mercoledì 11 gennaio 2012
Sul ruolo di Amendola durante il fascismo
Giovanni Amendola
La bestia nera del fascismo
Mussolini era convinto che Giovanni Amendola fosse il suo oppositore più ostinato e pericoloso
di Paolo Macry Corriere della Sera 11.1.12 da Segnalazioni
Ci sono periodi, nella storia d'Italia, che richiedono dalla politica e dai politici un coraggio inusuale, perfino fisico. Era capitato ai giovani nazionalisti di metà Ottocento, cresciuti tra i miti letterari della patria oppressa e il pericolo delle forche asburgiche. E capiterà alla generazione di Giovanni Amendola, che vive i furori del 1915, poi le lacerazioni della guerra e infine la sfida violenta della «rivoluzione fascista». Tempi esigenti e rischiosi. Collaboratore della prezzoliniana «Voce» e poi del «Corriere della Sera» di Albertini, antigiolittiano, interventista, ministro del governo Facta, il liberale Amendola si espone nella lotta politica senza riserve, fino a pagarne il prezzo più alto. Aggredito più volte dagli squadristi, è vittima nel luglio del 1925 di un agguato particolarmente feroce, massacrato di botte, colpito al volto e alla testa. Ne morirà alcuni mesi dopo, a 44 anni, malgrado un paio di operazioni chirurgiche.
A differenza degli eroi risorgimentali, però, ad Amendola non basterà il martirio per guadagnarsi l'attenzione del Paese. Già negli anni Trenta, il regime ha fatto il vuoto intorno alle sue vittime. «Ben pochi di noi giovani — ricorderà Ruggero Zangrandi — intesero mai, in quell'epoca, anche solo pronunciare i nomi di Gramsci, Amendola e Gobetti». Né gli sarà prodigo di riconoscimenti un dopoguerra dominato da culture politiche — la comunista e la cattolica — che sono refrattarie al suo liberalismo democratico di ascendenza mazziniana. E neppure gli presteranno adeguata attenzione gli storici: non quelli di matrice gramsciana, non uno studioso liberale come Renzo De Felice, non i suoi allievi. Amendola rimane un personaggio poco studiato, anche perché viene usualmente coinvolto nel giudizio molto severo che la storiografia ha formulato sulla sconfitta della galassia liberale a opera del fascismo.
Ed è certamente vero, come ha scritto Giovanni Sabbatucci, che quei liberali prendono «un colossale abbaglio collettivo circa le vere intenzioni di Mussolini». Ma altrettanto vero è che gli spazi per un'opposizione costruttiva sono realmente stretti. Il fascismo non si limita al terrore delle squadre, ma sta mettendo radici nell'establishment e nella società: a fine 1923, per dirne una, il Pnf sfiora gli ottocentomila iscritti. E il Paese appare stanco ed «esige pace, ordine, continuità di governo», come ben comprende Amendola. Per altro, le fratture del quadro politico sono drastiche e incrostate dal tempo, al punto che Salvemini, ancora dopo la marcia su Roma, può dire di preferire Mussolini a Turati, mentre lo stesso Gobetti, nei mesi della crisi Matteotti, sembra temere soprattutto una «resurrezione di Giolitti». Per non parlare di Gramsci, il quale non trova di meglio che accusare Amendola di «semifascismo». È in questo quadro di debolezze reali e spaccature ideologiche che matura il fallimento dei liberali.
Ma poi è necessario distinguere. Non tutti dicono le stesse cose e non tutti si accorgono della minaccia con eguale ritardo. Se l'illusione di normalizzare il fascismo è molto diffusa, esistono pur sempre le mosche bianche. E Amendola appare diverso da una vecchia classe dirigente, la quale dapprima dialoga e talvolta collabora con Mussolini, intendendo usarlo in chiave antisocialista, e poi arriva a votare la sua devastante riforma elettorale. Ed è diverso, sebbene ne avverta l'influenza, anche da quel Nitti, che nel 1922 ha escluso categoricamente la possibilità di un «governo di reazione» e che sembra sottovalutare la violenza squadrista perfino all'indomani della devastazione della sua casa romana, avvenuta l'anno dopo. «Si tratta senza dubbio di una volgarità di bande irregolari», scriverà proprio ad Amendola.
Con altra intensità, Amendola è ostile al sovversivismo fascista. Lo attacca a più riprese e, nell'imminenza della marcia su Roma, spinge Facta a preparare il decreto sullo stato d'assedio, che poi il re non vorrà firmare. Più di altri sembra in grado di cogliere i caratteri della congiuntura e più precocemente vede la minaccia di una svolta di lungo periodo. Non aspetta le leggi speciali per definire il fascismo come «sistema totalitario», avvertendo gli illusi che non sarà «un incidente temporaneo», ed è consapevole che la morte annunciata delle libertà chiede un impegno politico straordinario e personalmente costoso. «La vita consueta — dirà a Croce — deve essere interrotta per dar luogo a un periodo di milizia».
Lui, la sua milizia, la sta portando avanti con fermezza. In risposta agli abusi delle elezioni del '24, minaccia l'abbandono della Camera e, poche settimane più tardi, reagisce al delitto Matteotti promuovendo con un centinaio di deputati la stagione controversa dell'Aventino. È un atto estremo, a forte caratura morale, ma Amendola non dimentica la politica. A fine '24, nel tentativo di mobilitare il Paese, fonda un nuovo partito, l'Unione nazionale. Poi, con grande coraggio, pubblica sul «Mondo», il suo quotidiano, quel memoriale di Cesare Rossi che accusa direttamente Mussolini per l'omicidio del leader socialista. Qualche mese dopo, propone a Croce di scrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta a quello gentiliano degli intellettuali fascisti. Sebbene l'agibilità politica e fisica dell'opposizione sia ridotta ai minimi termini, continua una battaglia che sta diventando temeraria. Con lui, come con Matteotti, il fascismo non ha modo di usare il bastone e la carota. «Amendola era fatto di un'altra pasta», ha scritto Salvatore Lupo.
Paradossalmente, sarà poi Mussolini, durante le conversazioni avute con il giornalista Yvon de Begnac, a riconoscergli un ruolo del tutto particolare negli anni Venti e a smentire l'accusa di attendismo che, in seguito, gli avrebbero rivolto gli storici. Amendola, dice a un certo punto Mussolini, «non rimandava, come gli operaisti, la propria rivoluzione al consumarsi della rivoluzione nostra. Voleva muoverci guerra immediatamente». E ancora: «era il più forte avversario che il Paese potesse proporre, era la vera opposizione costituzionale al fascismo, era il solo italiano capace di opporsi alla rivoluzione dell'ottobre 1922».
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