martedì 24 marzo 2020

Il solito


Inconfondibile voce del ’900
Alberto Arbasino (1930-2020). Il profilo di uno dei maggiori autori italiani del nostro tempo, infallibile nel dare al parlato una qualità letteraria e grande reinventore di generi
Gianluigi Simonetti Domenicale 29 3 2020


«Siamo qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse però quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui. Arrivato a casa sua (...) ho appena fatto in tempo a lasciar giù le mie robe. Una doccia svelta. A dormire: erano le quattro del mattino, lungo l’Aurelia m’ero fermato a far delle piogge nei pineti neri fra Viareggio e Pisa. Fratte, ginepri, mirti, giochi molto sportivi. E già quasi estivi, tutti: e così vanesii, così narcisi... “Tante coccole? molto aulenti? certe magari aulentissime?”...Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle: un after-shave di caprifoglio appena fiorito, splendido».


A rileggerla oggi, a pochi giorni dalla morte di Arbasino, la prima pagina di Fratelli d’Italia rivela l’essenziale del suo stile - ciò che è destinato a sopravvivergli e a farne uno dei più importanti e originali scrittori del secondo Novecento italiano. Si sente innanzitutto la sua inconfondibile voce (come la si sente in ogni singola pagina di ogni suo singolo libro): tono conversevole e acuto, estroverso e preciso, infallibile nel trasformare in parola letteraria la lingua parlata, la chiacchiera, il gergo, il codice interno della borghesia media e alta. E poi la velocità del pensiero, la mobilità delle citazioni e dei pensieri (che la sintassi spesso condensa in elenchi di idee e di modi di dire): la vita intera è ridotta a cultura, con tutti i rischi (e le rimozioni) che questo comporta. Si coglie, infine - ed è un’altra forma di mobilità - la capacità arbasiniana di muoversi con disinvoltura fra terre diverse e lontane: la letteratura, stella polare, in lui si circonda - lo ha notato Roberto Calasso - di altre costellazioni essenziali (il cinema, la Scala, le compagnie di giro; i reportage dai luoghi della cultura - Londra Parigi, l’America). Da un lato la tradizione letteraria, non solo italiana, assimilata in profondità - qui i rinvii alla Pioggia nel pineto di D’Annunzio («Tante coccole? molto aulenti? certe magari aulentissime?»); dall’altro, una sensibilità postmoderna, vorace di ogni sapere, che della tradizione moderna offre il rovescio parodico e pop: per cui la retorica dannunziana si mette al servizio di un’antiretorica immagine camp («Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle»). Last but not least, ecco un eroe intellettuale giocoso e senza complessi, molto diverso da quello suggerito in quegli anni da Pasolini o Penna o Testori: alla loro omosessualità tragica e autobiografica, forte del suo sentirsi esclusa e sensibile al mito, Arbasino oppone un’omosessualità ironica, incline ad escludere gli altri; leggera, integrata, attratta dal presente. Incapace, nel bene e nel male, di ingenuità e di dolore.


Prima di Arbasino, questa identità stilistica nella nostra narrativa non c’era; dopo di lui sarebbe diventata moneta corrente - spesso spogliata di molte mediazioni e mescolata alla vita (come per esempio in Tondelli), talvolta semplificata all’eccesso e alleggerita delle sue implicazioni. Il talento di Arbasino ha incontrato, inciampandoci dentro, una faglia della storia: la sua generazione, che è poi quella di Eco e Sanguineti, è stata l’ultima a formarsi nel culto umanistico della letteratura - l’ultima che a vent’anni d’età aveva già letto tous les livres («uno al giorno e magari due o tre»); ma anche la prima a confrontarsi davvero con l’avvento della comunicazione di massa. Dai padri o fratelli maggiori - come Gadda o Moravia - ha imparato a godere della «bellezza stilistica della parola scritta, specialmente in lingua italiana» (così diceva Parise); dalla cultura del boom economico ha imparato a considerare plausibile e utile più o meno ogni segno, anche il più inautentico e kitsch, e a farne materia di arte.

C’è chi con questa voracità ha giocato al ribasso - ma Arbasino è stato il più rigoroso, o il più snob: il più indifferente al lettore, il più lontano dalla politica, il più soddisfatto, credo, di se stesso. Di qui la puntuta ironia verso tanti suoi compagni di strada (ad esempio Eco con i suoi bestseller, «fornitore di oggetti apparentemente complessi»); di qui la resistenza a ripetere le formule narrative degli inizi (Le piccole vacanze, L’anonimo lombardo), che avrebbero potuto avvicinarlo a un pubblico ampio. Da un certo punto in poi Arbasino ha preso a mescolare le forme più diverse, con qualche preferenza per quelle preletterarie e paraletterarie: diario, lettera, intervista, conversazione, recensione, giornale di viaggio, reportage culturale. «Per scrittori così, che tendono a praticare tutti i generi e a reinventarli, più che l’opera conta lo spettacolo dell’autore in attività», nota giustamente Berardinelli; dagli anni Settanta in poi, l’opera di Arbasino è stata soprattutto la sua voce in scena.


Mentre il romanzo si abbassava, con suo grande scontento, «al livello del fruitore», Arbasino si concentrava sulla critica della cultura e della società: a volte esagerando in collezionismo ed erudizione («nove decimi del suo sistema di riferimenti e allusioni», ammoniva Fortini, «è destinato a diventare muto o bisognoso di note filologico-storiche»); a volte interpretando con il coraggio della leggerezza quel ruolo di “scrittore civile” che da noi è spesso a rischio di moralismo e di enfasi. Basta rileggere In questo Stato, scritto a caldo nei giorni del sequestro Moro, per misurare la diversità di Arbasino, il suo scarto dagli scrittori impegnati di ieri e dai nuovi impegnati di oggi. Mentre tutti si concentrano sui fatti, lui riflette sulle parole; mentre tutti sostengono una tesi e scelgono una parte, Arbasino sospende il giudizio e ne ha per tutte le fazioni. Mentre tutti si nascondono dietro la serietà del terrorismo, lui li smaschera attraverso l’ironia («quella ironia tanto citata e invocata», sottolinea in In questo Stato, «ma poi, quando la si incontra davvero, detestata e sfuggita, perché fa terrore»). © RIPRODUZIONE RISERVATA










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