodicimilioni di persone. Eppure, il denaro preferiamo spenderlo per portare gli immigrati sulnostro territorio o perorganizzare concerti a loro favore. CivienedettodaLauraBoldrini, da Cecilia Strada, perfino da Mattarella che tutto ciò è giustificato dalla solidarietà e dal rispettodell’altro. Non èaffatto vero. Quella dell’accoglienza indiscriminata, in realtà, è un’ideologia nonmaggioritaria, ma dominante, creata da una élite a discapito di intere popolazioni. Una ideologia che è statadescritta e analizzata da autori di segno e convinzioni diverse, che è utile leggere per farsi gli anticorpi necessari a debellare la malattia mentale (quella sì, dannosa, a differenzadella «scabbiamentale fascioleghista» di cui bercia Gad Lerner) che serpeggia per l’Occidente. 
Questa ideologia dell’accoglienza, tanto per cominciare, è un prodotto squisitamente occidentale. Deriva dalla nefasta fusione di internazionalismo marxista e capitalismo sfrenato. Lo studioso americanoChristopher Lasch ha ben raccontato nel fondamentale Laribellionedelle élite (Feltrinelli) come si sia sviluppata, negli Stati Uniti ma anche in Europa, una classe intellettualeebenestante chehafattodello sradicamento e del «nomadismo» le propriebandiere. Libri come La classe creativa spicca il volo di Richard Florida e L’infelicità del successo dell’economista Robert Reich sono scesi (da prospettive diverse: entusiasta il primo, più critico il secondo) ancor più in profondità. Eccola, l’élite dioggi, quella per cui la patria è il mondo intero, per cui la delocalizzazionedell’anima è ilprimo passo verso la realizzazione. Ilconcettodinazioneva superato, dicono, così come quello di comunità. Libera circolazione delle merci e degli uomini, dunque. Peccato che tra lamerce e l’uomo, alla fine, non si faccia alcuna differenza. Il creativo deve esseresempre pronto a partire, a spostarsi, acambiare vita e lavoro: nomade, insomma. Ovviamente conunsuperstipendioemagari con il conto corrente in un paradiso fiscale, la casa aMiami, il capoufficio a Palo Alto e la scrivania a Parigi, che fa tantoBohème. Pochi legami sociali, e abreve termine. Poche certezze, sempre quelle: se ilcreativo americano che ha studiato in Europa si trova per caso in Giappone, vuole trovare la sua catena preferita di panini, la sua rivendita di cellulari e magari vuole partecipare a una riunione dentro a un grattacielo disegnato dall’architetto-star che ha progettato casa sua (leggereinpropositoMaledetti architetti diTomWolfe e No alle archistar di Nikos Salingaros). La differenza non esiste più. O, meglio, esiste come patina: l’individuo, si dice, ha diritto di «esprimere se stesso», ha diritto alla propria originalità. Che si risolve, per lo più, nell’omologazione: gli impiegati di Google possono andare al lavoro in camicia hawaiana e calzoncini, ma è pur sempre una divisa. 
La differenza vera èosteggiata. Il patrimonio culturale è un fardello: va bene se produce il ristorante orientale sotto casa, meno se si esprime sotto forma di differenti tradizioni. Ma poiché tutti possono essere uguali ovunque, ecco che ovunquedevonoessere garantiti imedesimi «diritti», inparticolare i «diritti umani». Il fatto che siano una costruzione occidentale (comemostra Alain De Benoist in Contro i diritti umanienel recenteIdemoni del bene) non preoccupa nessuno, né la Boldrini né i suoi discepoli. Il cui atteggiamento si risolve nell’«imperialismo al contrario» di cui parla Pascal Bruckner in La tirannia della penitenza (Guanda). Poiché l’Occidente è il centro del globo e il responsabile di tutti i mali, deve porvi rimedio: per esempioaccogliendo gli immigrati, i quali arrivano qui, si dice, in virtù di guerre e carestie provocate per lo più dall’Occidente. Ancoraunavolta, consideriamo gli altri popoli selvaggi da educare. Scriveva Guillaume Faye - da posizioni completamentediverse rispetto a quelle di Bruckner - che «bisognasmetterladipresentare iPaesi del Sud, e soprattutto l’Africa, come le “vittime” eterne deimalvagi disegnideiPaesi del Nord. (...) Bisogna avere il coraggio di responsabilizzare - e non vittimizzare - i Paesi poveri: le sciagure dell’Africa hanno come causa principale gli africani stessi. Non possiamo ogni voltabatterci ilpetto e sostituirci a loro» (la citazione èdaArcheofuturismo, imperdibile, così come Il sistema peruccidere ipopoli, entrambi editi da Barbarossa).  
Ma lo facciamo. Lo sradicatodell’élite creativa, ovviamente progressista, si sente vicino al «migrante», e si sente colpevole. Quindiespia i suoipeccati accogliendo. Risultato: la civiltà europea viene erosa da due parti. Prima dagli individui che la compongono. Poi da quelli che arrivano da fuori. In fondo, il creativo nomade nonha temponévogliadi fare figli. E quando li fa, sono peggio di lui: talmente viziati da rifiutare qualunque impiego nonsia adatto alleloro aspettative. Gli immigrati allora non solo vanno accolti, ma «servono». Comeforza lavorosostitutiva, se non come schiavi da far lavorare gratis (a discapito dei lavoratori occidentali), come propose unministro italianopoco tempo fa ecome ribadiva ieri laCaritasnelsuodecalogo sull’immigrazione, dicendo che i «migranti» vanno «ospitati in esperienze di volontariato civico a favore delle comunità d’accoglienza». 


Lo straniero interiore che preme alle frontiere
L’emergenza migranti e la difesa del confine: cosa ci fa davvero pauradi Massimo Recalcati Repubblica 23.6.15
LA DIFESA del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini. L’origine della violenza trova nel confine l’oggetto della sua passione più fondamentale: la distruzione del nemico-rivale muove Caino nel suo sogno narcisistico di essere l’unico, di far coincidere il proprio confine con il confine del mondo. È il delirio di tutti i grandi dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale — naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità.
NEI MOMENTI di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. Per questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da profonde destabilizzazioni dell’ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta. È quello che insegna drammaticamente la psicosi schizofrenica: senza senso di identità la vita si disgrega, non ha più un centro, non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. È questa una spinta sempre presente nella vita psichica che, come Freud ha indicato, manifesta una resistenza strutturale al cambiamento: di fronte al pericolo dell’alterazione dell’identità l’apparato psichico reagisce, infatti, rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile, evacuare, scaricare l’eccitazione ingovernabile.
E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. Per questo Lacan affermava che il compito più difficile che attende il soggetto nel suo processo di umanizzazione è quello di fare “il lutto del padre”. La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permebabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l’inconscio come un “territorio straniero interno”. Dove l’ambiguità di quella espressione (“straniero interno”) dovrebbe essere sufficiente per scalfire l’irrigidimento paranoico-immunologico del confine identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici. Avevano ragione Deleuze e Guattari in
Mille piani ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare. 


Il “sesso matto” di Diego Fusaro. Filosofia, famiglia e capitalismoPaolo Ercolani il Manifesto 23.6.2015, 16:42
Uno dei grandi inse­gna­menti di Freud può essere appli­cato pro­prio all’intellettuale, o in gene­rale alla per­sona che occupa una posi­zione sociale di rilievo. E che discetta sul sesso.
Que­sti, ine­briato e obnu­bi­lato dal pie­di­stallo auto­re­vole e defi­ni­tivo da cui si trova a pon­ti­fi­care, può acca­dere che si iden­ti­fi­chi con una sorta di «Super-io» isti­tu­zio­nale, finendo con lo sca­gliarsi con­tro quella libertà ses­suale che egli stesso, magari, pra­tica con godi­mento e rei­te­ra­zione com­pul­siva (per­fet­ta­mente legit­tima: per me, per lui/lei, ma non per lui/lei quando discetta da un pul­pito), salvo respin­gerla e male­dirla su un piano esclu­si­va­mente intel­let­tuale e speculativo.

AUTOFOBIA SESSUALE
Insomma, una magni­fica occa­sione per giu­di­care se stessi (una parte che di sé si rifiuta? O il godi­mento per­verso di giu­di­carla salvo poi attuarla pur­gato almeno dalla colpa dell’ignavia?), giu­di­care il male­fi­cio ses­suale e per­verso a cui è espo­sto l’essere umano, potendo in que­sto modo con­si­de­rarsi por­ta­tori di un grande mes­sag­gio di verità e salvezza.
Che all’atto pra­tico, pen­san­doci bene, somi­glia molto da vicino a quel feno­meno del tutto digi­tale per cui alcune per­sone vanno a letto la sera con­vinte che l’anima di Che Gue­vara si sia impos­ses­sata di loro, solo per­ché hanno con­di­viso un link che odora di un qual­che tipo di rivo­lu­zione virtuale.
Ma soprat­tutto, quella dell’intellettuale che ha biso­gno di fru­gare sotto l’abbigliamento intimo per rin­trac­ciare un mes­sag­gio veri­ta­tivo, si rivela in realtà come un’ottima, e pri­vi­le­giata, con­di­zione da cui giu­di­care gli «altri» (meglio se con gusti e ten­denze ses­suali dif­formi da ciò che è rite­nuto «normale»).
Quindi espiare la pro­pria «colpa» di essere umano for­nito di pul­sioni, desi­deri e voglie, gra­zie al fatto che, almeno, pur attuando dei com­por­ta­menti effet­tivi magari tutt’altro che rispon­denti alla morale che intende dif­fon­dere, però con­tri­bui­sce sul piano cul­tu­rale e isti­tu­zio­nale a pro­nun­ciare dogmi che suf­fra­gano quella stessa morale.

DOPPIA MORALE E FALSI MAESTRI
In altri tempi si sarebbe chia­mata «dop­pia morale», ossia l’elaborazione e dif­fu­sione di dogmi che devono valere per il «popolo» ma non per i pri­vi­le­giati, per il volgo ma non per le classi alte, per i rozzi e non per gli intel­let­tuali. Per gli altri ma non per me.
Sor­prende, dovrebbe sor­pren­dere, ma in realtà fini­sce col non sor­pren­dere per nulla, in que­sta epoca in cui è il main­stream media­tico a sta­bi­lire chi può pon­ti­fi­care dall’«alto» delle luci della ribalta (a pre­scin­dere dalla coe­renza e serietà delle affer­ma­zioni), che sia uno stu­dioso che si pro­clama allievo di Hegel, Marx e Gram­sci a uti­liz­zare il nome di que­sti (e poco più) per dif­fon­dere una dop­pia morale tipica dei peg­giori regimi clerico-reazionari o plutocratico-fascisti che la vicenda umana ha contemplato.
Certo, Diego Fusaro (sto par­lando di lui, ma sem­bra che pro­duca epi­goni), sta­volta dal suo Blog per «il Fatto Quo­ti­diano» (http://​www​.ilfat​to​quo​ti​diano​.it/​2​0​1​5​/​0​6​/​2​1​/​d​i​-​f​a ​m​i​l​y​-​d​a​y​-​e​-​d​i​s​t​r​u​z​i​o​n​e​-​d​e​l​l​a​-​f​a​m​i​g​l​i ​a​/​1​7​9​9​8​98/), si salva sem­pre aggiun­gendo quell’aggettivo («indi­pen­dente») al suo pro­cla­marsi allievo dei sud­detti maestri.
La qual cosa, a conti fatti, gli con­sente di usare la loro ter­mi­no­lo­gia e le loro frasi come se fos­sero degli afo­ri­smi rin­trac­ciati nei baci Peru­gina, per poi pie­garli vio­len­te­mente alla sua pro­pria convinzione.
Certo, Hegel par­lava della «fami­glia» come primo momento dell’«eticità» (cioè della vita pub­blica). Ma anche uno stu­dente di filo­so­fia al primo anno sa che i «primi momenti» in Hegel sono i meno rile­vanti, quelli desti­nati a essere supe­rati da momenti più alti e com­pleti. Nel caso di Hegel la fami­glia deve essere supe­rata da una «società civile» in cui si eser­citi la piena libertà indi­vi­duale, non­ché da uno Stato che non si lascia rego­lare da dogmi ideo­lo­gici e men che mai reli­giosi nell’esecuzione del pro­prio governo e nella pro­mul­ga­zione delle leggi.
Certo, Marx par­lava dell’emancipazione umana da un regime inna­tu­rale e sfrut­ta­tore come quello capi­ta­li­sta. Ma è lo stesso Marx che con­si­de­rava la «fami­glia» come un ele­mento fon­da­tivo di quello stesso sistema capi­ta­li­stico, tanto da defi­nirla un micro­co­smo in cui si repli­ca­vano gli stessi rap­porti di forza e di sfrut­ta­mento (a danno della donna) tipici del macro­co­smo della società capitalista. 
Insomma, va bene l’indipendenza dai mae­stri, ma non è che se io tiro in ballo la «soprav­vi­venza dei più adatti» per dire che quello che ascol­tiamo oggi in tele­vi­sione (e ahi­noi leg­giamo in tanti libri e blog scia­gu­rati) è ine­vi­ta­bil­mente il meglio che l’evoluzione media­tica e cul­tu­rale ha pro­dotto, ciò è per­fet­ta­mente vero e posso farlo citando a suf­fra­gio della mia tesi biz­zarra il grande mae­stro Dar­win (salvo pre­ci­sare che però ne sono un allievo «indipendente»)!

IL CAPITALISMO CONTRO LA FAMIGLIA?
Invece Fusaro sem­bra fare pro­prio così.
Sup­por­tato da un main­stream che ormai lo rico­no­sce e legit­tima come il filo­sofo chia­mato a discet­tare su ogni campo dello sci­bile umano (quando l’ignoranza dei gior­na­li­sti si somma al mec­ca­ni­smo della ribalta media­tica il risul­tato è garan­tito), ce lo ritro­viamo a rei­te­rare abili e sem­pre uguali mes­sag­gini da social net­work sulla fami­glia «tra­di­zio­nale», sulla teo­ria gen­der che vuole abo­lire la distin­zione fra uomini e donne, sul «capi­ta­li­smo asso­luto» (sic!) che ha biso­gno di indi­vi­dui ato­miz­zati e per que­sto decide di distrug­gere l’istituzione famiglia.
Il tutto, con scarso senso del ridi­colo (prima ancora che dell’anti-scientifico), in nome dei suc­ci­tati Hegel, Marx e Gramsci.
A voler essere mali­ziosi, e cono­scendo il fun­zio­na­mento del main­stream media­tico, si potrebbe dire che l’abile comu­ni­ca­tore Fusaro deve sin­te­tiz­zare (oddio, Hegel?!) il fatto di aver avuto suc­cesso con un libro su Marx con il dato di fatto di lavo­rare al San Raf­faele sup­por­tato dalla cricca clerico-reazionaria.
Ma è suf­fi­ciente scen­dere (o meglio salire) su un piano storico-filosofico per cogliere tutta l’assurdità della teo­ria di Fusaro. Il capi­ta­li­smo con­tro la famiglia?
Bastano poche nozioni di sto­ria e filo­so­fia per sapere che i grandi clas­sici del cri­stia­ne­simo si sono sem­pre oppo­sti all’istituzione fami­glia. La donna doveva svol­gere il ruolo di «instru­men­tum pro­crea­tio­nis» e basta (meglio ancora se si abban­do­nava all’amore di Dio e alla castità), men­tre l’uomo, esple­tata que­sta fun­zione fon­da­men­tale per il pro­sie­guo della spe­cie umana, per il resto doveva limi­tarsi a fre­quen­tare uomini e solo con que­sti occu­parsi delle vicende pubbliche.
Natu­ral­mente, da qui la «dop­pia morale», ari­sto­cra­zia e alto clero erano esen­tati da que­ste dispo­si­zioni, poten­dosi abban­do­nare a pia­ceri ses­suali di ogni tipo e per­lo­più sfre­nati. Inclusi omo­ses­sua­lità e pedofilia.

LA FAMIGLIA PRODOTTO DEL CAPITALISMO
Non è neces­sa­rio aver letto Fou­cault (per esem­pio la «Sto­ria della fol­lia») per sapere che l’istituzione fami­glia, inco­rag­giata a livello gover­na­tivo e final­mente teo­riz­zata e pro­mossa anche dall’intellighenzia eccle­sia­stica, è venuta fuori con il sor­gere del capi­ta­li­smo moderno, che aveva biso­gno di indi­vi­dui moral­mente e fisi­ca­mente inqua­drati per poter dare vita al grande sistema della pro­du­zione indu­striale di stampo seriale.
Que­sto Marx lo sapeva molto bene (e con lui Hegel e Gram­sci), ed è del tutto stru­men­tale oltre che ridi­colo tirarli in ballo per posi­zioni degne di un de Mai­stre o de Bonald qualunque.
Ma soprat­tutto, si rivela un’operazione cul­tu­ral­mente e uma­na­mente discu­ti­bile, per non dire misera, quella di un filo­sofo che intende aggrap­parsi ai grandi clas­sici del pen­siero (per giunta quelli sba­gliati), con lo scopo di appog­giare posi­zioni che vogliono limi­tare la libertà ses­suale e il rico­no­sci­mento di diritti nei con­fronti di indi­vi­dui che non si con­for­mano alla morale dominante.
Fusaro si dice dis­si­dente, con­tra­rio al poli­ti­ca­mente cor­retto, fusti­ga­tore di ideo­lo­gie domi­nanti. Fatto sta che uti­lizza ampia­mente (e sapien­te­mente) pro­prio l’apparato media­tico messo a dispo­si­zione dal sistema capi­ta­li­sta per dif­fon­dere mes­saggi rea­zio­nari e con­trari alla piena libertà indi­vi­duale, per giunta volen­dosi appog­giare a pen­sa­tori che nel loro tempo si rive­la­rono effet­ti­va­mente rivoluzionari.

L’INTELLETTUALE SEDICENTE RIVOLUZIONARIO
È mai pos­si­bile che un pen­sa­tore cri­tico, un sedi­cente fusti­ga­tore del capi­ta­li­smo e dell’ideologia domi­nante non si accorga di essere il pro­dotto per­fetto e lo stru­mento utile di un mec­ca­ni­smo, appunto quello capi­ta­li­stico, che ha sem­pre saputo pro­durre da solo i suoi falsi nemici pur­ché fos­sero disin­ne­scati e in buona sostanza fun­zio­nali a ben altre cause?
Un caso di igna­via o di sapiente uso pro domo sua del cli­ché da intel­let­tuale rivoluzionario?
Quale sedi­cente intel­let­tuale rivo­lu­zio­na­rio, sacer­dote dell’«emancipazione umana» può appog­giare posi­zioni cul­tu­rali e poli­ti­che che si pro­pon­gono la limi­ta­zione della libertà di alcuni indi­vi­dui di vivere libe­ra­mente la pro­pria ses­sua­lità e vedersi rico­no­sciuti i diritti civili che spet­tano a ogni cit­ta­dino, a pre­scin­dere dalle pro­prie idee e dai pro­pri gusti?
Gay, lesbi­che, tan­sgen­der, per­fino i sin­gle, sono quindi tutti dei virus sociali che com­plot­tano, in stretta alleanza col capi­ta­li­smo, per distrug­gere la fami­glia e le isti­tu­zioni «tra­di­zio­nali», o piut­to­sto dei cit­ta­dini che pagano le tasse e vogliono vedersi rico­no­sciuti deter­mi­nati diritti poli­tici e sociali? I cit­ta­dini, ci inse­gnava quell’Hegel citato a spro­po­sito da Fusaro, non pos­sono essere rico­no­sciuti, giu­di­cati e quindi discri­mi­nati rispetto al loro essere pec­ca­tori agli occhi di una morale specifica.

HUMANI NIHIL A ME ALIENUM PUTO
Nes­suno come il filo­sofo dovrebbe sapere che siamo uomini, e nes­suno di noi può assu­mersi il diritto sovrano di repu­tare «alieno» al genere umano qua­lun­que cosa lo con­trad­di­stin­gua. Omo­ses­sua­lità e varietà dei gusti ses­suali sono feno­meni anti­chi quanto il mondo, spesso attuati pro­prio da coloro che si ergono a pala­dini di una morale «giu­sta», «natu­rale» e «tradizionale».
Quale respon­sa­bi­lità dell’intellettuale emerge se gli intel­let­tuali stessi dimen­ti­cano tutto que­sto per farsi sacer­doti di dogmi che negano una parte così impor­tante della natura stessa?
Ma soprat­tutto, rite­nendo legit­timo che qual­cuno possa spo­sare le posi­zioni di Fusaro, per­ché doversi aggrap­pare a tutti i costi ad autori che con il pen­siero tra­di­zio­na­li­sta e rea­zio­na­rio nulla c’entrano?
Abbia il corag­gio Fusaro, tanto più che il main­stream ormai lo ha «eletto» (e quindi non corre più peri­coli di per­dere posi­zioni di ren­dita), di spo­gliarsi di abiti e rife­ri­menti che nulla c’entrano con le sue posi­zioni e si richiami a pen­sa­tori a que­ste più consoni.
O forse in que­sto modo, in un pano­rama cul­tu­rale e media­tico sem­pre più mise­ra­mente asser­vito alle logi­che nume­ri­che e grette del capi­ta­li­smo spet­ta­co­lare, non farebbe più noti­zia ridu­cen­dosi al rango di un serio stu­dioso qualunque?
Se così fosse, Fusaro sarebbe il primo a bene­fi­ciare di quella logica del Mer­cato da lui appa­ren­te­mente cri­ti­cato con tanta e ste­rile foga…


Rock, provette e immigrati: il regresso secondo Ceronetti
Nel suo ultimo libro dà sfogo a tutto il pessimismo sulle sorti del mondo e del nostro Paese Definisce gli stranieri "indicibilmente estranei" e si allarma: "Getteranno la nostra cultura"

2 commenti:

Semenzara ha detto...

Ercolani è riuscito a stare dalla parte del torto in una critica a Fusaro. Non era affatto semplice.

materialismostorico ha detto...

ahahahahahahaha :)