Se lo meritano, Francesco Lacan [SGA].
Il padre dell’Ue, razzista pro-meticci
LA DIFESA del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini. L’origine della violenza trova nel confine l’oggetto della sua passione più fondamentale: la distruzione del nemico-rivale muove Caino nel suo sogno narcisistico di essere l’unico, di far coincidere il proprio confine con il confine del mondo. È il delirio di tutti i grandi dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale — naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità.
NEI MOMENTI di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. Per questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da profonde destabilizzazioni dell’ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta. È quello che insegna drammaticamente la psicosi schizofrenica: senza senso di identità la vita si disgrega, non ha più un centro, non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. È questa una spinta sempre presente nella vita psichica che, come Freud ha indicato, manifesta una resistenza strutturale al cambiamento: di fronte al pericolo dell’alterazione dell’identità l’apparato psichico reagisce, infatti, rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile, evacuare, scaricare l’eccitazione ingovernabile.
E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. Per questo Lacan affermava che il compito più difficile che attende il soggetto nel suo processo di umanizzazione è quello di fare “il lutto del padre”. La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permebabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l’inconscio come un “territorio straniero interno”. Dove l’ambiguità di quella espressione (“straniero interno”) dovrebbe essere sufficiente per scalfire l’irrigidimento paranoico-immunologico del confine identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici. Avevano ragione Deleuze e Guattari in
Mille piani ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.
Il “sesso matto” di Diego Fusaro. Filosofia, famiglia e capitalismoPaolo Ercolani il Manifesto 23.6.2015, 16:42
Uno dei grandi insegnamenti di Freud può essere applicato proprio all’intellettuale, o in generale alla persona che occupa una posizione sociale di rilievo. E che discetta sul sesso.
Questi, inebriato e obnubilato dal piedistallo autorevole e definitivo da cui si trova a pontificare, può accadere che si identifichi con una sorta di «Super-io» istituzionale, finendo con lo scagliarsi contro quella libertà sessuale che egli stesso, magari, pratica con godimento e reiterazione compulsiva (perfettamente legittima: per me, per lui/lei, ma non per lui/lei quando discetta da un pulpito), salvo respingerla e maledirla su un piano esclusivamente intellettuale e speculativo.
AUTOFOBIA SESSUALE
Insomma, una magnifica occasione per giudicare se stessi (una parte che di sé si rifiuta? O il godimento perverso di giudicarla salvo poi attuarla purgato almeno dalla colpa dell’ignavia?), giudicare il maleficio sessuale e perverso a cui è esposto l’essere umano, potendo in questo modo considerarsi portatori di un grande messaggio di verità e salvezza.
Che all’atto pratico, pensandoci bene, somiglia molto da vicino a quel fenomeno del tutto digitale per cui alcune persone vanno a letto la sera convinte che l’anima di Che Guevara si sia impossessata di loro, solo perché hanno condiviso un link che odora di un qualche tipo di rivoluzione virtuale.
Ma soprattutto, quella dell’intellettuale che ha bisogno di frugare sotto l’abbigliamento intimo per rintracciare un messaggio veritativo, si rivela in realtà come un’ottima, e privilegiata, condizione da cui giudicare gli «altri» (meglio se con gusti e tendenze sessuali difformi da ciò che è ritenuto «normale»).
Quindi espiare la propria «colpa» di essere umano fornito di pulsioni, desideri e voglie, grazie al fatto che, almeno, pur attuando dei comportamenti effettivi magari tutt’altro che rispondenti alla morale che intende diffondere, però contribuisce sul piano culturale e istituzionale a pronunciare dogmi che suffragano quella stessa morale.
DOPPIA MORALE E FALSI MAESTRI
In altri tempi si sarebbe chiamata «doppia morale», ossia l’elaborazione e diffusione di dogmi che devono valere per il «popolo» ma non per i privilegiati, per il volgo ma non per le classi alte, per i rozzi e non per gli intellettuali. Per gli altri ma non per me.
Sorprende, dovrebbe sorprendere, ma in realtà finisce col non sorprendere per nulla, in questa epoca in cui è il mainstream mediatico a stabilire chi può pontificare dall’«alto» delle luci della ribalta (a prescindere dalla coerenza e serietà delle affermazioni), che sia uno studioso che si proclama allievo di Hegel, Marx e Gramsci a utilizzare il nome di questi (e poco più) per diffondere una doppia morale tipica dei peggiori regimi clerico-reazionari o plutocratico-fascisti che la vicenda umana ha contemplato.
Certo, Diego Fusaro (sto parlando di lui, ma sembra che produca epigoni), stavolta dal suo Blog per «il Fatto Quotidiano» (http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/21/di-fa mily-day-e-distruzione-della-famigli a/1799898/), si salva sempre aggiungendo quell’aggettivo («indipendente») al suo proclamarsi allievo dei suddetti maestri.
La qual cosa, a conti fatti, gli consente di usare la loro terminologia e le loro frasi come se fossero degli aforismi rintracciati nei baci Perugina, per poi piegarli violentemente alla sua propria convinzione.
Certo, Hegel parlava della «famiglia» come primo momento dell’«eticità» (cioè della vita pubblica). Ma anche uno studente di filosofia al primo anno sa che i «primi momenti» in Hegel sono i meno rilevanti, quelli destinati a essere superati da momenti più alti e completi. Nel caso di Hegel la famiglia deve essere superata da una «società civile» in cui si eserciti la piena libertà individuale, nonché da uno Stato che non si lascia regolare da dogmi ideologici e men che mai religiosi nell’esecuzione del proprio governo e nella promulgazione delle leggi. Certo, Marx parlava dell’emancipazione umana da un regime innaturale e sfruttatore come quello capitalista. Ma è lo stesso Marx che considerava la «famiglia» come un elemento fondativo di quello stesso sistema capitalistico, tanto da definirla un microcosmo in cui si replicavano gli stessi rapporti di forza e di sfruttamento (a danno della donna) tipici del macrocosmo della società capitalista.
Insomma, va bene l’indipendenza dai maestri, ma non è che se io tiro in ballo la «sopravvivenza dei più adatti» per dire che quello che ascoltiamo oggi in televisione (e ahinoi leggiamo in tanti libri e blog sciagurati) è inevitabilmente il meglio che l’evoluzione mediatica e culturale ha prodotto, ciò è perfettamente vero e posso farlo citando a suffragio della mia tesi bizzarra il grande maestro Darwin (salvo precisare che però ne sono un allievo «indipendente»)!
IL CAPITALISMO CONTRO LA FAMIGLIA?
Invece Fusaro sembra fare proprio così.
Supportato da un mainstream che ormai lo riconosce e legittima come il filosofo chiamato a discettare su ogni campo dello scibile umano (quando l’ignoranza dei giornalisti si somma al meccanismo della ribalta mediatica il risultato è garantito), ce lo ritroviamo a reiterare abili e sempre uguali messaggini da social network sulla famiglia «tradizionale», sulla teoria gender che vuole abolire la distinzione fra uomini e donne, sul «capitalismo assoluto» (sic!) che ha bisogno di individui atomizzati e per questo decide di distruggere l’istituzione famiglia.
Il tutto, con scarso senso del ridicolo (prima ancora che dell’anti-scientifico), in nome dei succitati Hegel, Marx e Gramsci.
A voler essere maliziosi, e conoscendo il funzionamento del mainstream mediatico, si potrebbe dire che l’abile comunicatore Fusaro deve sintetizzare (oddio, Hegel?!) il fatto di aver avuto successo con un libro su Marx con il dato di fatto di lavorare al San Raffaele supportato dalla cricca clerico-reazionaria.
Ma è sufficiente scendere (o meglio salire) su un piano storico-filosofico per cogliere tutta l’assurdità della teoria di Fusaro. Il capitalismo contro la famiglia?
Bastano poche nozioni di storia e filosofia per sapere che i grandi classici del cristianesimo si sono sempre opposti all’istituzione famiglia. La donna doveva svolgere il ruolo di «instrumentum procreationis» e basta (meglio ancora se si abbandonava all’amore di Dio e alla castità), mentre l’uomo, espletata questa funzione fondamentale per il prosieguo della specie umana, per il resto doveva limitarsi a frequentare uomini e solo con questi occuparsi delle vicende pubbliche.
Naturalmente, da qui la «doppia morale», aristocrazia e alto clero erano esentati da queste disposizioni, potendosi abbandonare a piaceri sessuali di ogni tipo e perlopiù sfrenati. Inclusi omosessualità e pedofilia.
LA FAMIGLIA PRODOTTO DEL CAPITALISMO
Non è necessario aver letto Foucault (per esempio la «Storia della follia») per sapere che l’istituzione famiglia, incoraggiata a livello governativo e finalmente teorizzata e promossa anche dall’intellighenzia ecclesiastica, è venuta fuori con il sorgere del capitalismo moderno, che aveva bisogno di individui moralmente e fisicamente inquadrati per poter dare vita al grande sistema della produzione industriale di stampo seriale.
Questo Marx lo sapeva molto bene (e con lui Hegel e Gramsci), ed è del tutto strumentale oltre che ridicolo tirarli in ballo per posizioni degne di un de Maistre o de Bonald qualunque.
Ma soprattutto, si rivela un’operazione culturalmente e umanamente discutibile, per non dire misera, quella di un filosofo che intende aggrapparsi ai grandi classici del pensiero (per giunta quelli sbagliati), con lo scopo di appoggiare posizioni che vogliono limitare la libertà sessuale e il riconoscimento di diritti nei confronti di individui che non si conformano alla morale dominante.
Fusaro si dice dissidente, contrario al politicamente corretto, fustigatore di ideologie dominanti. Fatto sta che utilizza ampiamente (e sapientemente) proprio l’apparato mediatico messo a disposizione dal sistema capitalista per diffondere messaggi reazionari e contrari alla piena libertà individuale, per giunta volendosi appoggiare a pensatori che nel loro tempo si rivelarono effettivamente rivoluzionari.
L’INTELLETTUALE SEDICENTE RIVOLUZIONARIO
È mai possibile che un pensatore critico, un sedicente fustigatore del capitalismo e dell’ideologia dominante non si accorga di essere il prodotto perfetto e lo strumento utile di un meccanismo, appunto quello capitalistico, che ha sempre saputo produrre da solo i suoi falsi nemici purché fossero disinnescati e in buona sostanza funzionali a ben altre cause?
Un caso di ignavia o di sapiente uso pro domo sua del cliché da intellettuale rivoluzionario?
Quale sedicente intellettuale rivoluzionario, sacerdote dell’«emancipazione umana» può appoggiare posizioni culturali e politiche che si propongono la limitazione della libertà di alcuni individui di vivere liberamente la propria sessualità e vedersi riconosciuti i diritti civili che spettano a ogni cittadino, a prescindere dalle proprie idee e dai propri gusti?
Gay, lesbiche, tansgender, perfino i single, sono quindi tutti dei virus sociali che complottano, in stretta alleanza col capitalismo, per distruggere la famiglia e le istituzioni «tradizionali», o piuttosto dei cittadini che pagano le tasse e vogliono vedersi riconosciuti determinati diritti politici e sociali? I cittadini, ci insegnava quell’Hegel citato a sproposito da Fusaro, non possono essere riconosciuti, giudicati e quindi discriminati rispetto al loro essere peccatori agli occhi di una morale specifica.
HUMANI NIHIL A ME ALIENUM PUTO
Nessuno come il filosofo dovrebbe sapere che siamo uomini, e nessuno di noi può assumersi il diritto sovrano di reputare «alieno» al genere umano qualunque cosa lo contraddistingua. Omosessualità e varietà dei gusti sessuali sono fenomeni antichi quanto il mondo, spesso attuati proprio da coloro che si ergono a paladini di una morale «giusta», «naturale» e «tradizionale».
Quale responsabilità dell’intellettuale emerge se gli intellettuali stessi dimenticano tutto questo per farsi sacerdoti di dogmi che negano una parte così importante della natura stessa?
Ma soprattutto, ritenendo legittimo che qualcuno possa sposare le posizioni di Fusaro, perché doversi aggrappare a tutti i costi ad autori che con il pensiero tradizionalista e reazionario nulla c’entrano?
Abbia il coraggio Fusaro, tanto più che il mainstream ormai lo ha «eletto» (e quindi non corre più pericoli di perdere posizioni di rendita), di spogliarsi di abiti e riferimenti che nulla c’entrano con le sue posizioni e si richiami a pensatori a queste più consoni.
O forse in questo modo, in un panorama culturale e mediatico sempre più miseramente asservito alle logiche numeriche e grette del capitalismo spettacolare, non farebbe più notizia riducendosi al rango di un serio studioso qualunque?
Se così fosse, Fusaro sarebbe il primo a beneficiare di quella logica del Mercato da lui apparentemente criticato con tanta e sterile foga…
Rock, provette e immigrati: il regresso secondo Ceronetti
Nel suo ultimo libro dà sfogo a tutto il pessimismo sulle sorti del mondo e del nostro Paese Definisce gli stranieri "indicibilmente estranei" e si allarma: "Getteranno la nostra cultura"
2 commenti:
Ercolani è riuscito a stare dalla parte del torto in una critica a Fusaro. Non era affatto semplice.
ahahahahahahaha :)
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