domenica 1 luglio 2018

Diego Angelo Bertozzi: un'intervista rilasciata a Nicola Tanno sulla Belt and Road Initiative


di Nicola Tanno, risponde D.A. Bertozzi

La Nuova Via della Seta è il grande progetto della Cina del XXI secolo. Rifacendosi all’antica via commerciale del secondo secolo d.C. della dinastia Han, la Belt and Road Initiative (BRI) è un piano per la costruzione di infrastrutture di trasporto e logistiche che coinvolge decine di paesi di tutto il mondo per un valore di più di mille miliardi di dollari. Di questo ambizioso progetto ne ha parlato Diego Angelo Bertozzi in La Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta e la Cina globale (Imprimatur). In questa intervista Bertozzi, già autore di altri volumi sul paese orientale, ha discusso sulle prospettive della BRI e sul futuro della Cina. 


1) La Nuova Via della Seta viene descritto come un progetto aperto e in costante evoluzione. Che definizione daresti della BRI e quali sono per te i suoi scopi principali? 

Della nuova via della seta esistono diverse mappe –che di volta in volta segnalano l’aggiornamento delle rotte individuate o dei progetti in essere. La prima ufficiale è stata pubblicata nel 2013, mentre l’ultima versione è del dicembre del 2016 e porta alcune novità quali una descrizione più dettagliata dei corridoi terrestri, la copertura dell’intero bacino mediterraneo lungo una linea che prosegue, senza una meta precisa, verso l’Atlantico, così come a est si aprono rotte marittime verso l’Artico e oltre l’Australia. Queste aperture indefinite, così come la maggiore specificazione dei percorsi terrestri e marittimi, vanno a confermare la natura aperta dell’intero progetto, che non segue disegni e confini prestabiliti, che si adatta di volta in volta agli accordi conclusi e che non preclude possibili nuove collaborazioni. Tentativi, verifiche sul campo, cautela e metodi d'azione non rigidi permettono di saggiare tanto le potenzialità di possibili quanto di valutare le possibili contromosse di competitori strategici. Si capisce quindi il motivo per il quale a Pechino si preferisca – certo anche per motivi propagandistici – utilizzare la parola “progetto” anziché “strategia”, più sospettosa, politicamente impegnativa e produttrice di contrasti. Di fatto ancora oggi della via della seta si conoscono bene i punti di partenza mentre dove finisca resta un sorta di mistero visto che oltre a riguardare ormai un'ottantina di Paesi, tra i quali tutti i quattordici vicini e confinanti (India esclusa), la lista include ora quelli più lontani in Africa, Sudamerica e persino America Centrale. Ritengo appropriata la defizione di “processo” data alla Belt and Road Inititative dall’European Institute for Asian Studies, proprio alla luce dell’ampliamento geografico e dell’evoluzione dei progetti: “La Bri progredisce attraverso un processo evolutivo, abbiamo già visto la sua metamorfosi da un'iniziativa focalizzata esclusivamente sull'infrastruttura verso una che ora include anche componenti industriali, tecnologici, culturali e ambientali. Allo stesso tempo, la Bri ha aumentato il suo ambito geografico spostando la sua attenzione dalla storica regione della Via della Seta a tutto il mondo. Anche i responsabili delle politiche cinesi stanno preparando per la Bri obiettivi sempre più ambiziosi; dallo sviluppo economico alla costruzione di una comunità di destino condiviso per tutta l'umanità. Di conseguenza, l'unica costante che la Bri ha mostrato è la sua propensione al cambiamento”. Quanto agli scopi la letteratura si è da tempo concentrata sulla risposta all'eccesso di produzione, sulla scalata nella catena del valore globale, sulla messa in sicurezza delle proprie frontiere e su quella delle vie di rifornimento energetico, senza dimenticare che i più accaniti avversari dell'ascesa cinese in Occidente la dipingono come nient'altro che un progetto di dominio geopolitico ordito dal Partito comunista cinese. La mia opinione è che – accanto a tutto questo – ci troviamo di fronte ad un'iniziativa complessa che ridisegna gli equilibri di potere economico e politico a livello globale, spostandone il centro in Oriente e, nello specifico, a Pechino. Una marcia complessa e complessiva accompagnata da nuove organizzazioni e istituzioni quali la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la Shanghai Cooperation Organization, i Brics e il Silk Road Fund. Di certo negli ultimi tempi le questioni di sicurezza trovano sempre più importanza. 
2) Per anni e in silenzio, Pechino ha fatto dell’Africa il “laboratorio” della BRI. Quali sono stati i principi dell’impegno della Cina in questo continente e quali risultati se ne possono trarre? 

Non c'è dubbio: l’Africa può essere considerata per molti aspetti il continente nel quale la Cina popolare ha messo in pratica molte delle politiche diplomatiche e commerciali che stanno dando sostanza alla Belt and Road. Oggi la Cina popolare è il primo partner commerciale del continente, il primo finanziatore di infrastrutture, il primo per crescita in percentuale degli investimenti diretti e il terzo donatore di aiuti. Un “laboratorio”, appunto, che sebbene inizialmente non ufficialmente inserita nell’iniziativa, ha permesso e permette di sperimentare e adeguare le linee del proprio intervento. Che la prima base all’estero cinese sia in Africa non è una sorpresa, come non lo è il fatto che qui possa anche essere messa in discussione la politica di non-intervento, uno dei principi basilari della politica estera cinese fin dalla sua fondazione. Se la nuova via della seta è generalmente identificata con le infrastrutture, allora a maggiore ragione l’Africa è il “laboratorio” di Pechino da mezzo secolo. Ad essere elevato a simbolo di cooperazione e solidarietà durature è la citatissima ferrovia che collega la Tanzania e la Zambia inaugurata nel 1976: la messa a terra di binari per quasi 1.900 km, per un costo totale di circa 450 milioni di dollari, fu resa possibile dal lavoro quinquennale di 25mila operai e tecnici cinesi e 50mila colleghi africani. Certo, al di là della solidarietà e della comune appartenenza al fronte antimperialista, Pechino puntava a trovare nuovi alleati nella lotta al riconoscimento con Taiwan, ma quest’opera consentì allo Zambia di collegarsi al porto di Dar es Salaam e rompere così il “ricatto” economico della allora Rhodesia bianca e razzista. A questo colossale progetto seguì la meno ricordata autostrada di 900 km terminata due anni dopo in Somalia. Sono storie di un’epoca che pare lontanissima, con la Cina popolare, da poco uscita dalla rivoluzione culturale, impegnata a rivaleggiare con l’Urss che in Egitto aveva realizzato la diga di Assuan e a mostrare che era in grado di assumere impegni che l’Occidente rifiutava. Ma questa memoria, e non solo a livello ufficiale, resta viva.
Le tante infrastrutture – ferrovie, autostrade, ponti – che la Cina ha costruito e finanziato in Africa rispondono certamente anche ad una necessità economica di ri-localizzare parte della propria produzione manifatturiera a basso valore aggiunto, ma è fuor di dubbio che questo massiccio impegno non dia risposta solo a precisi interessi cinesi: sono diversi gli studiosi africani e occidentali - le cui opinioni riporto nel libro – che sottolineano come si stia operando una cesura con l'epoca coloniale che porrebbe termine ad una vera e propria strozzatura collegando tra loro i vari centri regionali. Collegamenti che, oltre a portare più prodotti cinesi in Africa e più beni grezzi africani in Cina, hanno il potenziale per facilitare il commercio e la produzione condivisa tra le diverse economie dell'Africa orientale e favorire in qualche modo un processo di integrazione regionale. Oltre al commercio, uno dei frutti della Bri in Africa potrebbe anche essere la crescita dell’urbanizzazione e l’espansione della classe media delle città grazie all’apertura di fabbriche locali che creano occupazione, diffondono tecnologia e abilità. 

3) La Cina quando investe non bada al rispetto dei diritti umani in base a un principio di non ingerenza. Non credi che la Cina si faccia promotrice dell’idea che uno Stato autoritario sia la miglior via per la crescita economica? 

Tra i principi guida della politica internazionale cinese – come detto in precedenza – ci sono quelli della non interferenza nella politica interna dei Paesi ed il rispetto della sovranità e delle autonome vie di sviluppo sociale ed economico. Questo – certo attirandosi forti critiche – ha comportato strette relazioni politiche economiche con governi accusati di pesanti violazioni di diritti umani. Credo comunque che sia poco sostenibile la tesi di una Cina nel ruolo di promotrice del modello autoritario come via per lo sviluppo economico, proprio quando l'esportazione – anche armata – del modello democratico occidentale ha prodotti giganteschi fallimenti. Semmai Pechino – certo sempre più consapevole dell'attratività esercitata dal proprio modello – è impegnata a livello internazionale, a partire dalle Nazioni Unite, a ridefinire ed allargare il campo dei diritti umani insistendo in particolar modo sul fatto che si debba tener conto del livello di sviluppo raggiunto da ogni Paese e che quelli ancora impegnati nella fuoriuscita dal sottosviluppo abbiano priorità diverse. In sostanza si mette in discussione l’egemonia occidentale sulla definizione dei diritti umani per privilegiare quelli “collettivi” in ambito economico e sociale. Ed anche in questo caso non mancano novità per quanto poco evidenziate dalla stampa occidentale: la risoluzione “The Contribution of Development to the Enjoyment of All Human Rights”, adottata nel giugno del 2017, su iniziativa cinese, dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU grazie all’appoggio di una settantina di Paesi, ci racconta di una crescente propensione ad affrontare il tema dei diritti umani in una prospettiva globale, non limitandola ai soli diritti politici e ampliandola al riconoscimento di quelli economico-sociali e subordinandola al livello di sviluppo economico raggiunto. Determinata a far sentire la propria voce nel campo della definizione e della promozione dei diritti umani, all’inizio del dicembre 2017 Pechino ha ospitato la prima edizione del “Forum Sud-Sud sui diritti umani” con la partecipazione di trecento rappresentanti provenienti da settanta Paesi in via di sviluppo. Nell’incontro Pechino ha ribadito la propria posizione con la sottoscrizione di una dichiarazione finale che insiste sul collegamento tra diritti umani e livello di sviluppo raggiunto da ogni singolo Paese: “Al fine di garantire l'accettazione e il rispetto universali dei diritti umani, la realizzazione dei diritti umani deve tenere conto dei contesti regionali e nazionali e dei contesti politici, economici, sociali, culturali, storici e religiosi. La causa dei diritti umani deve e può essere avanzata solo in conformità con le condizioni nazionali e le esigenze dei popoli. Ogni Stato dovrebbe aderire al principio di combinare l'universalità e la specificità dei diritti umani e scegliere un percorso di sviluppo dei diritti umani o un modello di garanzia adatto alle sue condizioni specifiche. Gli Stati e la comunità internazionale hanno la responsabilità di creare le condizioni necessarie per la realizzazione dei diritti umani, compreso il mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità”. Nel documento ad essere indicati come “diritti umani fondamentali” sono prima di tutto quelli economici e sociali: “I paesi in via di sviluppo dovrebbero prestare particolare attenzione alla salvaguardia del diritto alla sussistenza e al diritto allo sviluppo, in particolare per ottenere un tenore di vita decoroso, cibo adeguato, abbigliamento e acqua potabile pulita, il diritto alla casa, il diritto alla sicurezza, al lavoro, all’istruzione e il diritto alla salute e alla sicurezza sociale 

4) Negli Stati Uniti ridiventano maggioritarie, dopo più di un secolo, tesi isolazioniste e protezioniste. Credi che nella BRI sia soprattutto un progetto che vuole sostituire pacificamente gli Stati Uniti come potenza egemonica? 

La vocazione “anti-egemonica” è ancora ben radicata nella posizione ufficiale della Cina popolare, anche se sempre più diffusa si fa la riflessione sulla fine dell'egemonia occidentale sul sistema internazionale. Difficile però pensare alla Bri come via scelta da Pechino per imporre la propria egemonia. Semmai il successo di questa mastodontica iniziativa potrebbe portare ad un sistema di maggiore “condivisione” di responsabilità riportando in vita lo spirito iniziale delle Nazioni Unite, prima che si imponessero le divisioni della guerra fredda. Di fatto la modifica degli equilibri e dei rapporti di forza è già in atto se si pensa – come ricordato prima – agli sviluppo di nuove organizzazioni, istituzioni e fora internazionali che vedono Pechino al centro insieme ad altre potenze come Russia e India, oltre che ad attori regionali come Pakistan ed Iran. C’è chi, proprio partendo dall’immagine di una Cina come guida di un mondo che fino a pochi anni prima era abituato a seguire lo “Washington consensus”, si è spinto fino a parlare di un “secolo americano giunto al termine”. He Yafei, ex vice-ministro degli Esteri, parte dalla “svolta storica” determinatasi dalla crisi economica del 2008 per definire il 2017 come “punto di partenza di una nuova era” destinata inevitabilmente, passo dopo passo, a sostituire la rete di sicurezza militare attorno agli Usa con una di segno collettivo, cooperativo e comune: “il bilanciamento del potere mondiale è cambiato, la globalizzazione si è ulteriormente sviluppata e la reputazione dell'America è diminuita drasticamente nell'era post-americana, dimostrando che l'alleanza militare globale supportata dagli Stati Uniti non può mantenere la pace e la tranquillità del mondo, né può salvaguardare la propria sicurezza”. Il quadro della riflessione cinese sul nuovo ruolo del Paese è tuttavia più complesso, con posizioni che vanno dalla sfiducia rispetto ad un ordine internazionale plasmato dall’Occidente, alla richiesta di assumere sempre maggiori responsabilità, passando per un maggioritario e pragmatico “multilateralismo selettivo” che predilige la collaborazione sul piano economico e finanziario; altre persino “riluttanti” di fronte a compiti e responsabilità giudicati troppo pesanti per una potenza in vistosa ascesa ma ancora impegnata nella risoluzione di enormi problemi economici e sociali, priva di una mentalità da grande potenza e non ancora in grado di eguagliare gli Usa in termini di forza globale. 

5) Xi appare come un leader molto più attivo nella politica internazionale rispetto ai suoi predecessori. Stiamo assistendo a un superamento della politica del “basso profilo” imposta da Deng? Quali sono i rischi del nuovo interventismo cinese? 

Quella che il gruppo dirigente guidato da Xi Jinping abbia mandato in soffitta la politica internazionale del basso profilo di Deng è opinione assai diffusa e che prende spunto proprio dagli sviluppi della Belt and Road e dalla sue conseguenze come l'apertura a Gibuti di un primo avamposto militare all'estero e l'attenzione – si pensi a Siria e Afghanistan – ad attenzionare in modo particolare le minacce terroristiche nel Medio Oriente offrendo collaborazione ed assistenza politica e militare. Ritengo che le linee guida che determinarono la svolta denghista a fine anni Settanta restano valide proprio perché si sono adeguate – e con esse la prassi – al modificarsi del quadro internazionale. Come allora anche oggi la Cina popolare necessita per il raggiungimento dei suoi obiettivi di un ambiente pacifico, privo di tensioni eccessive, e di una collaborazione tra Stati ed organizzazioni; non serve alcuno stravolgimento dell’attuale sistema internazionale – nel quale la Cina è cresciuta e si sta sviluppando – quanto semmai un suo adeguamento all’emergere di nuove potenze regionali e alle richieste di una popolazione mondiale che risiede fuori dall’occidente. Accusata da più parti di rifuggire alle proprie responsabilità, oggi la Cina si fa “globale” per difendere quei principi di collaborazione internazionale e apertura dei mercati che l’emergere delle tentazioni isolazioniste e protezionistiche mettono in discussione. Ora c’è la consapevolezza che al proprio ruolo non si può fuggire e in questo è stato chiaro – seppur in brevi passaggi – lo stesso Xi Jinping nel suo lungo discorso di apertura all'ultimo congresso del Partito comunista cinese quando ha indicato al proprio paese il futuro immediato di “costruttore della pace globale, di contribuente attivo allo sviluppo della governance globale e di protettore dell’ordine internazionale”. Benché generalmente ritenuto l’artefice di un drastico cambio di passo nel segno dell’assertività in politica estera, Xi si muove lungo un percorso che già il predecessore Hu Jintao aveva tracciato nel suo discorso di apertura al 18° congresso del 2012 invitando la Cina ad “assumere un ruolo attivo negli affari internazionali e a lavorare per rendere l’ordine e il sistema internazionali più equi e giusti”. Una continuità che potremmo retrodatare ancora di più, spingendoci fino agli anni Settanta proprio quando si avviava alla conclusione la fase della rivoluzione culturale e si apriva la strada alla politica di riforma e apertura: nel 1974 Pechino appone la sua firma al programma d’azione per la creazione di un nuovo ordine economico internazionale, adottato dalla sesta sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, teso a favorire un riequilibrio delle scambi economici più favorevole ai Paesi in via di sviluppo e una nuova regolamentazione del governo dell’economia globale. Un programma che, basato sul ruolo centrale dello Stato e dell’economia pubblica, venne poi superato dall’ondata liberista via via consolidatasi a partire dalla fine degli anni Ottanta. 

6) Nonostante le rassicurazioni di Pechino, il Pentagono afferma nei suoi ultimi documenti che la Cina rappresenta la sua principale minaccia. È pensabile che un’avanzata economica (e diplomatica) cinese non sorretta da un altrettanto forte struttura militare, eviterà uno scontro diretto con gli Stati Uniti? 

Ci sono pochi dubbi sul fatto che agli occhi di Washington la Cina – ancor più della Russia – sia vista come il vero e proprio avversario strategico sul piano globale. Lo mostrano appunto tanto gli ultimi documenti ufficiali sulla sicurezza quanto le operazioni della marina Usa nelle acque del Mar cinese meridionale, il tentativo di riattivare meccanismi e alleanze militari risalenti alla guerra fredda come il Quad (Usa-India-Giappone-Australia) oppure la maggiore attenzione rivolta ai rapporti politici e militari con Taiwan. Nel primo documento che raccoglie la nuova strategia di sicurezza dell’amministrazione Trump – il National Security Strategy of the United States of America (dicembre 2017) - diverse sono le accuse rivolte a Pechino, oltre a quella ormai abituale di furto di proprietà intellettuali, con toni che ricordano un clima da guerra fredda (mondo libero contro mondo della repressione). In quanto “potenza sfidante” e “revisionista” la Cina punta a plasmare il mondo imponendo valori antitetici a quelli degli Stati Uniti, minacciando la sovranità dei piccoli Paesi e promuovendo, attraverso investimenti all’estero, un modello politico incentrato sul ruolo direttivo dello Stato in economia. Per quanto non esplicitato, il riferimento alla Belt and Road è presente in diversi punti del documento con accenni ovviamente preoccupati sulla sua valenza strategica in termini di aumento dell’influenza cinese, soprattutto in Asia: “Gli investimenti infrastrutturali e le strategie commerciali della Cina rafforzano le sue aspirazioni geopolitiche”. Un tentativo di accerchiamento militare al quale Pechino ha risposto e risponde modernizzando la propria struttura militare e dando priorità alla marina (attualmente è in costruzione la terza portaerei). Ad evitare la possibilità che lo scontro si sposti dal piano politico e commerciale a quello militare, oltre alla necessità di Pechino di un clima di pacifica collaborazione in Asia per proseguire sulla strada delle riforme economiche e sviluppare la Bri, c'è anche la spinta di parte del capitale e del mondo politico Usa di avviare una proficua collaborazione proprio nell'ambito della Belt and Road: si pensi alla recente firma di un accordo tra il cinese Silk Road Fund e la General Electric per lo sviluppo di una piattaforma d’investimenti congiunta in infrastrutture energetiche. 

.7) In nome del principio del mutuo beneficio, Pechino si rivolge a tutti, anche in Medio Oriente, sempre in chiave economica, quasi mai in quella militare. Ma è possibile, per una forza sempre più grande, non cadere prima o poi nelle contraddizioni profonde di quest’area, giungere a una rottura con alcuni partner e finanche impegnarsi militarmente? 

Pechino ha un imperativo: la stabilità di tutta l'area Mediorientale (Asia occidentale), indispensabile per la riuscita della Bri, sia nella variante terrestre che in quella marittima. I tanti progetti in campo, dalla Penisola Arabica alla Turchia, obbligano ad una politica diplomatica attenta, prudente e che pur non rinunciando a rapporti privilegiati (si pensi all'Iran) punta, quindi, maggiormente sulla collaborazione economica. La Bri in questo si dimostra un utile e vantaggioso strumento flessibili perché permette di stringere accordi diversificati in base al partner, dagli sviluppi ferroviari e portuali a quelli finanziari passando per la collaborazione in ambito di sicurezza. Se da una parte non è pensabile una rottura con alcuni partner, dall'altra è indubbio che esigenze di sicurezza – il terrorismo di matrice islamica - spingono e spingeranno Pechino ad intervenire maggiormente nell'area come avvenuto in Siria accompagnando l'appoggio diplomatico e l'assistenza militare al governo legittimo con iniziative volte a favorire il dialogo tra le parti e l'impegno alla ricostruzione delle strutture del Paese. Nelle file dell'Isis erano presenti centinaia di militanti di etnia uigura che potrebbero ritornare in Xinjiang e gettare nuova benzina sul fuoco separatista in una regione cruciale proprio per la riuscita della Bri. 

8) Nel libro hai citato autori che sottolineano che la Germania vede la Cina più come un rivale strategico che come un partner e che i paesi dell’Europa orientale – proprio quelli più atlantisti e anticomunisti – stiano reagendo con entusiasmo alla BRI. La BRI sta dividendo l’Unione Europea? Esiste una politica comunitaria in risposta agli investimenti di Pechino? 

La recente visita della Merkel a Pechino ha ribadito la necessità della collaborazione tra i due Paesi - la Germania è la prima meta Ue degli investimenti cinesi che si concentrano soprattutto su acquisizioni per tecnologia e know how da utilizzare in patria - anche se non mancano distanze sul piano politico (diritti umani, questione tibetana). Non stupisce quindi che sia stata proprio Berlino, e con esso Parigi e Roma, a preoccuparsi per le acquisizioni cinesi in settori ad altro contenuto tecnologico - l'allarme è scattato con è scattato con l’acquisizione di una quota del 35% da parte della cinese Midea, nonostante la forte contrarietà del governo Merkel, del costruttore tedesco di robot Kuka, fiore all’occhiello nel processo di automazione industriale - a spingere con decisione per l’introduzione di un regolamento di controllo europeo sugli investimenti cinesi. Il progetto presentato dalla Commissione europea nel settembre 2017 – una sorta di “scudo protettivo” – allarga il novero dei settori industriali nei quali i governi nazionali possono bloccare operazioni d’acquisto da parte di Pechino, pur non imponendo ad adottare regolamenti - una “golden power” a livello continentale - per procedere al blocco. Nella sostanza il meccanismo delineato non prevede alcuna procedura vincolante, ma l’attivazione di un procedimento di consultazione tra Stati e con la Commissione europea in caso di investimenti che mettano a rischio sicurezza o influiscano su programmi o progetti europei. La mancanza di vincoli e obblighi nel processo di protezione è il frutto, ancora una volta, di un compromesso con i Paesi che sono interessati agli investimenti cinesi. Un risultato al di sotto delle attese se si pensa che una sorta di modello di riferimento è dato dal Comitato di controllo sugli investimenti esteri negli Stati Uniti che mette sotto controllo tutti gli investimenti cinesi e può influire sulla decisione di blocco. É indubbio che la Cina negli ultimi anni – anche se gli investimenti sono ancora a livelli bassi – abbia messo piede nell'Europa centrale e orientale sfruttando anche la necessità di investimenti infrastrutturali dei diversi Paesi e stretto significativi rapporti con Ungheria e Grecia, entrambi membri dell'Unione Europa. Dal punto di vista politico il timore è che la presenza di Pechino, delle sue risorse economiche, si trasformi anche in influenza politica in alcuni dossier caldi che coinvolgono l’Unione Europea. Qualche segnale in questo senso, effettivamente, non manca: nel luglio del 2016 Grecia ed Ungheria hanno evitato che la dichiarazione Ue sulle rivendicazioni sul Mar cinese meridionale facesse diretto riferimento a Pechino; nel marzo del 2017 l’Ungheria ha impedito che la Ue firmasse come blocco unico un documento di condanna su presunti casi di tortura ai danni di avvocati detenuti in Cina, mentre nel luglio successivo la Grecia di Tsipras ha bloccato una dichiarazione dell’Unione europea, in seno al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, di critica sulla situazione dei diritti umani sempre in Cina. 

9) C’è un po’ d’Italia nella BRI? Dove sono diretti gli investimenti principali? Concordi con l’opinione di Giuliano Marrucci, da te intervistato, che ritiene che nel nostro paese il “Sistema Paese” non ha capito l’importanza del progetto? 

Situata in mezzo al Mar Mediterraneo, ovvero il terminale occidentale della via Marittima della seta del 21° secolo, l'Italia è considerata dai leader cinesi una risorsa fondamentale per la realizzazione complessiva della Belt and Road e il successo dei collegamenti con l’Europa centrale, orientale e settentrionale grazie ai suoi porti e alle sue ferrovie. La Cina è ormai una potenza mediterranea grazie ad una presenza logistica ed economica che non si è certo limitata all’acquisto del porto del Pireo: ci sono la partecipazione da parte di Cosco nella joint venture che gestisce il terminal container del Canale di Suez, l’accordo per la costruzione in Algeria di un centro di trasbordo merci nel porto di Sarsal e l’acquisizione del 65% del Kumport terminal in Turchia, vicino a Istanbul, futura porta sul Mediterraneo della via terrestre asiatica. La centralità italiana è stata evidenziata recentemente dall’ambasciatore italiano a Pechino Ettore Sequi: dal Pireo per arrivare all’Europa centrale e occidentale, bisogna costruire infrastrutture che hanno un costo elevato e che attraversano una serie di Paesi, alcuni di questi europei con precise regole di procurement e in questo quadro il Belpase vanta un sistema portuale efficace, con procedure di sdoganamento tra le più veloci in Europa, la vicinanza al centro Europa, ed interconnessioni ferroviarie già pronte ed efficaci da mettere a disposizione dei cinesi. E l’Italia pare proprio avere consapevolezza del proprio ruolo da giocare, come dimostrano l’ingresso come Paese fondatore nella AIIB, la partecipazione del primo ministro Gentiloni – unico capo di governo del G7 presente – al Belt and Road Forum di Pechino e la vera e propria esplosione di iniziative, convegni e giornate di studio che a partire dal 2017 hanno puntellato tutto il Paese, e dai molti articoli e approfondimenti ospitati da riviste e quotidiani, persino quelli locali. Prima guardata con attenzione – e portata avanti – dalla “comunità degli affari”, la Bri ha ormai raggiunto i luoghi del dibattito politico, sfiorando persino la recente campagna elettorale. L'attenzione cinese si dirige, quindi, verso i porti di Trieste e Genova grazie alle loro interconnessioni ferroviarie. La Cina ha messo le mani anche sul porto di Vado Ligure dove è in via di ultimazione una delle “opere tra le più attese in Italia”: il nuovo terminal container che vede Cosco detenere il 40% delle quote e Qingdao port international development il 9,9%. Fondamentale sarà il collegamento ferroviario: dalla stazione di Savona - questa è la previsione – partiranno treni lunghi 450 metri che garantiranno il collegamento con gli interporti dell’Italia settentrionale, aprendo nuovi mercati in Francia, Svizzera, Germania e Austria. Nel giugno del 2017 Trieste e la tedesca Duisburg hanno sottoscritto un accordo di "partnership strategica" proprio sulla nuova Via della seta. Firmato dal presidente dell'Autorità portuale di Trieste Zeno D'Agostino e da Erich Staake, presidente di Duisport, l'accordo apre a Duisburg - il più grande hub internazionale attivo in Europa e porta di accesso intermodale con collegamenti fluviali e ferroviari in ogni angolo del continente, dal Mar Baltico al Mediterraneo, ma anche alla Cina - un collegamento verso il Mediterraneo e il corridoio Europa/Turchia/Iran. Secondo AdriaPorts "quasi 25 treni a settimana collegano Duisburg al nord della Cina, mentre Trieste è collegata alla via della seta marittima attraverso il canale di Suez. Con questo accordo, lo scalo della regione Friuli Venezia Giulia e il porto situato alla confluenza del Reno e della Ruhr (due dei principali fiumi navigabili in Europa) saranno in grado di aumentare il traffico ferroviario all'interno delle piattaforme logistiche secondo ad un progetto comune".Ad essere tagliati fuori dai progetti di collegamento marittimo della Bri, come è stato recentemente rilevato, sarebbero, invece, i porti dell’Italia meridionale, nonostante la vicinanza geografica al Canale di Suez e la posizione strategica (si pensi a quello siciliano di Augusta). A mancare è il quadro di connettività e infrastrutture di cui godono i porti settentrionali. Inoltre l'Italia è presente già su alcuni teatri della Bri con importanti realtà produttive. Ferrovie italiane sono coinvolte in Iran nel progetto di costruzione della ferrovia tra Teheran e Isfahan, e hanno acquisito il 100% di Trainose, il principale operatore ferroviario in Grecia che fornisce servizi di trasporto merci e passeggeri a livello extraurbano, regionale, nazionale e internazionale, compresi servizi di logistica. Sono operazioni che segnano l’ingresso in contesti in espansione per quanto riguarda il futuro dei collegamenti e degli scambi fra Asia ed Europa, in special modo la seconda vista l’importanza dello scacchiere balcanico. Inoltre, nel dicembre del 2017, Italferr (Gruppo FS Italiane) e il colosso statale cinese Beijing National Railway Research & Design Institute of Signal & Communication (CRSCD), leader nella produzione di tecnologie, prodotti e servizi nel settore rail e specializzato nei sistemi di controllo e segnalazione ferroviaria, hanno siglato un Memorandum of Understanding con l’obiettivo - come da comunicato ufficiale - di ampliare le alleanze internazionali per competere su vari mercati.

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