giovedì 12 gennaio 2017
Gian Paolo Calchi Novati
Nato a Vimercate nel 1935, animatore dell’Ispi, aveva dedicato il suo impegno alle vicende dei Paesi poveri, denunciando i guasti del colonialismo e i suoi strascichi
di ANTONIO CARIOTI Corriere 2 1 2017
Informazione Scorretta 03.01.2017
Lo sguardo aperto su un mondo in tumulto
Il ricordo. Storico
collaboratore del manifesto, il «leone» Gian Paolo Calchi Novati ci ha
lasciati. Ma restano sulle nostre scrivanie i suoi studi illuminanti su
quello che un tempo veniva definito Terzo Mondo. In particolare
sull’Africa, dall’analisi delle sue «rivoluzioni» alla denuncia dei
processi neo-coloniali oggi in atto
Gian Paolo Calchi Novati ci ha lasciati. Un’intera generazione
gli è debitrice dello sguardo aperto sul mondo in tumulto, sull’Africa
in particolare.
Nei lontani anni Sessanta del secolo scorso l’internazionalismo, vista
la Guerra Fredda, appassionava ancora, entrando nella quotidianità del
dibattito politico corrente. Alla grande epopea delle lotte per
l’indipendenza del continente africano ed asiatico, alla loro
liberazione dal giogo coloniale, corrispondeva la nascita ed il
consolidamento delle grandi organizzazioni di massa che avrebbero poi
sostenuto attivamente la sinistra continentale.
Al tempo stesso il processo decoloniale procedeva in parallelo a
quello di un’idea di unità dell’Europa, che allora era ancora l’insieme
delle potenze colonialiste per eccellenza, proprio le più colpite dalle
nuove dinamiche terzomondiali.
E dunque ciò che succedeva in Madagascar o in Nigeria, in Giordania o
in Vietnam, rimetteva in discussione non solo i destini di intere
popolazioni dall’altra parte del Mediterraneo sino al Capo di Buona
Speranza, dal Medio Oriente all’Indocina, ma la visione stessa del mondo
che una sinistra impegnata a governare e dirigere il cambiamento doveva
assumere. Basti pensare all’impatto della guerra civile algerina sul
clima politico francese col crollo della IV Repubblica, il ritorno di De
Gaulle al potere e l’avvento della V Repubblica, caratterizzata da una
nuova Costituzione che conferiva poteri molto estesi al Presidente.
Sembrano lontani i tempi in cui i giornali riportavano in prima
pagina le cronache della prima indipendenza del Ghana con i proclami
panafricanisti di Kwame Nkrumah, la guerra civile in Congo, con il
tentativo, soffocato nel sangue, del giovane leader Lumumba di
coinvolgere le Nazioni Unite e la conseguente morte del suo Segretario
Generale, Dag Hammarskjöld, o la nazionalizzazione del Canale di Suez da
parte del panarabista Nasser riempiva i dibattiti di quanti vedevano
nelle rivoluzioni africane un modello per le lotte del continente
europeo.
Di tutto questo fin dagli anni Cinquanta, cioè dal periodo
immediatamente successivo la fine della Guerra, con passione e
convinzione, capacità divulgativa e autorevolezza storica, Giampaolo
Calchi Novati si occupava da storico e da militante di sinistra, anzi,
meglio, da storico in quanto militante di sinistra. Più che si occupava,
diremmo che illuminava. Sulle nostre scrivanie, quasi come livre de chevet, il suo Le rivoluzioni nell’Africa nera
(ed. dall’Oglio) del’67, l’anno in cui Gian Paolo affermava
icasticamente nell’introduzione: «La liberazione dell’Africa nera è
quasi completata. Il “potere” è una realtà per la maggioranza dei suoi
paesi. L’incidenza sul significato dell’indipendenza africana nella
residua sfera coloniale… si pone oramai in una prospettiva diversa, di
scadenze e non di merito».
In merito alle «prospettive», è bene dirlo, Calchi Novati si
riferiva, anticipando i tempi con la sua capacità visionaria, a quei
processi di decolonizzazione che poi sarebbero avvenuti nelle ex colonie
portoghesi dopo la Rivoluzione dei garofani del ’74, sino alla
conquista del potere da parte dell’Anc di Nelson Mandela nel Sudafrica
razzista dell’apartheid.
Scorrendo le pagine di quel libro «saggio popolare», che costava
poche centinaia di lire, si ritrovava tutta la storia coloniale, e non
solo, del Continente, riassunta magistralmente, passo dopo passo, a
partire da una analisi marxista, ma non ideologica, dei rapporti di
forza internazionali, in cui il fenomeno coloniale diviene una delle
forme maggiori per l’accumulazione primitiva del Capitale.
Nella biografia di Calchi Novati, classe 1935, nato a Vimercate di
Milano e laureato in Giurisprudenza, indimenticabile e appassionato
docente universitario a Pisa, Urbino e Pavia, animatore dell’Ispi,
fondatore dell’Ipalmo, si possono apprezzare alcuni dei titoli che
costellano la sua opera di studioso indipendente: si va da temi quali Neutralismo e guerra fredda, Stato e coscienza nazionale nell’Africa occidentale britannica, ad altri legati all’analisi socio politica, Stato, popolo, nazione nelle culture extraeuropee. Fino al personalissimo, inusitato e quasi sentimentale, Dalla parte dei leoni.
Basterebbe solo questa breve teoria dei titoli, che negli anni si
sono allungati sino a configurare una bibliografia impressionante e
densissima, ad illustrare la vastità degli interessi sia storici sia
divulgativi in cui si muoveva Gian Paolo, sempre attento a partire da
una analisi complessiva delle relazioni internazionali per poi arrivare,
con dovizia di particolari e di documentazione circostanziata, a
illuminare una realtà nazionale, ma sempre alla luce di questioni
generali che mai diventavano generiche.
Ma forse il merito maggiore di Gian Paolo Calchi Novati risiede nella
sua coerenza di intellettuale. Questa capacità critica e documentale,
infatti, di tracciare un affresco della condizione terzomondiale, non
solo dell’Africa ma, più in generale di quello che una volta veniva
definito Terzo Mondo, non è venuta meno neanche quando, in particolare
dopo la fine della Guerra Fredda e delle nuove fasi del capitalismo
internazionale, la luce mediatica, ed anche analitica, su vasti segmenti
di mondo si sono spente, relegando interi continenti ad un ruolo
nuovamente marginale e subalterno.
E su questo, sulla progressiva nascita dei processi di vera e propria
ricolonizzazione, Calchi Novati ha sempre richiamato l’attenzione delle
sinistre, per molti anni distratte da ciò che avveniva in Africa dai
successi rivoluzionari latino americani, poi via via avviluppate dalla
crisi identitaria dell’involuzione del processo di costruzione europeo.
Sin dagli anni Novanta, infatti, ad ancor più dopo l’inizio del nuovo
millennio, Calchi Novati ha sempre mantenuto il suo punto analitico:
attenzione, diceva, ciò che sta succedendo nelle periferie del mondo, in
particolare in Africa, il continente in cui la biopolitica sembra
sperimentare i suoi dispositivi più avanzati di dominio e spoliazione
delle risorse naturali, desertificazione dei processi democratici e
partecipativi, arriverà ben presto anche nel mondo cosiddetto
sviluppato; e così è stato.
Ma, forse, la parte meno conosciuta ma altrettanto interessante,
dell’attività di Calchi Novati, è il suo corpo a corpo teorico costante
con i settori più avanzati della critica al colonialismo come fatto
culturale. Parliamo qui dalla relazione col pensiero del Frantz Fanon di
Pelle nera e maschere bianche o dei Dannati della terra, al tempo introdotto da Sartre, o la sua personale visione delle implicazioni esistenziali descritte ne Lo Straniero di Albert Camus – con rammarico non abbiamo fatto in tempo a chiedergli che cosa pensasse de Il Caso Mersault,
lo straordinario romanzo dello scrittore algerino Kamel Daoud che
rovescia, secondo la sensibilità dell’oppresso, l’impianto del
capolavoro di Camus. Lo storico appena scomparso si è spinto molto a
fondo anche nell’antropologia e nell’etno-psichiatria, fino ad
intervenire con idee originali sulle attualissime tematiche sollevate
dai cosiddetti studi sulle culture subalterne.
Negli ultimi tempi, poi, la sua tensione di studioso e di
commentatore politico era volta all’analisi della nuova fase aperta nel
continente africano dall’emergenza dei radicalismi religiosi con le loro
implicazioni militari e le reiterate guerre occidentali in teatri come
il Niger o il Mali. Qui la voce di Calchi Novati si alzava perentoria
sia a condannare in modo circostanziato le avventure neocoloniali di
alcuni Paesi europei, e l’assenza dell’Europa come tale nel teatro
mediorientale, sia per tornare incessantemente alle radici storiche di
quei conflitti solo apparentemente regionali, indicando proprio nel
neocolonialismo la debolezza degli stati del Sahel nei confronti dello
jihadismo.
Ed infine, com’è giusto che sia, una notazione di chiusura sul suo
rapporto con queste pagine. Il manifesto è rimasta una delle poche
testate a chiedere a Gian Paolo Calchi Novati di fornire la sua visione
sugli avvenimenti dell’attualità, processi di migrazione inclusi, ma
sempre nell’ambito di una visione più ampia. La relazione di amicizia
storica che Gian Paolo intratteneva personalmente con molti di noi e con
i collaboratori, è sempre stata per lui una spinta a continuare
l’analisi e la divulgazione, illuminando, per gli ultimi della terra,
momentaneamente dalla parte del torto. Addio al leone Gian Paolo.
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