giovedì 12 gennaio 2017

John Berger


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John Berger, gli animali e le forme della percezione
Addio a John Berger. L'attenzione verso gli animali è presente nella sua opera fin dai primi anni Settanta. Lo testimoniano diversi scritti, tra narrativa e saggistica, tra cui l'ultima raccolta antologica tradotta in Italia per Il Saggiatore dal titolo «Perché guardiamo gli animali?»
Leonardo Caffo Manifesto 4.1.2017, 18:24
Adesso può osservarci tutti, finalmente, dall’unica prospettiva assoluta: quella di dio. In pochi sanno che John Berger soffriva di cataratta eppure, come Le Corbusier che era cieco da un occhio, la sua capacità visiva era più ampia del comune. Vedere meno, forse di meno, significa poi vedere diversamente: un modo per capire che ogni cosa implica una prospettiva. «Il mondo» è sempre e comunque «un mondo», nel senso che ne è un tipo, perché per ogni esemplare vivente esiste un esemplare di mondo che gli corrisponde.
CON BERGER muore un gigante dell’idea, ormai purtroppo in disuso anche in filosofia, che la realtà sia un insieme di piani su cui esercitare punti di vista. Forse esisterà un mondo solo ma in ogni caso, rassegniamoci, l’occhio ragiona a modo suo e ne crea un’immagine: ogni immagine, come in Wittgenstein, è il mondo che ci accompagna.
Ma cosa significa «vedere» il mondo e i suoi oggetti? È nello zoo di Basilea che John Berger si pone in modo più radicale questa domanda: perché mai guardiamo gli animali e perché, proprio dagli animali, potrebbe passare la risposta al mistero del percepire il mondo? Loro sono là, in quel luogo specifico per essere guardati eppure, paradossalmente, è l’unico luogo in cui è impossibile vederli. Non possiamo vederli perché gli animali dentro uno zoo semplicemente non esistono: non potremo mai incontrare il loro sguardo laterale perché lo abbiamo trasformato in uno sguardo meccanico.
TUTTAVIA è in quello sguardo tra umano e animale, ormai estinto, che secondo Berger si cela il mistero della visione e della nascita di un mondo personale e proprio: osservo l’estraneo, mi scopro diverso, mi separo dalla natura e ne faccio uso e teoria. Da qui inizia l’eredità di Berger, dove «qui» significa l’idea che un punto di vista privilegiato su quell’immagine di mondo che ci appartiene venga dall’esterno, come nel suo romanzo del 1998 King: A Street Story dove un cane randagio racconta la storia di un senzatetto, e dove solo chi è fuori da noi riesce a restituire un’immagine di come è fatto davvero lo spazio in cui siamo collocati. Berger disegnava, scriveva, fotografava, dipingeva: Berger esisteva.
Nell’epoca in cui tutto è settorializzato lui, semplicemente, strabordava; un fiume pieno di parole e immagini che adesso non esiste più e di cui già si sente la mancanza. Berger ha insegnato che vedere un «tipo di mondo» significa anche farlo vedere, agevolarne la vista, assecondarla verso un circuito che può condurre ad anticipare visioni future, ricordare quelle passate, mostrare prospettive nuove e inedite su ciò che ci sembrava «già visto», noto, addirittura comune. Era questo il suo obiettivo tanto quando conduceva per la BBC la serie televisiva Ways of Seeing, portando incredibilmente un Walter Benjamin pop alla conoscenza del grande pubblico, quando scriveva le sue poesie che sembrano polaroid raccontate per versi.
Berger, come Oliver Sacks attraverso la neurologia (anche lui, non a caso, affetto da un disturbo legato al suo stesso mestiere: il Lytico-bodig), ha in fondo mostrato la diversità degli esseri umani, delle loro visioni, dei loro modi di vita, e delle loro capacità di trasformare in continuazione, magari con una fotografia, la realtà in fantasia, interpretazione, e dunque ancora una volta in «immagine».
NON SI FRAINTENDA tuttavia il suo messaggio: non è che ognuno possa dire quello che vuole e vale tutto; il problema è più sottile perché le formule della visione sono le ombre e le illusioni del nostro percepire. Occhio e fantasia vanno educati esattamente come cervello e ragione e chi lo sa se, a quel punto, vedere «un mondo» non sia una strada privilegiata per arrivare al mondo in quanto tale proprio come ci ricordava il maestro: «il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare ed è il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo»

Condividere è il mio modo di guardare e toccare il reale
Incontri. Una conversazione datata nel 2004 con John Berger, scomparso lunedì scorso a Parigi, all'età di 90 anni
Francesca Borrelli Manifesto 41.2017, 18:54
John Berger passava la maggior parte del suo tempo in un villaggio arrampicato sulle Alpi francesi, che raggiunse agli inizi degli anni ’70, portando con sé una passione conoscitiva i cui confini si sono allargati nel tempo a comprendere tutte le affermazioni del visibile, dalle arti figurative al realismo fotografico al cinema: prospettive dello sguardo che non si è contentato di indagare, perché le praticava anche in prima persona.
Dobbiamo essergli grati per essersi fatto strada in decenni di viaggi, incontri, studi, letture, lavori, mantenendo intatta la sua vocazione ermeneutica e non tirandosi indietro di fronte ai rischi impliciti nell’affrontare argomenti tanto diversi; lo ricorderemo per avere mantenuto alta la temperatura del suo imprescindibile impegno politico nonostante la cultura del narcisismo spingesse verso altri approdi. Mai, nemmeno per un momento, ha pensato che la sua convinzione marxista potesse essere lasciata fuori da una delle tante porte attraversate, e proprio grazie a questa intimità profonda con la sua natura politica, mai ha dovuto staccarne manifesti da affidare impropriamente alla sua attività letteraria o critica.
Tutto ciò che l’attenzione di Berger ha catturato via via, ci è stato restituito vivo e parlante, scrollato dalla polvere delle musealizzazioni, ribelle a ogni forma di consegna, fosse quella della classicità o quella dell’avanguardia, entrambe destinate a nutrire una tradizione che Berger non si è mai stancato di reinventare. L’ha fatto attivando cortocircuiti sorprendenti, come quando ha disegnato una linea di continuità tra quelli che chiama «gli incubi del visibile»; e a quella linea ha appeso immagini lontane e senza nessi apparenti: nel Trionfo della morte di Bruegel ha letto una profezia dei campi di sterminio nazisti, nel pannello del Trittico delle delizie di Bosch che raffigura l’inferno ha visto un delirio spaziale in odore di globalizzazione. Le azioni degli zapatisti gli hanno ricordato gli attacchi degli aironi, più veloci di un battito di ciglia, e sull’ammirazione per quegli uccelli si è dilungato nella sua corrispondenza con Marcos. Che gli ha risposto: «Forse non erano aironi ma frammenti di una luna esplosa, polverizzata nel dicembre della giungla».
Nulla di quel che Berger ha visto e ascoltato nasceva ai suoi occhi o alle sue orecchie così come ha scelto di raccontarcelo, eppure la prossimità di quelle immagini con la visione retinica e con la registrazione sonora resta lampante: la profondità del suo sguardo ha fatto emergere la superficie delle cose dalla quale Berger è sempre stato catturato, il vortice delle apparenze nelle quali subito si orientava il suo occhio interrogante, e tutto quel che coglieva e poi descriveva diventava luogo comune, ovvero zona aperta all’accoglienza di chi volesse ritrovarvisi. Via via che li scriveva, i suoi libri portavano a noi una economia di gesti e parole che non si vorrebbero dispersi: li riconduceva a noi traendoli dalle tele dei pittori, come in Sacche di resistenza, o prendendoli dai costumi quotidiani dei montanari e dei pastori, che animano anche alcuni tra i suoi racconti, da quelli più lunghi di Una volta in Europa, a quelli brevissimi di Fotocopie (entrambi pubblicati da Bollati Boringhieri).
La voce di John Berger era calda e esitante: ci parlammo una sola volta, alla fine del 2004, e questi sono alcuni frammenti di quella conversazione.

Da sempre lei si è dedicato a attività eterogenee – ha scritto saggi critici, fiction, riflessioni sulla politica, poesie – e si è ripromesso di non smettere mai di dipingere. Quali sono le linee di continuità che rintraccia in questo moltiplicarsi di passioni?
Se devo pensare a una costante della mia produzione, direi che la ritrovo in un sentimento tragico della vita: questo non vuol dire che io sia pessimista, o che mi manchi il senso della speranza, o che abbia un temperamento passivo, al contrario. Però mi rendo conto che sia quando provo a disegnare che a scrivere un poema o un film, c’è sempre al fondo un desiderio di riparare qualcosa che rischierebbe di andare perduto. Non sono certo un riformista, né concepisco la vita come una questione di riparazione. Quel che dico va inteso in senso metafisico. Quanto alla mia scrittura, non è mai subordinata a una decisione, è come se subissi un obbligo. Scrivo sempre indirizzandomi a qualcun altro, non amo la prima persona, né l’autobiografia. Questo non vuol dire, naturalmente, che non siano presenti nei miei libri, spunti di realtà personale, come per esempio in E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, che è un po’ la continuazione del lavoro che facevo sotto le armi. Allora avevo diciotto anni, e grazie alla mia classe sociale e all’istruzione ricevuta ci si aspettava che diventassi un ufficiale, ma io rifiutai. Non dovetti mai combattere e venni assegnato alla istruzione delle reclute. Il quindici per cento circa di quei giovani soldati non riusciva a scrivere facilmente altro che il proprio nome, così mi domandavano di scrivere al posto loro le lettere che avrebbero mandato ai genitori, o agli amici. Mi è difficile ripensare a quel che ho prodotto via via perché tendo a dimenticarmelo, ma se cerco di capire da dove viene l’energia che mi muove, mi sembra di essere sempre spinto a una forma di ricostruzione, come se avessi davanti un vaso rotto e provassi a rincollarlo: certo, non lo riporterò alla sua condizione originaria, ma almeno sarà riparato.
Come descriverebbe questa rottura originaria, e cosa riguarda?È una questione estremamente complicata, e a me sembra che riguardi un punto fondamentale della ontologia. Tra i filosofi che hanno trattato questo problema nel modo che sento a me più vicino ci sono Spinoza, Vico, e quella figura abbagliante che è Simone Weil: sono d’accordo con lei quando legge il libero arbitrio come la scelta tra un bene e un male intesi non come istanze oggettivabili nel confronto con il mondo esterno; quel che è implicato, infatti, sta dentro di noi, ciascuno lo porta in sé, e sta qui, forse, la rottura originaria di cui parlavo.
Quel che subito restituiscono i suoi libri è il protagonismo discreto di un grande osservatore. Andare al cuore delle cose passando per aperture periferiche, anche questo è un suo talento. Crede ci si possa educare a vedere?
L’osservazione è un processo essenziale allo spirito umano, dunque rientra nelle capacità di chiunque, basti pensare ai dipinti nelle grotte preistoriche di trentamila anni fa. Nella modernità, i cittadini delle grandi metropoli in un certo senso sono sottoposti a stimoli che impediscono di osservare, e queste sollecitazioni creano dipendenza. Se mi chiede consigli per una lezione sul guardare, la prima cosa che mi viene da dire è che è necessario un certo disprezzo per la cultura della spettacolarizzazione. Curiosamente, se penso a scritti dai quali apprendere quali siano i nemici dell’osservazione, mi vengono subito in mente quelli del grande filosofo della società dello spettacolo, Guy Debord. Inoltre, quando si guarda bisogna essere capaci di dimenticare se stessi: tutto si gioca nella capacità di restare aperti all’oggetto.
Quel che dice rimanda al fatto che lei ha affermato di avere una identità fragile, imprecisa: una considerazione tanto più confortante quanto maggiore è il dilagare dell’intolleranza legata a rivendicazioni di identità religiose, patriottiche, linguistiche, etniche…
Sono del tutto d’accordo, e per quel che mi riguarda, da quando sono datati i miei ricordi, è nelle azioni, o nelle reazioni ai fatti e alle persone che io trovo un senso della realtà. Senza queste sollecitazioni che mi vengono dal mondo esterno e dagli altri il mio senso identitario è in uno stato di sonno, è come addormentato. Da quando avevo circa dodici anni, le mie letture più importanti sono state di poesia, e la maggior parte di questi versi che ancora leggo e rileggo è scritta in lingue straniere. Perciò, sono abituato a intrattenermi al di fuori della mia lingua. Con l’età capisco meglio come abbia giocato un ruolo anche il fatto che mio nonno paterno era un ebreo emigrato da Trieste, dunque lui e la sua famiglia parlavano italiano e probabilmente anche yiddish. Inoltre, fin da quando avevo una ventina d’anni, sentii che in Inghilterra non ero precisamente a casa mia, perciò coltivavo l’idea di andarmene non appena fosse stato economicamente possibile, cosa che feci ormai circa quarant’anni fa. Da allora ho passato la maggior parte del mio tempo in Francia, paese che amo molto, certo, ma al quale sono ben consapevole di non appartenere. Né sento di avere una identità religiosa, perché pur essendo il rapporto con la religione per me molto importante, non passa attraverso le istituzioni. Conosce quel grande scrittore russo che è Andrej Platonov? In uno dei suoi racconti c’è una semplice frase che dice: condividere è toccare il reale. Come se al di fuori della condivisione fosse solo possibile stare a fianco del reale. Ecco, a questa frase sì che mi sento di appartenere.
In effetti, lei passa continuamente da una lingua all’altra e da una forma espressiva all’altra: si muove fra prosa, poesia, critica d’arte, e pittura. Cosa le ha insegnato questa prassi di decostruzione continua del già dato?
Intanto, mi ha insegnato che nella traduzione di parole da una lingua all’altra ciò di cui bisogna andare alla ricerca è quanto sta dietro il testo, quel che viene prima delle parole. In gioco, allora, non ci sono soltanto scritti ma anche ciò che era lì a aspettare il linguaggio, nella immaginazione dell’autore. Si dice che la fenomenologia non abbia fatto nulla per comprendere la lingua delle immagini, ma io non sono d’accordo. Forse, dietro questa critica c’è un modo di pensare un po’ cerebrale, perché è probabile che il linguaggio visuale non sia spiegabile con le parole. Per quanto mi riguarda, quando cerco di parlare di un’opera quel che provo a fare è raccontare con le parole una storia parallela a quanto vedo succedere nel suo spazio; ma questo non equivale mai a renderla davvero comprensibile, a tradurre in parole quel che compete alla visualità. Ne viene fuori qualcosa che somiglia più a una metafora che a una spiegazione, e non può essere altrimenti, perché sono molte le cose inspiegabili con la logica delle parole: per fortuna, perché altrimenti la pittura e ogni fatto visuale sarebbero solamente illustrazioni. Si dice che io sia un critico d’arte ma, in effetti, quando scrivo sulla pittura quel che succede è che mi trasformo in uno story-teller. Nel momento in cui si prova a spiegare con le parole la fisicità di un’opera, ecco che questa matericità sparisce.
Lei ha più volte insistito sulla necessità di coltivare la memoria. Ora, Susan Sontag, che lei ha più volte dichiarato di ammirare, sostiene in «Di fronte al dolore degli altri» che bisogna imparare a dimenticare. È d’accordo?
Ricordo questa frase, e condivido il senso di ciò che le sta alle spalle, ma non la formulazione, che mi turba un po’. Io direi piuttosto che bisogna perdonare, non dimenticare. Ma questo non fa parte del vocabolario di Susan Sontag. Quando penso al perdono ho in mente Antigone: non credo, infatti, che sia la chiesa cattolica a avere il monopolio del perdono.

Un trafficante in apparenze e sembianze
Addio a John Berger. Una bibliografia essenziale e ragionata
Francesca Borrelli Manifesto 4.1.2017, 18:52
Nato a Londra nel 1926, John Berger si trasferì in Francia nei primi anni ‘70, dove divideva il suo tempo tra Quincy, villaggio delle Alpi francesi, e Parigi. La sua attività di cantastorie – è questa la definizione più vicina allo spirito con il quale catturava e restituiva quel che colpiva i suoi sensi – si è modulata tra passioni che vanno dalla scrittura di finzione alla saggistica d’arte, dalla poesia alla pittura e al disegno, con uno sguardo vigile sulle contingenze politiche via via attraversate.
IL RACCONTO di un suo sogno in cui «trafficava in apparenze e sembianze», cercando ogni volta di penetrare fisicamente i diversi oggetti che si offrivano ai suoi occhi, rende bene lo spirito di questo investigatore del visibile, collezionista di voci, narratore di passaggi esistenziali scelti di preferenza tra le giornate austere dei montanari, dei pastori, dei contadini di cui imparò a condividere gesti, lessico, e lavori.
Non è un caso che tra i tanti pittori di tutte le epoche ai quali si è dedicato abbia individuato in Caravaggio quello che sentiva più affine: per essere stato il primo a dipingere l’underworld del popolino, i volti della malavita, i bassifondi e il desiderio sessuale. Ma Berger ha scritto saggi su una infinità di artisti, brevi ritratti o affondo come quelli dedicati agli Splendori e miserie di Pablo Picasso (Il Saggiatore, 1996). La sua narrativa si è esercitata nella sperimentazione, al tempo in cui pubblicò il romanzo G. (Il Saggiatore, 1996) poi è tornata a una forma più collaudata dalla tradizione inaugurando la trilogia Into Their Labours il cui primo capitolo è stato tradotto con il titolo Le tre vite di Lucie, (Gelka, 1992), mentre il secondo raccoglie i bellissimi racconti di Una volta in Europa (Bollati Boringhieri, 2003).
TRA I SUOI ROMANZI migliori Festa di nozze (Il Saggiatore, 1996), tessuto attorno a voci ascoltate e riportate da un vecchio cieco, venditore di tavolette votive ateniesi; e tra i saggi da non perdere, Questione di sguardi (Il Saggiatore,1998) e Sul guardare (Bruno Mondadori, 2003). Tra i titoli più recenti, Sul disegnare (Scheiwiller, 2007), gli scritti politici tradotti da Maria Nadotti, la sua grande cultrice italiana, Abbi cara ogni cosa (Fusi orari, 2007); Da A a X: lettere di una storia (Scheiweller, 2009), La speranza, nel frattempo, con Arundhati Roy, che gli ha dedicato Il dio delle piccole cose, e Maria Nadotti, (Casagrande, 2010), Il taccuino di Bento (Neri Pozza, 2014), Capire una fotografia (Contrasto, 2014), Rondò per Beverly (Nottetempo, 2014).

Addio a John Berger, l’arte raccontata come un romanzo Elena Del Drago Busiarda 4 1 2016
Gli scritti di John Berger sono la dimostrazione che la narrazione dell’arte fuori dalle maglie dell’Accademia è la via principale per coinvolgere, affascinare, persino insegnare attraverso quadri e movimenti. Bisogna infatti che lo sguardo e il racconto siano edificati nell’esperienza e nel piacere perché possano arrivare a toccare la mente del lettore. John Berger, morto l’altro giorno a Parigi, a 90 anni compiuti, ne era capace, era, forse, il più bravo di tutti. Critico raffinato, ma anche inventore di storie tout-court.
Aveva cominciato come pittore, esperienza fondamentale, per poi dedicarsi a una narrazione caleidoscopica: aveva scritto romanzi molto belli, come Ritratto di un pittore, il suo primo, nel 1958. E poi raccolte di saggi critici dedicati alla letteratura, alla pittura, alla fotografia, alla politica. Senza dimenticare le sceneggiature, i testi teatrali, la conduzione televisiva in un programma per la Bbc, in cui le sue mise erano significative quanto le parole. 
Nato a Londra nel 1926, per decenni ha vissuto in uno sperduto paese delle Alpi francesi coltivando in solitudine e con testardaggine la sua non specializzazione in un mondo che chiedeva sempre di più competenze specifiche su una materia, un secolo, un movimento. Era un convinto oppositore del capitalismo, in ogni situazione. Quando vinse il Booker Prize per il romanzo G., nel 1972, scelse di devolvere metà del premio in denaro alle Black Panthers di Trinidad per il loro impegno proprio contro il principale sponsor del premio accusato di sfruttare le forze di lavoro sull’isola. E ancora pochi mesi fa, lavorando alla riedizione de Il settimo uomo, a fine gennaio in libreria per Contrasto, scriveva: «Quando il capitalismo industriale si è trasformato in capitalismo speculativo, il mondo è cambiato, perché tutte le decisioni che agiscono sulla vita delle persone non vengono più prese dalle istituzioni capitalistiche rappresentative, bensì offshore dal capitalismo speculativo finanziario. I migranti tuttavia continuano a cercare scampo dalla povertà».
In questo caso il testo di Berger accompagna le fotografie di Jean Mohr e se dovessimo scegliere un ambito per cogliere la sua grandezza, dovremmo soffermarci proprio sul modo illuminante e poetico di spiegare l’atto del fotografare. Lui che era soprattutto un disegnatore, nel delineare la differenza con il disegno arriva all’essenza della sua teoria sulla fotografia attraverso aforismi, frasi perfette, metafore. A proposito del rapporto di queste due tecniche con il tempo scrive: «Un disegno contiene il tempo del suo farsi, e ciò significa che possiede un proprio tempo, indipendente dal tempo vivente di ciò che raffigura. La fotografia, invece, lo riceve quasi istantaneamente. [...] L’unico tempo contenuto in una fotografia è l’istante isolato di ciò che mostra».
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John Berger  Guardare scrivere resistere

È morto a novant’anni il “maestro dell’attenzione”

MARCO BELPOLITI Rep 3 1 2017
La sua ultima opera pubblicata in Italia s’intitola “Smoke” (Il Saggiatore) ed è un libretto che contiene una sola lunga frase accompagnata dai disegni di Selçuk Demirel, dove John Berger, accanito fumatore, tesse le lodi del fumo quale gesto condiviso, comunitario e non (come accade oggi), passione solitaria e individualista. Niente può essere più politicamente scorretto di un libretto così in tempi di proibizionismo, niente fa meglio capire immediatamente chi
sia stato John Berger morto ieri poco più che novantenne. Un intellettuale controcorrente, prima di tutto. Ma anche un autore poliedrico, appartenuto alla generazione di Pier Paolo Pasolini e Roland Barthes, che si è interessato di arte, letteratura, poesia, filosofia, che ha praticato la pittura e il disegno, che ha scritto opere narrative come saggi sulla fotografia, su Picasso su Giacometti, su tutto ciò che gli uomini hanno fatto nel corso degli ultimi due secoli.
Ha cominciato come pittore, dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni Quaranta, ma subito ha preso a scrivere recensioni di mostre e a occuparsi d’arte sui giornali, passando poi a opere narrative (come G.,
1972, vincitrice del Booker Prize) ed essendo nel contempo un militante di sinistra. Per lui vale una frase di Elsa Morante che una volta ha definito lo scrittore come «un uomo a cui sta cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura».
Nessuno scrittore contemporaneo ha incarnato perfettamente quel “tutto” più di Berger. Se c’è un’espressione che può definire lo scrittore inglese — era nato a Londra nel novembre del 1926 — è “forme d’attenzione”: qualcosa che viene prima ancora dello stile che hanno i suoi scritti o le sue opere visive, perché Berger si è interrogato su tutto ciò che cadeva dal suo sguardo, fosse un quadro o un ritaglio di giornale, un luogo o un oggetto, una persona oppure un albero. Guardare è stata la sua attività principale, che si è compendiata in un libro straordinario nato da una trasmissione televisiva della Bbc, Ways of Seeing da lui curata nel 1972, da cui nasce il libro Questione di sguardi (Il Saggiatore), opera seminale che ha avuto una grande importanza per la generazione degli scrittori venuti dopo, come ha raccontato Geoff Dyer, a sua volta scrittore, saggista e curatore di un altro volume di Berger, Capire una fotografia
(Contrasto). Berger è stato con Roland Barthes e Susan Sontag il saggista che ha scritto i più importanti testi sulla lettura delle fotografie. Il suo modo di guardare il mondo, gli uomini e le loro opere, qualunque esse siano, da un covone di grano a un quadro a olio, ha la prerogativa di non incagliarsi nei luoghi comuni, ma di fare di continuo critica sociale, mettendo in discussione i presupposti visivi della cultura contemporanea.
Berger, che è stato uomo di sinistra, comunista, nel senso marxiano del termine, non è mai stato ideologico, sia quando devolveva i ricavati di un suo romanzo alle Pantere nere, sia quando incontrava il subcomandante Marcos. Quando negli anni Settanta è andato poi ad abitare a Quincy, il piccolo villaggio alpino di ottanta anime, l’orizzonte della sua visione si è ristretta e insieme allargata. Ha cominciato a guardare le opere che entravano nei suoi libri ( Sul guardare e Sacche di resistenza) con lo sguardo di un uomo nato e vissuto in quello sperduto paesino e insieme con la densità culturale di un grande studioso. Per capire l’atteggiamento assunto da Berger nella sua scrittura sia letteraria che saggistica basta citare un piccolo scritto intitolato
Fra due Colmar. Nel 1963 si reca a Colmar per vedere la pala di Grünewald. Siamo alla vigilia delle rivolte giovanili e operaie che scuoteranno l’Europa e l’America. Vi torna dieci anni dopo, nel 1973, in un clima che lo scrittore giudica di sconfitta dell’utopia del Sessantotto. Mentre è lì improvvisamente il sole esce da dietro le nubi. Berger coglie in quel momento, grazie a quella luce improvvisa, che l’opera è stata dipinta con «la luce fiammeggiante delle tenebre ». Scrive: «La speranza attrae, irradia come un punto a cui vogliamo essere vicini», mentre «il dubbio non ha centro, è ubiquo». Sono frasi come queste, forme di attenzione suscitate da qualcosa che è fuggevole, a dare alla sua prosa e al suo pensiero una forza straordinaria.
Sia che abbia scritto romanzi come G. del 1972 o Lillà e Bandiera (Bollati Boringhieri) del 1990, sia che abbia composto raccolte di saggi come Sul disegnare (Scheiwiller), l’onestà di Berger è sempre stata la caratteristica principale del suo lavoro, dove “onestà” non ha un significato morale bensì estetico: onestà come onore, che si ottiene nella strenua lotta con se stessi, prima di tutto, con quel mondo che è ogni vero artista. La sua costanza è stata quella del conflitto, della eterna collisione con il mondo e con le cose, perché solo dalla lotta emerge l’intensità del dire e la coerenza non è mai un punto di partenza quanto di arrivo.
Berger è convinto di aver trovato tutto questo nel disegno, nel “segnare intorno”, come dice l’etimo della parola. Dipingeva e disegnava per essere intenso e coerente, non tanto e non solo per esprimersi, così come amava andare in motocicletta, disegnando strade e percorsi attraverso l’Europa, continente di cui è stato uno dei più importanti intellettuali nell’epoca in cui le persone come lui sembrano in via di sparizione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

John Berger. L’infinito, qui e ora
Ritratti. Intellettuale critico poeta disegnatore narratore e molto altro. Rivoluzionò il modo di leggere i fenomeni e le forme d’arte. A pochi giorni dalla sua scomparsa, un ritratto ne ricpercorre i tratti essenziali
Gianluca Solla Alias Manifesto 6.1.2017, 19:42
Anni fa circolavano, quasi in forma clandestina, spediti da amici in diverse occasioni, gli articoli di un tal John Berger. In casa ne arrivarono prima uno su Picasso, poi un altro, mi sembra su Caravaggio. Uno ancora sulla casa natale di Gramsci a Ghilarza.
Quest’ultimo portava un titolo splendido, qualcosa come vivere con le pietre. Di questo Berger non si sapeva molto. Eppure, quasi si fossero messi d’accordo tra loro, i diversi mittenti erano certi di una cosa: bisognava leggerlo perché, a qualsiasi oggetto si volgesse la sua scrittura, qualcosa d’impareggiabile accomunava testi tanto differenti. Al lettore non veniva proposto un sapere. Veniva donata un’immagine, una visione. Da ogni testo trapelava un calore insolito verso ciò che descriveva. Le sue immagini non avevano niente di patinato, anche quando si occupava di pubblicità. Non c’era lì niente di una pura rappresentazione. Invece, in maniera sorprendente, la sua scrittura accedeva a una dimensione che ancora oggi non saprei come altro definire se non plastica. Dal centro delle cose sorgeva una parola inaudita proprio perché queste venivano restituite alla loro plasticità. Erano lì, le si poteva finalmente toccare.
Nella scrittura di Berger le cose non sono mai meri oggetti di studio. Non c’è nulla di immobile, qui. Non sono immagini statiche. Sono sempre volti vivi a guardarmi. Vederli significa immergersi in loro, non ritornare indietro senza che qualcosa abbia nel frattempo trasformato lo sguardo di chi guarda. Le cose ci toccano. Solo così si fanno pensiero. Vedere e toccare risultano qui intrecciati in una trama insolubile. Vedere significa toccare con lo sguardo. Ma a questo primo movimento, se ne accompagna subito un altro: vedere non significa altro se non essere toccati dalla propria visione. Là qualcosa si spinge verso noi. Non si accede mai alla visione dalla comoda distanza tra lo spettatore e il mondo. Piuttosto è solo in quanto diventa vertigine che l’immagine si fa pensiero, lascia vedere il tempo che contiene. Diventa una presenza tattile, difficile da dire, ma indimenticabile. Perché, per quanta confusione visiva e motoria la sua vertigine possa produrre, è da quella visione che proviene un invito al viaggio, all’esperienza. Un appello all’ascolto del mondo. Della sua bellezza
Ma l’esperienza di questa bellezza non è mai una percezione. È invece qualcosa che impressiona il nostro stesso sguardo, che gli si imprime, lo tocca, magari ferendolo. È una commozione, certo, ma in quanto una commozione è sempre un’avventura carnale. Se qualcosa si vede, è unicamente in forza della carne dell’occhio, mai di una capacità astratta che l’uomo possa rivendicare per sé. Per questo stesso motivo, l’esperienza non è mai contenuta nel ricordo, ma unicamente nel cambiamento indissolubile che imprime sul nostro di vedere, di pensare, di vivere. Non c’è esperienza che nel cambiamento. Potrà essere lento o precipitoso, evidente o inapparente. In tutti i casi dovremmo imparare a farne i conti col tempo.
L’insegnamento di Berger ci porta con decisione in questa direzione. Non: ho visto qualcosa di bello. Ma la bellezza mi è apparsa, mi ha guardato, mi ha toccato. Questo significa: entrarne a farne parte, essere parte della bellezza che ci ha colto. Esserne cambiati e, in un certo senso, esserne salvati. Senza bisogno di alcun’altra salvezza se non di questa che sorge qui e ora dal mezzo delle cose. In mezzo alla vita che ha così occasione di incontrare se stessa.
Questo accade perché il tempo vive nelle cose. Porta un’altra vita, una vita segreta, al loro interno. Se le storie sono incommensurabili, è a ragione di tutto il tempo contenuto in loro. Il tempo della scrittura, il tempo del racconto, il tempo dell’ascolto, aprono a una dimensione inaudita. È per questo che in tutta la sua fragilità la voce della letteratura e del pensiero dev’essere potente. Non si lascerà piegare, né spiegare: è una dimensione intrattabile, in cui accelerazioni e rallentamenti, modulazioni e intensificazioni, fanno parte della capacità umana, oggi per lo più dimenticata, di trasformare il mondo, trasformandosi.
Se di qualcosa in particolare Berger è il pensatore, lo è certamente di quanto in ogni esperienza non è mai finito, ma continua ad accompagnarci, e con cui non si finisce mai di fare i conti. Nell’impermanenza del presente, nella relativa inapparenza con cui accadono fatti anche decisivi, questo cuore segreto dell’esperienza è quanto ci permette di continuare a guardare e, insieme, a imparare a guardare. Senza fine.
Proprio per questo Berger è anche capace di parlare di un tabù ormai consolidato. Non della morte – astrazione tra le mille di una vita che sempre di più tende a evitare la fatica di fare i conti con se stessa – ma dei morti. Di cui, ha scritto una volta, noi vivi non conosciamo la lingua. Né le nostre storie vengono lette da loro. Eppure c’è stato un tempo in cui i vivi non rinunciavano al loro dialogo con i morti. Ed erano così più vicini alla loro stessa vita.
Anche solo per dirlo, per pensarlo, era necessario inventare una scrittura, un altro genere. Al di là dei gerghi consolidati, anche quelli della militanza e dell’impegno. Non era una questione di stile, ma di un’urgenza: quella di far emergere parole che, nella loro estrema semplicità, potessero davvero vibrare dell’esigenza che le animava. Indubbiamente questo spingersi oltre è un tratto costante dell’avventura intellettuale di Berger, che ha nell’infinito la sua misura: andare oltre, suscitare un desiderio che apre a una scoperta, partire, accogliere l’invito all’esperienza…
Esistono pensatori che sono come Sherazade: sono voci che tengono sveglio il mondo, che lo tengono aperto rispetto alle immense domande che lo attraversano in ogni tempo. Ci sono pensatori la cui voce è una colonna del tempo. È già essa una forma di giustizia. Di resistenza contro quella che – parlando di Hieronymus Bosch, Marcos e della Guerra Fredda – Berger chiamava la grande disfatta del mondo. Sono rari e tanto più preziosi, questi pensatori. Ancora di più in un momento in cui è la vita stessa a sembrare così invivibile ed è facile perdere di vista le cose essenziali. Il loro canto è coraggioso senza arroganza. Si leva in alto perché sa stare vicino alle cose in basso. E per questo è la memoria del mondo. È un canto della perdita, perché solo lì può sorgere qualcosa di nuovo. È una canzone che porta nel riso il suo seme. È una mescolanza di durezza e tenerezza, le cui modulazioni ci sono entrambe così essenziali, come l’aria o la luce. È una benedizione.
John Berger appartiene indubbiamente a questa compagnia. Lo dobbiamo anche al suo canto se, malgrado tutto, riusciamo ancora a immaginare di stare in contatto con una realtà che o ci travolge o ci sfugge. È questo pensatore dell’infinito, di un infinito laico, umile, dimesso, ma non senza un suo singolarissimo coraggio, che oggi salutiamo e ringraziamo. Della sua capacità sorprendente di farci vedere come quest’infinito non è altrove, ma qui e ora.



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