Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935
Royal Academy 29 October 2011—22 January 2012. In the Sackler Wing of Galleries
Il sito della mostra
This exhibition examines Russian avant-garde architecture made during a brief but intense period of design and construction that took place from c.1922 to 1935. Fired by the Constructivist art that emerged in Russia from c.1915, architects transformed this radical artistic language into three dimensions, creating structures whose innovative style embodied the energy and optimism of the new Soviet Socialist state.
The drive to forge a new Socialist society in Russia encouraged synthesis between radical art and architecture. This creative reciprocity was reflected in the engagement with architectural ideas and projects of such artists as Kazimir Malevich, Vladimir Tatlin, Liubov Popova, El Lizzitsky, Ivan Kluin and Gustav Klucis, and in designs by such architects as Konstantin Melnikov, Moisei Ginsburg, Ilia Golosov and the Vesnin brothers, as well as Le Corbusier and Erich Mendelsohn, European architects who were draughted in to help shape the new utopia.
The exhibition juxtaposes large-scale photographs of extant buildings with relevant Constructivist drawings and paintings, vintage photographs and periodicals. Many of the works have never been shown in the UK before.
di Leonardo Clausi da rivistastudio
Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935 – review
Rowan Moore The Observer, Sunday 30 October 2011 Building the Revolution, Royal Academy, London. Early Soviet art and architecture were synonymous – so why does this show prise them apart?
Charles Darwent Independent Sunday 06 November 2011
Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935, Royal Academy, LondonI due volti dell'architettura senza futuro
By Edwin Heathcote, Financial Times October 26, 2011
Soviet Art and Architecture 1915-1935: Building the revolution up for disappointmentAny romanticism surrounding a “brave” Soviet past is shattered by the Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935 exhibition at the Royal Academy
Anoosh Chakelian Telegraph 18 Nov 2011
Arte sovietica e postmodernismo capitalista sono stati incapaci di dare risposte alla società
di Vittorio Gregotti Corriere della Sera 19.12.11
Le mostre che hanno dominato in queste settimane la cultura architettonica londinese — chiuderanno entrambe a gennaio — sono quella dal titolo «Building the Revolution» dedicata all'architettura costruita in Unione Sovietica dal 1915 al 1935 e quella dedicata al Postmodernismo 1970-1990. Due ventenni di cui il primo caratterizzato da una straordinaria ricchezza di idee e soluzioni a partire da fondamenti ed intenzionalità ideali comuni, del tutto lucide e coerenti; la seconda un ricco documento del gusto che ha dominato il periodo esaminato senza troppe distinzioni di metodi, scopi e fondamenti.
L'importanza della prima, dedicata al compianto direttore del Museo di Architettura Schusev di Mosca, David Sarkisyan, di recente scomparso, ci sembra volta a segnalare, per mezzo delle fotografie di Richard Pare, soprattutto lo stato (sovente di deplorevole rovina) delle più importanti architetture costruire nel periodo esaminato ed implicitamente la necessità del loro restauro, pena una perdita culturale di grande importanza che conta opere di Le Corbusier e Mendelsohn oltre a quelli dei più noti architetti sovietici del tempo. La mostra è anche accompagnata, in modo del tutto occasionale, da opere figurative (alcune di grande qualità) della collezione Costakis. Il catalogo è introdotto da un bellissimo saggio di Jean-Louis Cohen che analizza le relazioni tra il razionalismo internazionalista dei Paesi europei e la cultura del costruttivismo sovietico. Una mostra abbastanza ben documentata ma resa meno chiara nelle intenzioni dal sottotitolo «Soviet Art and Architecture», problema assai più complesso di quanto risulti da questa esposizione. Purtroppo anche la documentazione architettonica necessaria (localizzazione, disegni, immagini di insieme) è quasi del tutto assente, soprattutto nel catalogo.
Confusione è invece il vocabolo più appropriato per definire i principi che sembrano guidare la mostra del Victoria and Albert Museum dedicata al postmodernismo. Non si tratta certo della rappresentazione della storia dell'architettura di quel ventennio, ben più complessa. Anzitutto gli errori nelle date: il 1970 è una data troppo tarda se si vuole ricordarne le origini che, almeno per la letteratura, risalgono ad un quindicennio prima; troppo presto per l'architettura che venne definita nei principi, soprattutto con i celebri testi come quelli di Lyotard, di David Harvey, di Frederic Jameson e di altri, solo alla fine del decennio, anche se quest'ultimo ne descrive i sintomi già in corso nel decennio Settanta. Troppo anticipata è poi la data del 1990 visto che nel postmodernismo siamo stati immersi almeno per un ulteriore ventennio e purtroppo non ne siamo ancora usciti. Il postmodernismo è la cultura del capitalismo finanziario globale e non è detto che con la sua crisi economica esso sia definitivamente finito.
Una distinzione poi sarebbe stata necessaria tra il primo periodo di «revival» (anche se questo vocabolo è troppo nobile per definirlo) di pasticciate nostalgie degli stili del passato e quello successivo dei linguaggi delle avanguardie, privati ovviamente di ogni tensione rivoluzionaria. Sovente le opere sono accompagnate da una giusta dose di ironia (e autoironia) nei confronti dei ripescaggi storici ma purtroppo essa è un efficace strumento letterario piuttosto che architettonico. Tutto questo è accompagnato da una presentazione con una grande quantità di materiali ma squilibri quantitativi negli esempi di moda, design e architettura e appropriazioni culturali piuttosto indebite (cosa c'entrano con il postmoderno Ungers e Stirling e lo stesso Aldo Rossi che guarda invece alla tradizione rivoluzionaria dell'Illuminismo?).
Poi vi è la confusione ideologica che mescola la pulsioni del '68 con l'età di Reagan, la rivendicazione nei confronti della relazione con la storia, che risale alla cultura dei Ciam (Comités d'Architecture Moderne) del '51, ed insieme l'odio postmodernista per la nozione di contesto. Poi vi è la dimenticata contraddizione tra esibizione decorativa della ricchezza e la sua contestazione, l'influenza sull'architettura della pop art come ammissione di una nuova cultura popolare dei consumi dominante insieme all'esercizio di una ricerca continua di originalità non necessaria. Infine la confusione tra architettura, disegno industriale, moda, pittura come liquefazione delle specificità disciplinari anziché utile scambio tra esse, sarebbe stato un tema da esplorare. Nell'introduzione del catalogo illustratissimo di più di trecento pagine, i responsabili della mostra affrontano anch'essi la questione delle date dell'inizio e fine (secondo loro) di questo «stile», certamente anticipatore dell'età del web ma con un'evidente confusione tra linguaggio e calligrafia e terminano la loro introduzione affermando trionfalmente che, dopo tutto, il postmodernismo ha posto il design al centro del palco: mettendo purtroppo fuori scena l'architettura, aggiungo io.
Per quanto riguarda il campo delle arti non è un caso che l'architettura si sia trovata protagonista all'inizio degli anni ottanta della questione della rinascita ufficiale del postmoderno e quindi di quella della alternativa tra farsi rappresentazione della realtà oggettiva ed essere interpretazione critica alternativa di quella stessa realtà. Essa è infatti tra le arti quella in cui tale relazione o meglio la contraddizione tra autonomia creativa ed eteronomia delle condizioni empiriche è più palese, anche se l'impeto delle tecnoscienze, l'impero della comunicazione ed il capitalismo finanziario globale hanno reso tutto ciò ancor più palese, sino a cambiarne i fragili equilibri.
La discussione in corso intorno al «new realism» (ma anche la mostra al Victoria and Albert Museum) hanno ripolarizzato la questione, anche se per alcuni di noi si tratta oggi, dopo trent'anni di polemiche, non di un post-postmodernismo ma della ripresa di una attitudine critica di fronte alle nuove condizioni offerte dalla realtà alla «modernità come progetto incompiuto», forse capace di utilizzare positivamente anche le nuove opportunità. Anche se, quando si propone un atteggiamento di «realismo critico», bisognerebbe dichiarare cosa si intende per realtà e critica. Se si guarda alla realtà empirica questo implica un esame e un giudizio non solo sullo stato presente delle cose ma anche sulle sue dinamiche di mutazione. A tale giudizio si aggiunge nel fare dell'opera una proposta che con la propria presenza propone una modificazione, che è insieme un'alternativa strutturale ed una conoscenza più profonda delle ragioni di quello stato delle cose, quindi un punto possibile su cui far leva per il loro mutamento o, quanto meno, per la messa in evidenza delle contraddizioni, dei loro poteri e dei modi con cui esse agiscono.
Ma l'opera si offre anche come nuova cosa al mondo per un consistente periodo, pur con una continua oscillazione dei suoi significati e della sua attualità, per rapporto agli stati mutevoli della realtà in relazione critica con la quale essa è nata e permane come altro possibile. Un compito opposto all'ideologia postmodernista, assai più vicina alle posizioni delle avanguardie nella chiarezza della loro relazione tra le opere e i loro fondamenti ideali.
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