Ma cosa significa «vedere» il mondo e i suoi oggetti? È nello zoo di Basilea che John Berger si pone in modo più radicale questa domanda: perché mai guardiamo gli animali e perché, proprio dagli animali, potrebbe passare la risposta al mistero del percepire il mondo? Loro sono là, in quel luogo specifico per essere guardati eppure, paradossalmente, è l’unico luogo in cui è impossibile vederli. Non possiamo vederli perché gli animali dentro uno zoo semplicemente non esistono: non potremo mai incontrare il loro sguardo laterale perché lo abbiamo trasformato in uno sguardo meccanico.
Tutto ciò che l’attenzione di Berger ha catturato via via, ci è stato restituito vivo e parlante, scrollato dalla polvere delle musealizzazioni, ribelle a ogni forma di consegna, fosse quella della classicità o quella dell’avanguardia, entrambe destinate a nutrire una tradizione che Berger non si è mai stancato di reinventare. L’ha fatto attivando cortocircuiti sorprendenti, come quando ha disegnato una linea di continuità tra quelli che chiama «gli incubi del visibile»; e a quella linea ha appeso immagini lontane e senza nessi apparenti: nel Trionfo della morte di Bruegel ha letto una profezia dei campi di sterminio nazisti, nel pannello del Trittico delle delizie di Bosch che raffigura l’inferno ha visto un delirio spaziale in odore di globalizzazione. Le azioni degli zapatisti gli hanno ricordato gli attacchi degli aironi, più veloci di un battito di ciglia, e sull’ammirazione per quegli uccelli si è dilungato nella sua corrispondenza con Marcos. Che gli ha risposto: «Forse non erano aironi ma frammenti di una luna esplosa, polverizzata nel dicembre della giungla».
Quel che subito restituiscono i suoi libri è il protagonismo discreto di un grande osservatore. Andare al cuore delle cose passando per aperture periferiche, anche questo è un suo talento. Crede ci si possa educare a vedere?
Quel che dice rimanda al fatto che lei ha affermato di avere una identità fragile, imprecisa: una considerazione tanto più confortante quanto maggiore è il dilagare dell’intolleranza legata a rivendicazioni di identità religiose, patriottiche, linguistiche, etniche…
In effetti, lei passa continuamente da una lingua all’altra e da una forma espressiva all’altra: si muove fra prosa, poesia, critica d’arte, e pittura. Cosa le ha insegnato questa prassi di decostruzione continua del già dato?
Lei ha più volte insistito sulla necessità di coltivare la memoria. Ora, Susan Sontag, che lei ha più volte dichiarato di ammirare, sostiene in «Di fronte al dolore degli altri» che bisogna imparare a dimenticare. È d’accordo?
Gli scritti di John Berger sono la dimostrazione che la narrazione dell’arte fuori dalle maglie dell’Accademia è la via principale per coinvolgere, affascinare, persino insegnare attraverso quadri e movimenti. Bisogna infatti che lo sguardo e il racconto siano edificati nell’esperienza e nel piacere perché possano arrivare a toccare la mente del lettore. John Berger, morto l’altro giorno a Parigi, a 90 anni compiuti, ne era capace, era, forse, il più bravo di tutti. Critico raffinato, ma anche inventore di storie tout-court.
Aveva cominciato come pittore, esperienza fondamentale, per poi dedicarsi a una narrazione caleidoscopica: aveva scritto romanzi molto belli, come Ritratto di un pittore, il suo primo, nel 1958. E poi raccolte di saggi critici dedicati alla letteratura, alla pittura, alla fotografia, alla politica. Senza dimenticare le sceneggiature, i testi teatrali, la conduzione televisiva in un programma per la Bbc, in cui le sue mise erano significative quanto le parole.
Nato a Londra nel 1926, per decenni ha vissuto in uno sperduto paese delle Alpi francesi coltivando in solitudine e con testardaggine la sua non specializzazione in un mondo che chiedeva sempre di più competenze specifiche su una materia, un secolo, un movimento. Era un convinto oppositore del capitalismo, in ogni situazione. Quando vinse il Booker Prize per il romanzo G., nel 1972, scelse di devolvere metà del premio in denaro alle Black Panthers di Trinidad per il loro impegno proprio contro il principale sponsor del premio accusato di sfruttare le forze di lavoro sull’isola. E ancora pochi mesi fa, lavorando alla riedizione de Il settimo uomo, a fine gennaio in libreria per Contrasto, scriveva: «Quando il capitalismo industriale si è trasformato in capitalismo speculativo, il mondo è cambiato, perché tutte le decisioni che agiscono sulla vita delle persone non vengono più prese dalle istituzioni capitalistiche rappresentative, bensì offshore dal capitalismo speculativo finanziario. I migranti tuttavia continuano a cercare scampo dalla povertà».
In questo caso il testo di Berger accompagna le fotografie di Jean Mohr e se dovessimo scegliere un ambito per cogliere la sua grandezza, dovremmo soffermarci proprio sul modo illuminante e poetico di spiegare l’atto del fotografare. Lui che era soprattutto un disegnatore, nel delineare la differenza con il disegno arriva all’essenza della sua teoria sulla fotografia attraverso aforismi, frasi perfette, metafore. A proposito del rapporto di queste due tecniche con il tempo scrive: «Un disegno contiene il tempo del suo farsi, e ciò significa che possiede un proprio tempo, indipendente dal tempo vivente di ciò che raffigura. La fotografia, invece, lo riceve quasi istantaneamente. [...] L’unico tempo contenuto in una fotografia è l’istante isolato di ciò che mostra».
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John Berger. L’infinito, qui e ora
Quest’ultimo portava un titolo splendido, qualcosa come vivere con le pietre. Di questo Berger non si sapeva molto. Eppure, quasi si fossero messi d’accordo tra loro, i diversi mittenti erano certi di una cosa: bisognava leggerlo perché, a qualsiasi oggetto si volgesse la sua scrittura, qualcosa d’impareggiabile accomunava testi tanto differenti. Al lettore non veniva proposto un sapere. Veniva donata un’immagine, una visione. Da ogni testo trapelava un calore insolito verso ciò che descriveva. Le sue immagini non avevano niente di patinato, anche quando si occupava di pubblicità. Non c’era lì niente di una pura rappresentazione. Invece, in maniera sorprendente, la sua scrittura accedeva a una dimensione che ancora oggi non saprei come altro definire se non plastica. Dal centro delle cose sorgeva una parola inaudita proprio perché queste venivano restituite alla loro plasticità. Erano lì, le si poteva finalmente toccare.
Nella scrittura di Berger le cose non sono mai meri oggetti di studio. Non c’è nulla di immobile, qui. Non sono immagini statiche. Sono sempre volti vivi a guardarmi. Vederli significa immergersi in loro, non ritornare indietro senza che qualcosa abbia nel frattempo trasformato lo sguardo di chi guarda. Le cose ci toccano. Solo così si fanno pensiero. Vedere e toccare risultano qui intrecciati in una trama insolubile. Vedere significa toccare con lo sguardo. Ma a questo primo movimento, se ne accompagna subito un altro: vedere non significa altro se non essere toccati dalla propria visione. Là qualcosa si spinge verso noi. Non si accede mai alla visione dalla comoda distanza tra lo spettatore e il mondo. Piuttosto è solo in quanto diventa vertigine che l’immagine si fa pensiero, lascia vedere il tempo che contiene. Diventa una presenza tattile, difficile da dire, ma indimenticabile. Perché, per quanta confusione visiva e motoria la sua vertigine possa produrre, è da quella visione che proviene un invito al viaggio, all’esperienza. Un appello all’ascolto del mondo. Della sua bellezza
Ma l’esperienza di questa bellezza non è mai una percezione. È invece qualcosa che impressiona il nostro stesso sguardo, che gli si imprime, lo tocca, magari ferendolo. È una commozione, certo, ma in quanto una commozione è sempre un’avventura carnale. Se qualcosa si vede, è unicamente in forza della carne dell’occhio, mai di una capacità astratta che l’uomo possa rivendicare per sé. Per questo stesso motivo, l’esperienza non è mai contenuta nel ricordo, ma unicamente nel cambiamento indissolubile che imprime sul nostro di vedere, di pensare, di vivere. Non c’è esperienza che nel cambiamento. Potrà essere lento o precipitoso, evidente o inapparente. In tutti i casi dovremmo imparare a farne i conti col tempo.
L’insegnamento di Berger ci porta con decisione in questa direzione. Non: ho visto qualcosa di bello. Ma la bellezza mi è apparsa, mi ha guardato, mi ha toccato. Questo significa: entrarne a farne parte, essere parte della bellezza che ci ha colto. Esserne cambiati e, in un certo senso, esserne salvati. Senza bisogno di alcun’altra salvezza se non di questa che sorge qui e ora dal mezzo delle cose. In mezzo alla vita che ha così occasione di incontrare se stessa.
Questo accade perché il tempo vive nelle cose. Porta un’altra vita, una vita segreta, al loro interno. Se le storie sono incommensurabili, è a ragione di tutto il tempo contenuto in loro. Il tempo della scrittura, il tempo del racconto, il tempo dell’ascolto, aprono a una dimensione inaudita. È per questo che in tutta la sua fragilità la voce della letteratura e del pensiero dev’essere potente. Non si lascerà piegare, né spiegare: è una dimensione intrattabile, in cui accelerazioni e rallentamenti, modulazioni e intensificazioni, fanno parte della capacità umana, oggi per lo più dimenticata, di trasformare il mondo, trasformandosi.
Se di qualcosa in particolare Berger è il pensatore, lo è certamente di quanto in ogni esperienza non è mai finito, ma continua ad accompagnarci, e con cui non si finisce mai di fare i conti. Nell’impermanenza del presente, nella relativa inapparenza con cui accadono fatti anche decisivi, questo cuore segreto dell’esperienza è quanto ci permette di continuare a guardare e, insieme, a imparare a guardare. Senza fine.
Proprio per questo Berger è anche capace di parlare di un tabù ormai consolidato. Non della morte – astrazione tra le mille di una vita che sempre di più tende a evitare la fatica di fare i conti con se stessa – ma dei morti. Di cui, ha scritto una volta, noi vivi non conosciamo la lingua. Né le nostre storie vengono lette da loro. Eppure c’è stato un tempo in cui i vivi non rinunciavano al loro dialogo con i morti. Ed erano così più vicini alla loro stessa vita.
Anche solo per dirlo, per pensarlo, era necessario inventare una scrittura, un altro genere. Al di là dei gerghi consolidati, anche quelli della militanza e dell’impegno. Non era una questione di stile, ma di un’urgenza: quella di far emergere parole che, nella loro estrema semplicità, potessero davvero vibrare dell’esigenza che le animava. Indubbiamente questo spingersi oltre è un tratto costante dell’avventura intellettuale di Berger, che ha nell’infinito la sua misura: andare oltre, suscitare un desiderio che apre a una scoperta, partire, accogliere l’invito all’esperienza…
Esistono pensatori che sono come Sherazade: sono voci che tengono sveglio il mondo, che lo tengono aperto rispetto alle immense domande che lo attraversano in ogni tempo. Ci sono pensatori la cui voce è una colonna del tempo. È già essa una forma di giustizia. Di resistenza contro quella che – parlando di Hieronymus Bosch, Marcos e della Guerra Fredda – Berger chiamava la grande disfatta del mondo. Sono rari e tanto più preziosi, questi pensatori. Ancora di più in un momento in cui è la vita stessa a sembrare così invivibile ed è facile perdere di vista le cose essenziali. Il loro canto è coraggioso senza arroganza. Si leva in alto perché sa stare vicino alle cose in basso. E per questo è la memoria del mondo. È un canto della perdita, perché solo lì può sorgere qualcosa di nuovo. È una canzone che porta nel riso il suo seme. È una mescolanza di durezza e tenerezza, le cui modulazioni ci sono entrambe così essenziali, come l’aria o la luce. È una benedizione.
John Berger appartiene indubbiamente a questa compagnia. Lo dobbiamo anche al suo canto se, malgrado tutto, riusciamo ancora a immaginare di stare in contatto con una realtà che o ci travolge o ci sfugge. È questo pensatore dell’infinito, di un infinito laico, umile, dimesso, ma non senza un suo singolarissimo coraggio, che oggi salutiamo e ringraziamo. Della sua capacità sorprendente di farci vedere come quest’infinito non è altrove, ma qui e ora.
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