martedì 23 giugno 2015
Bisogna saper perdere: una storia della formalizzazione del conflitto
Risvolto
I vantaggi della resa
In epoca preistorica gli sconfitti venivano sterminati. Nell’antichità la guerra era una condizione normale Un libro di Holger Afflerbach spiega perché oggi la violenza è diminuita e sono aumentati i periodi di pace Se si accetta che il vinto ceda le armi I conflitti diventano meno sanguinosi
di Paolo Mieli Corriere 22.6.15
L’ importante in guerra è sapersi arrendere. E saperlo fare nei tempi e
nei modi giusti. Un uso sapiente della capitolazione può portare persino
ad ottenere vantaggi più consistenti di quelli che si sarebbero
raggiunti con una vittoria. Ci sono voluti oltre tremila anni per
comprendere questa fondamentale lezione. Nella preistoria si viveva in
una situazione di «guerra totale», di fatto gli scontri non si
concludevano mai ed erano una costante nella vita delle popolazioni.
Questo produceva una quantità di vittime enorme: secondo Lawrence Keeley
— che ha studiato i conflitti prima della civilizzazione — in quel
periodo storico le guerre avrebbero ucciso una quantità di individui
che, se rapportata al XX secolo, sarebbe stata di due miliardi. È la
capacità di arrendersi che ha cambiato, in meglio, le cose; se abbiamo
conosciuto pause di pace sempre più durature lo dobbiamo
all’accettazione, da parte dei combattenti, del principio di resa.
È questa la suggestiva tesi di Holger Afflerbach in L’arte della resa.
Storia della capitolazione di imminente pubblicazione per il Mulino. C’è
una differenza, sostiene l’autore, tra la preistoria, fatta di massacri
a scopo di saccheggio («dove l’avversario veniva colto alle spalle,
ucciso e poi razziato»), e il mondo antico, in cui le guerre restavano
sì brutali e continuavano ad attenersi ai principi del «vae victis» e
del «vincere o morire», ma avevano un inizio e una fine (anche se dopo
questa fine ne scoppiava quasi subito un’altra). Come mai? Di fatto, la
maniera in cui si concludeva il conflitto era strettamente connessa al
tipo di organizzazione sociale delle parti coinvolte: le società
preistoriche, che non erano in grado di servirsi dei prigionieri di
guerra, evitavano di catturarne e, dunque, si uccidevano quanti più
nemici possibile, anche per evitare di ritrovarseli sul campo nelle
guerre successive.
Tutto cambiò con l’invenzione della schiavitù. Paradossalmente sarà la
schiavitù a introdurre le prime forme di civiltà. Nel Vecchio Testamento
(Libro di Mosè) è scritto: «Quando ti avvicinerai ad una città per
attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace, e ti apre le
sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti
servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora
l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne
colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il
bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai
come tua preda». Bene: la prospettiva di conquistare questa preda
indurrà i vincitori a por fine al conflitto, ad accettare che i nemici
si dichiarassero battuti e a non infierire sui vinti.
Per quel che riguarda gli antichi Egizi, la studiosa Jacqueline De
Romilly ha notato come la guerra non fosse «soltanto una prassi usuale
ma una condizione normale, laddove la pace e la tregua non erano invece
altro che una momentanea sospensione dei combattimenti». È significativo
che gli antichi Egizi non disponessero di un vocabolo specifico per
esprimere la «pace»; quel termine «venne introdotto solo
successivamente, mutuato dai semiti, quando si rese necessario
pianificare le relazioni con gli altri popoli». E qual era il destino
per i vinti? La tavoletta di Narmer (circa 3000 a.C.) ritrae il primo
faraone di fronte a una sfilza di corpi nemici decapitati. Gli
egittologi ritengono che si trattasse di uno strumento della «propaganda
faraonica». Ma, osserva Afflerbach, «anche fosse così, la figurazione
mostra in maniera evidente ciò che la società si attendeva dal proprio
capo; il vinto, dal canto suo, si aspettava di essere trucidato, o
quantomeno fatto schiavo». Presto il rapporto tra uomini uccisi e
prigionieri fatti schiavi fu di uno a quattro. Al termine della
battaglia di Megiddo (609 a.C.), che oppose le armate egizie del faraone
Thutmose III a quelle del regno di Giuda guidate dal re Giosia (capo di
una coalizione di 330 principi cananei) vennero catturati 340
prigionieri e le mani tagliate (per contare i morti) furono 83. Gli
scontri, scrive Afflerbach, «terminavano prima che tutti gli sconfitti
venissero uccisi, poiché, per un verso, uno degli obiettivi del
vincitore era quello di procurarsi degli schiavi e, per l’altro, il
vinto sperava oltre ogni cosa di rimanere in vita, pur sapendo che il
futuro che gli si prospettava non sarebbe stato dei più rosei».
A quei tempi la sorte dei perdenti era affidata al caso. Al termine di
uno scontro con gli Ateniesi guidati da Ificrate (388 a.C.), lo spartano
Anassibio, vedendosi sopraffatto, così si rivolse ai suoi: «Uomini, il
mio onore chiede che io muoia nella mia posizione, ma voi dovete
mettervi al sicuro prima che il nemico vi raggiunga». In altre parole
offriva la propria vita per dare ai suoi soldati il tempo di mettersi in
salvo. Il modello del capo sconfitto che decide di suicidarsi restò
anche nella Roma antica. Si tolsero la vita Bruto e Cassio al termine
della battaglia di Filippi e Varo sconfitto a Teutoburgo. Ma i più
presero a fuggire. Come il console Terenzio Varrone (dopo la
spettacolare sconfitta di Canne) il quale, come scrisse Theodor Mommsen,
«ebbe l’animo di sopravvivere». Crasso — che avrebbe voluto ritirarsi
dopo essere stato battuto dai Parti a Carre — fu obbligato dai soldati a
trattare con i vincitori (che, però, uccisero Crasso e massacrarono i
suoi). L’unica forma accettata di capitolazione era la deditio , una
sorta di resa incondizionata. Talvolta sconfessata da Roma, come nel
caso del generale Caio Ostilio Mancino che, accerchiato nel 137 a.C. dai
Numantini, siglò un accordo con i nemici (accordo che, però, il Senato
romano dichiarò non valido)
Ma, tornando alla guerra del Peloponneso, capitava talvolta anche nel
mondo antico che qualcuno si arrendesse, come gli spartani dopo la
sconfitta dell’isola di Sfacteria (425 a.C.). Commentò Tucidide: «Nulla
di ciò che accadde in quella guerra sorprese i Greci quanto quella
decisione» (sorpresa che, in ogni caso, li indusse ad essere assai miti
con i vinti). In un’altra occasione, quella dell’assedio di Caulonia da
parte di Dionisio, il tiranno di Siracusa decise addirittura di
rimettere in libertà diecimila prigionieri. Cominciò in quei secoli ad
accadere qualcosa di strano. «Il vinto che dichiarava la resa e che
pertanto non si conformava all’ideale dell’eroe che non teme la morte»,
scrive Afflerbach, non venne più «stigmatizzato ed emarginato dalla
società per il resto della sua vita». Le fonti offrono innumerevoli
esempi di questo venir meno della stigmatizzazione e «curiosamente esse
si riferiscono proprio a quelle società, ivi comprese Sparta e Roma, in
cui il codice d’onore dei soldati veniva recepito nella forma più
estrema».
Ma, in buona sostanza, nella realtà greca e in quella romana per i
vinti, come esito del conflitto, continuò a non esistere altro destino
che la morte o la schiavitù. Fu nel Medioevo che iniziò a «delinearsi
una nuova regolamentazione della vittoria e della sconfitta, ancorché
limitata al rango superiore dei guerrieri nobili». Una nuova
regolamentazione «che garantiva al vincitore un beneficio economico e al
vinto di uscirne sano e salvo». Stiamo parlando delle regole che
valevano per i cavalieri: per loro la capitolazione e persino la fuga
divennero opzioni accettabili. Le battaglie cavalleresche a questo punto
comportavano un numero sempre più esiguo di vittime. Alla battaglia di
Brémule (1119) presero parte 900 cavalieri e ne morirono soltanto tre.
Nella battaglia di Bouvines i francesi (vittoriosi) persero solo due dei
loro 3.000 cavalieri e i tedeschi, che ne avevano impegnati 1.500, ne
lasciarono sul campo tra i 70 e i 100. Nella battaglia di Lincoln (1217)
furono appena tre i cavalieri uccisi e i prigionieri furono 400. Ciò
spiega perché lo storico Clifford Rogers ha affermato che le guerre
delle élite feudali dei secoli XII e XIII funzionavano «più come uno
sport che come una faccenda seria».
La tendenza dei cavalieri a fuggire di fronte al pericolo di morte
divenne nota al punto che, nel 1351, durante la guerra dei Cent’anni, il
re Giovanni II di Francia fondò l’Ordre de l’étoile, i cui adepti
dovevano giurare che in battaglia non sarebbero indietreggiati mai più
di 4 arpenti (circa 234 metri). È nel Medioevo che si introietta il
principio detto della «mano invisibile della guerra». Si comprende cioè
che «gli eccessi e il mancato rispetto delle regole non portano nessun
vantaggio alle parti contendenti» e che l’introduzione di norme,
limitazioni e regolamentazioni produrrà una serie incalcolabile di
miglioramenti. Ma tutto ciò non avviene da un momento all’altro.
Nella Chanson de Roland (fine dell’XI secolo) ancora si esalta il
martirio del paladino Rolando a Roncisvalle. Solo a partire dal XII
secolo, scrive Afflerbach, «prenderà piede una concezione assai meno
rigida della capitolazione». L’invasione della Gran Bretagna da parte
dei Normanni (1066) è considerata uno dei momenti che hanno segnato
l’inizio di una nuova era, quella dei cavalieri, «che avrebbe introdotto
una nuova etica nella pratica della guerra». Il terzo Concilio
lateranense (1179) proibisce di ridurre in cristiani in schiavitù e
segna un’altra svolta.
Fu in quel contesto che «presero a delinearsi linee di condotta che di
fatto arginavano la condizione di completa anarchia che regnava in
battaglia, dove i più forti godevano sostanzialmente di una libertà
illimitata». Tra queste nuove linee di condotta vanno segnalate «la
pratica di risparmiare i non combattenti», di riservare ai prigionieri
un trattamento «conforme ai principi cavallereschi» e di sospendere la
battaglia durante le festività religiose. Contemporaneamente però,
all’epoca delle Crociate, parve che si tornasse indietro di qualche
secolo. Al momento dell’occupazione di Antiochia (1098) i crociati
uccisero 10 mila abitanti della città; alla conquista di Gerusalemme
(1099) ne fecero fuori decine di migliaia. L’esercito di Federico
Barbarossa, durante l’avanzata sui Balcani, impiccò i partigiani bulgari
«senza nessun riguardo». Riccardo Cuor di Leone, nello scompiglio
seguito alla sconfitta di Hattin, fece uccidere 2.000 prigionieri;
Saladino rispose mandando a morte tutti i cristiani che aveva catturato.
A segnare una svolta fu la riconquista di Gerusalemme da parte di
Saladino (1187), che negoziò la capitolazione dei cristiani, rilasciò i
prigionieri dietro il pagamento di un riscatto e liberò donne e bambini
senza alcun compenso.
Da allora si cominciò a distinguere sempre più nettamente tra i
conflitti combattuti con le usanze dei cavalieri e le «guerre brute»
come quelle sostenute dalle «guardie svizzere», famigerate «per le
qualità militari e per la loro inesorabile spietatezza». Le truppe
mercenarie continuarono per secoli a guadagnarsi una fama sinistra per i
loro comportamenti selvaggi. Il Sacco di Roma (1527), quelli di Anversa
(1576) e di Maastricht (1579) produssero orrori che restarono per
secoli impressi nella memoria delle città, che pure si sarebbero
volentieri arrese. Così come, al tempo della guerra dei Trent’anni,
capitò a Magdeburgo (1631). All’indomani della cui devastazione, il
generale imperiale Gottfried Heinrich Pappenheim disse: «Ritengo che le
vittime siano state più di 20 mila. È certo che dalla distruzione di
Gerusalemme non si sia vista un’operazione più raccapricciante e una più
atroce punizione divina. Tutti i nostri soldati si sono arricchiti. Che
Dio sia con noi». Ma la sensazione reale era che Dio non fosse più
dalla parte di quei vincitori che non sapevano accettare la resa dei
vinti. E fu appunto con la guerra dei Trent’anni, nella prima metà del
Seicento, che le cose cambiarono e l’«arte della resa» cominciò a
introdursi nella storia.
Nell’età moderna le regole, che fino ad allora avevano riguardato
soltanto i cavalieri, vennero estese a tutti gli eserciti. La
Rivoluzione francese «codificò i progressi compiuti e introdusse
importanti misure tese a preservare il vinto di fronte alle azioni
arbitrarie del vincitore». Durante le due guerre mondiali «queste norme,
perfezionate dal punto di vista giuridico, si combinarono malamente con
un poderoso spirito di sacrificio che condusse, nel corso della Seconda
e nei diversi Paesi coinvolti, ad atteggiamenti assai divergenti nei
confronti della sconfitta». E questo potrebbe indurci a credere che
Afflerbach abbia torto quando sostiene che, in virtù di un sapiente uso
dell’«arte della resa», l’umanità ha conosciuto grandi progressi. Se la
Seconda guerra mondiale ha registrato il peggiore massacro di tutti i
tempi, potremmo forse sostenere che le cose sono andate, addirittura,
peggiorando.
Invece i già citati studi di Keeley e quelli ancora più accurati di
Steven Pinker hanno dimostrato come — alla luce delle proporzioni tra il
numero delle vittime e la dimensione delle popolazioni coinvolte — si
possa affermare che anche il XX secolo ha registrato un «miglioramento»,
«ancorché tortuoso e gravato da pesanti ricadute», delle condizioni
belliche. Un «miglioramento che si manifesta con chiarezza proprio
nell’interazione tra vincitori e vinti». Ed è per questo, non soltanto a
causa degli orrori del conflitto, che dopo il 1945 si assisterà ad una
progressiva intensificazione dei vincoli a cui è soggetto il vincitore —
vincoli talvolta autoimposti — dovuti, non da ultimo, «al controllo
sociale e a un generale cambiamento di mentalità». E l’«arte della resa»
sarà valutata come più importante di quella del combattimento.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento