venerdì 7 ottobre 2011

Postmodernismo e New Realism: il terzo assente

Filosofia Vattimo, pensiero debole, e Ferraris, new realism, cercano di spiegare cosa succede a Roma partendo da posizioni radicalmente opposte. Ma entrambi si «dimenticano» dell’importanza della dialettica
Berlusconi esiste o no? Dipende dall’ermeneutica
di Mico Capasso (l’Unità, 05.10.2011)

Le vie di mezzo sono le uniche che non portano a Roma», scriveva Schönberg, celebre compositore, teorico della dodecafonia e della dissonanza. D’altra parte, la fecondità di un dibattito come quello in corso sul New Realism si misura proprio sull’asprezza delle posizioni antitetiche in gioco. Da tempo, la posizione di Maurizio Ferraris lo vede contrapposto al suo antico maestro, Vattimo, rappresentante di una linea di pensiero dominante, l’ermeneutica, di cui il suo «pensiero debole» è versione assai accreditata. La questione è rimbalzata sui giornali per le sue ricadute politiche, in particolare per la lettura del berlusconismo. I due filosofi spiegano infatti lo stesso fenomeno partendo da posizioni radicalmente opposte. Senza vie di mezzo cercano di spiegare cosa succede a Roma.
Da una parte, ed è la posizione di Vattimo e dell’ermeneutica, vale l’istanza secondo cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni». Dall’altra, ed è la posizione di Ferraris e della proposta insita nel suo New Realism, è necessario che i fatti ci siano perché le interpretazioni possano essere smentite (e Berlusconi sbugiardato). Ferraris sprona dunque la filosofia a mettere in moto quella «ragione pigra», come la chiamava Kant, che si è ambientata in un mondo fatto di interpretazioni, rinunciando a porre il problema della loro verificabilità. Nello spirito di una ricerca della verità e non di una sterile polemica politica à la page, il lavoro di Ferraris sprona la comunità ermeneutica e storicistica italiana a ritornare, secondo il noto adagio fenomenologico, alle «cose stesse». Ma l’ermeneutica dice proprio ciò Ferraris vuol farle dire, o il filosofo del New Realism ne attacca, peraltro giustamente, solo una versione assai indebolita? È davvero possibile che l’ermeneutica, al di là dei discorsi che ha prodotto e che, nella critica di Ferraris, ne fanno un sintomo del postmoderno, sia stata così ingenua da barattare la ricerca della verità per un relativismo che non ha più la minima presa o pretesa sulla realtà?
Prendiamo una proposizione semplice: «piove». La verità o falsità di questa proposizione è qualcosa che chiunque può accertare semplicemente guardando fuori dalla finestra. Che piova o non piova è un fatto. Sin qui la reductio di Ferraris. L’ermeneuta però non concede neppure questo, ma ed è questo il punto essenziale non perché non creda alla verificabilità della proposizione, non perché creda che tutto è relativo e che quindi per lui potrebbe non essere pioggia quella che è pioggia per un altro, ma perché pensa che per poterne dirimere la verità, o il senso di verità, occorre guardare allo sfondo interpretativo che si nasconde e su cui si staglia l’enunciato, alle ragioni per cui è prodotto e ai suoi effetti di senso. Con i vecchi ma sempre istruttivi paradossi greci si potrebbe ad esempio chiedere quando finisce la pioggia o dove comincia un temporale. Probabile che in una foresta amazzonica le rilevazioni percepite dal senso comune siano diverse dalle nostre, perché legate ad altre forme di vita e ad altre condizioni di esistenza, senza per questo essere false.
D’altra parte, l’insufficienza del dato salta agli occhi, quando per esempio, in un pubblico dibattito, si ragiona «dati alla mano», e però questi dati dicono gli uni il contrario degli altri. Da un simile impasse non si esce additando il mondo com’è fuori dalla finestra, ma comprendendo le modalità interpretative di quei dati (che in verità dovrebbero chiamarsi «risultati»).
Come sono stati raccolti quei dati? Su quali campioni? Più che di un’esibizione di dati, è in gioco un conflitto di interpretazioni, dove alla fine soltanto quella che descriverà il paese nella sua complessità risulterà più vera. Non bastano ad esempio i dati sulla crescita o sul prodotto interno lordo, ma solo incrociando questi dati con la sperequazione della ricchezza e con l’aumento della forbice tra ricchi e poveri si otterrà un’immagine più veritiera del Paese.
La proposta ermeneutica sta dunque non nel negare i fatti e inventarsi le interpretazioni, ma nella consapevolezza che i fatti, per sé soli, non dirimono nulla (se non inutili dispute meteorologiche, tipo se fuori piove o c’è il sole), e anzi spesso celano, dietro la loro apparente datità, un’operazione di potere tanto più ingannevole in quanto si dissimula nella forma della verità a portata di mano. Anzi, proprio rispetto a chi ci dice che il mondo è quello che è, la filosofia, nella sua originaria vocazione politica, ha bisogno di un’iniezione di dialettica. Cioè di quella cura hegelo-marxiana, coppia non a caso assente da questo dibattito, che riemerge con la forza di un rimosso quando il pensiero, distogliendo lo sguardo dalle contraddizioni esistenti, si assopisce in questa «tenerezza delle cose» condita in salsa postmoderna. E senza vie di mezzo, ma con una robusta proposta di interpretazione del nostro tempo, a Roma ci si arriva e come.

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