martedì 24 marzo 2020
Il solito
Inconfondibile voce del ’900
«Siamo
qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di
Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se
si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse
però quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un
momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui. Arrivato a
casa sua (...) ho appena fatto in tempo a lasciar giù le mie robe. Una
doccia svelta. A dormire: erano le quattro del mattino, lungo l’Aurelia
m’ero fermato a far delle piogge nei pineti neri fra Viareggio e Pisa.
Fratte, ginepri, mirti, giochi molto sportivi. E già quasi estivi,
tutti: e così vanesii, così narcisi... “Tante coccole? molto aulenti?
certe magari aulentissime?”...Macché, botte da urbi et orbi, e un gran
buon odore di gocciole e sventole sulla pelle: un after-shave di
caprifoglio appena fiorito, splendido».
A rileggerla oggi, a pochi giorni dalla morte di Arbasino, la prima pagina di Fratelli d’Italia
rivela l’essenziale del suo stile - ciò che è destinato a
sopravvivergli e a farne uno dei più importanti e originali scrittori
del secondo Novecento italiano. Si sente innanzitutto la sua
inconfondibile voce (come la si sente in ogni singola pagina di ogni suo
singolo libro): tono conversevole e acuto, estroverso e preciso,
infallibile nel trasformare in parola letteraria la lingua parlata, la
chiacchiera, il gergo, il codice interno della borghesia media e alta. E
poi la velocità del pensiero, la mobilità delle citazioni e dei
pensieri (che la sintassi spesso condensa in elenchi di idee e di modi
di dire): la vita intera è ridotta a cultura, con tutti i rischi (e le
rimozioni) che questo comporta. Si coglie, infine - ed è un’altra forma
di mobilità - la capacità arbasiniana di muoversi con disinvoltura fra
terre diverse e lontane: la letteratura, stella polare, in lui si
circonda - lo ha notato Roberto Calasso - di altre costellazioni
essenziali (il cinema, la Scala, le compagnie di giro; i reportage dai
luoghi della cultura - Londra Parigi, l’America). Da un lato la
tradizione letteraria, non solo italiana, assimilata in profondità - qui
i rinvii alla Pioggia nel pineto di D’Annunzio («Tante coccole?
molto aulenti? certe magari aulentissime?»); dall’altro, una sensibilità
postmoderna, vorace di ogni sapere, che della tradizione moderna offre
il rovescio parodico e pop: per cui la retorica dannunziana si mette al
servizio di un’antiretorica immagine camp («Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle»). Last but not least,
ecco un eroe intellettuale giocoso e senza complessi, molto diverso da
quello suggerito in quegli anni da Pasolini o Penna o Testori: alla loro
omosessualità tragica e autobiografica, forte del suo sentirsi esclusa e
sensibile al mito, Arbasino oppone un’omosessualità ironica, incline ad
escludere gli altri; leggera, integrata, attratta dal presente.
Incapace, nel bene e nel male, di ingenuità e di dolore.
Prima di
Arbasino, questa identità stilistica nella nostra narrativa non c’era;
dopo di lui sarebbe diventata moneta corrente - spesso spogliata di
molte mediazioni e mescolata alla vita (come per esempio in Tondelli),
talvolta semplificata all’eccesso e alleggerita delle sue implicazioni.
Il talento di Arbasino ha incontrato, inciampandoci dentro, una faglia
della storia: la sua generazione, che è poi quella di Eco e Sanguineti, è
stata l’ultima a formarsi nel culto umanistico della letteratura -
l’ultima che a vent’anni d’età aveva già letto tous les livres
(«uno al giorno e magari due o tre»); ma anche la prima a confrontarsi
davvero con l’avvento della comunicazione di massa. Dai padri o fratelli
maggiori - come Gadda o Moravia - ha imparato a godere della «bellezza
stilistica della parola scritta, specialmente in lingua italiana» (così
diceva Parise); dalla cultura del boom economico ha imparato a considerare plausibile e utile più o meno ogni segno, anche il più inautentico e kitsch, e a farne materia di arte.
C’è chi con questa voracità ha giocato al ribasso - ma Arbasino è stato
il più rigoroso, o il più snob: il più indifferente al lettore, il più
lontano dalla politica, il più soddisfatto, credo, di se stesso. Di qui
la puntuta ironia verso tanti suoi compagni di strada (ad esempio Eco
con i suoi bestseller, «fornitore di oggetti apparentemente complessi»);
di qui la resistenza a ripetere le formule narrative degli inizi (Le piccole vacanze, L’anonimo lombardo),
che avrebbero potuto avvicinarlo a un pubblico ampio. Da un certo punto
in poi Arbasino ha preso a mescolare le forme più diverse, con qualche
preferenza per quelle preletterarie e paraletterarie: diario, lettera,
intervista, conversazione, recensione, giornale di viaggio, reportage
culturale. «Per scrittori così, che tendono a praticare tutti i generi e
a reinventarli, più che l’opera conta lo spettacolo dell’autore in
attività», nota giustamente Berardinelli; dagli anni Settanta in poi,
l’opera di Arbasino è stata soprattutto la sua voce in scena.
Mentre il romanzo si abbassava, con suo grande scontento, «al livello
del fruitore», Arbasino si concentrava sulla critica della cultura e
della società: a volte esagerando in collezionismo ed erudizione («nove
decimi del suo sistema di riferimenti e allusioni», ammoniva Fortini, «è
destinato a diventare muto o bisognoso di note filologico-storiche»); a
volte interpretando con il coraggio della leggerezza quel ruolo di
“scrittore civile” che da noi è spesso a rischio di moralismo e di
enfasi. Basta rileggere In questo Stato, scritto a caldo nei
giorni del sequestro Moro, per misurare la diversità di Arbasino, il suo
scarto dagli scrittori impegnati di ieri e dai nuovi impegnati di oggi.
Mentre tutti si concentrano sui fatti, lui riflette sulle parole;
mentre tutti sostengono una tesi e scelgono una parte, Arbasino sospende
il giudizio e ne ha per tutte le fazioni. Mentre tutti si nascondono
dietro la serietà del terrorismo, lui li smaschera attraverso l’ironia
(«quella ironia tanto citata e invocata», sottolinea in In questo Stato, «ma poi, quando la si incontra davvero, detestata e sfuggita, perché fa terrore»). © RIPRODUZIONE RISERVATA
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento