lunedì 13 febbraio 2012
Elites e masse nella storia italiana
Se le élite diventano cricche
In Occidente si allarga il divario tra eletti ed elettori
di Luciano Canfora Corriere della Sera 13.2.12
Dopo La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza), ecco Il disagio della libertà (sottotitolo: Perché agli italiani piace avere un padrone) di Corrado Augias (Rizzoli). Entrambi questi libri sono nati quando «il Cavaliere» sembrava imbattibile e gratificato di vasta popolarità, nonostante la pioggia di scandali di vario genere che lo avevano investito soprattutto nell'ultimo anno del suo governo. L'indignazione, di cui fu segnale importante la grande manifestazione svoltasi all'insegna dello slogan «Se non ora, quando?», scaturiva da un problema non piccolo: che fare quando la «maggioranza» compie scelte che paiono sbagliate? O mettere in discussione il principio di maggioranza (le cui basi logiche, come ben sappiamo dall'insegnamento del liberale Ruffini, sono fragili), oppure indignarsi.
Sia ben chiaro: l'«indignazione» non è affatto sterile: è uno dei modi per incidere sulle scelte sbagliate della «maggioranza». Ovviamente non sortisce sempre i suoi effetti: dipende anche (ma non unicamente) dagli argomenti addotti a sostegno dell'indignazione. Il presupposto, lodevolmente ottimistico, di tale scelta è quello «pedagogico»: che cioè «democrazia» ed «educazione» sono coessenziali, come avrebbero un dì detto i teologi.
La scuola in primis, e ogni altra istituzione avente come fine l'acculturazione di massa, è il presupposto essenziale, vitale, del funzionamento della «democrazia». «Democrazia» indica uno stato di cose, o meglio un rapporto di forze; «educazione» vuol dire alimento che renda coscienti delle loro scelte i soggetti coinvolti in quel rapporto di forze. Ecco perché la scuola (che è, comunque, sempre molto difficile da addomesticare) è nel mirino ad ogni cambio di «regime» o di prevalenza politica. Ecco perché i più rozzi tra i politici danno ciclicamente l'assalto ai manuali di storia in uso nelle scuole (già il tirannico imperatore della Cina che fece la grande muraglia ordinò anche la distruzione dei libri di storia in quanto «pericolosi per il governo»). Ecco perché lo strumento che con più forza costruisce la coscienza di massa, cioè la tv, è al centro di una battaglia permanente tra le forze politiche. Ecco perché «il Cavaliere» ha costruito la sua efficace presa su vaste masse italiane attraverso il suo impero mediatico.
Per la verità, giova anche chiedersi perché i suoi di norma fiacchi avversari non hanno saputo intaccare tale fruttifero impero né l'una né l'altra volta che sono saliti al governo del Paese. La domanda ci porterebbe a studiare il fenomeno, importantissimo nelle cosiddette «democrazie occidentali», della molto maggiore vicinanza, contiguità, se non talora intrinsechezza, dei vertici rispetto alla radicale divaricazione delle rispettive basi (alle quali i vertici trasmettono slogan agitatori, in cui forse non credono, ma finalizzati a galvanizzarle). Ma questo tema meriterebbe una disamina a parte, che potrebbe prendere le mosse addirittura dallo studio delle dinamiche politico-familiari e di clan della repubblica romana dai Gracchi a Giulio Cesare. E perciò lo accantoniamo.
Torniamo invece alla legittima «indignazione» e alla sua concreta efficacia. Un aspetto particolare dell'indignazione è la ricerca delle cause storiche remote e recenti che stanno alla base dei comportamenti che suscitano indignazione. È il caso del libro di Augias, che da questo punto di vista si colloca nella scia della gobettiana diagnosi del fascismo come «autobiografia» del nostro Paese. Diagnosi severa (Augias si richiama più volte a Gobetti), e certo non «ottimistica», che ha molte radici interessanti: tra le quali indicherei La lotta politica in Italia di Alfredo Oriani, ma anche gli studi di Vilfredo Pareto, nonché la riflessione critica sulla vicenda risorgimentale, che accomuna — con diversi accenti — Gobetti, Gramsci e, in anticipo sui tempi, lo stesso D'Azeglio.
Di una peculiarità italiana si è spesso, e a ragione, parlato, per avere il nostro Paese vissuto la plasmatica vicenda della Controriforma senza aver però subito il salutare scossone della Riforma, e per aver subìto i pesanti contraccolpi della «controrivoluzione» (nel 1849 non meno che nel 1919-22) senza che la «rivoluzione» avesse messo radici profonde nella massa popolare. Questo è certamente vero, specie se, come si suole, raffrontiamo la nostra storia a quella della Francia, che pure per tanti versi ha influenzato la nostra. (Augias preferisce richiamarsi al modello inglese, del quale è un «patito»: a pp. 125-135. Ma forse idealizza troppo quel modello).
È certo che in Francia la reattività del cittadino rispetto al potere è, nel costume quotidiano, più marcata che da noi (da noi prevale talvolta l'urlo qualunquistico che però è uno sterile fuoco di paglia). E si potrebbero ricercare alcune cause di tale differenza. Per esempio questa: che da noi la «rivoluzione alla francese» (coi suoi principi e i suoi dogmi) fu importata e propiziata da minoranze che furono malviste perché considerate al servizio dei «liberatori» fattisi presto padroni. (È quel che accadde nell'Est Europa dopo il 1945-48). In tal modo i princìpi importati non hanno mai messo, da noi, durevoli radici.
Ma si possono concettualizzare siffatte generalizzazioni? Non è pur sempre degna di riflessione quella drastica definizione dell'ethos medio dei tedeschi contenuta nel testamento di Teodoro Mommsen («incapaci di trascendere il servizio nei ranghi»)? Nonché la diagnosi di un acuto storico francese passato, nel tempo, dal Pcf al gollismo — ci riferiamo a Emmanuel Le Roy Ladurie —, secondo cui, nonostante il 1789 e il «regicidio», i francesi hanno serbato pur sempre in sé una grande «voglia di monarchia», che di tanto in tanto riaffiora? E non è pur sempre vero che il modello statunitense di un presidente-quasi-monarca eletto per lo più da una minoranza del corpo elettorale (modello cui guardano con gli occhi lucidi i «presidenzialisti» nostrani) costituisce un indizio che va nella stessa direzione? Dunque forse la questione vera sta nel comprendere — in riferimento ad un orizzonte più vasto — per quali ragioni si approfondisce sempre più nel tempo, e per fattori tecnici, economici, culturali, l'abisso tra governanti e governati.
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