martedì 28 febbraio 2012

La Politica di Aristotele secondo Giuseppe Galasso

Atene, la libertà degli antichi

Aristotele vedeva nell'accordo tra i nobili e il popolo la formula più efficace per il buon governo della città

di Giuseppe Galasso Corriere della Sera 28.2.12 da Segnalazioni

La fortuna di Aristotele filosofo della politica è stata tarda, e fu a lungo affidata ai suoi scritti di etica. Solo dal Duecento si diffuse la sua Politica, che perciò influì sulla genesi solo di alcuni dei grandi concetti giuridici e politici del pensiero occidentale. Risalgono, comunque, a lui idee rilevanti: da quella della politica come stato naturale e universale della vita sociale, che è nel destino dell'uomo e la cui forma-tipo era per i greci la città, la pòlis (di qui la sua più famosa definizione: quella dell'uomo come «animale politico», cioè destinato a vivere nella pòlis) a quella della preferibilità della piccola comunità politica a quella grande e della democrazia alla tirannide.
La politica è, comunque, per Aristotele, detto alla moderna, «arte del possibile», ma un possibile inteso come ciò che meglio, date certe premesse, corrisponde alla ragione; e perciò egli ricercava quale fosse il migliore ordinamento di una città. Non si sapeva, però, fino al 1890, che fosse anche autore di una tale analisi per la maggiore città greca, ossia Atene. La scoperta ha destato anche vari dubbi sullo stile e su altri aspetti dell'opera, pervenutaci incompleta, e si è stati incerti se ne fosse lui l'autore. Poi, per lo più, lo si è riconosciuto come tale, ma si può ben dire, crediamo, che, se non si tratta di un'opera di Aristotele, si tratta pur sempre di un'opera aristotelica.
La «costituzione» (politeía) era per i greci l'ordinamento istituzionale della città, il suo governo, le magistrature, la sua struttura politica e sociale. Nulla di comune con ciò che oggi si intende per «costituzione». La Costituzione degli ateniesi ha perciò una natura prevalentemente descrittiva in entrambe le sue parti: la prima, in effetti storica, sulle vicende del governo di Atene fin dai suoi inizi; la seconda sul regime di Atene al tempo in cui Aristotele scriveva, un po' prima del 322 a. C.
Il tipo di opera non era un'invenzione di Aristotele. Sulla «costituzione degli ateniesi» c'è anche un'altra opera, di incerta paternità. A sua volta, Senofonte scrisse una «costituzione degli spartani», ossia dei grandi rivali di Atene nella micidiale lotta per l'egemonia che preparò la rovina delle città greche, sottomesse, in ultimo, al re di Macedonia (che era, quando Aristotele scriveva, Alessandro Magno, del quale egli era stato precettore). Sono, in effetti, opere di carattere alquanto diverso. Quella di Aristotele sembra avere soprattutto il fine di fornire appoggi storici e tipologici alle teorie da lui esposte nella Politica. Notizie antiche sulle sue opere parlano di una raccolta di oltre 150 costituzioni di città greche. Ciò risponde all'ipotesi sulla natura della Costituzione come lavoro, per così dire, di servizio, contro il parere di chi la ritiene un'applicazione delle idee esposte nella Politica. In effetti, sulla conformità delle idee della Costituzione a quelle della Politica vi sono state varie incertezze, mentre, nonostante molti dubbi sui dati di fatto in essa forniti, ci pare di poter dire che è proprio l'intento storico, documentario ed esemplificativo della Costituzione a costituirne il maggiore pregio.
Se ne deduce che per Aristotele l'affermazione della democrazia (come intesa dai greci, e quindi escludendo non solo gli schiavi, ma anche chiunque non fosse cittadino di pieno diritto) costituiva il filo rosso della storia di Atene, stabilizzatosi dopo la fine dell'ultima fase di tirannia nel 403 a. C. Il resoconto aristotelico è impressionante. Esso conta undici riforme della costituzione ateniese, di cui nove nel giro del VI e V secolo a. C. L'undicesima «attribuisce il massimo potere al popolo», che «si è reso direttamente padrone di tutto e regola ogni cosa con decreti e tribunali, nei quali è sovrano». Ordinamento preferibile ad altri, perché quando il governo è ristretto in poche mani è più facile la corruzione, laddove corrompere molti è ben più difficile.
Le idee politiche di Aristotele, comunque presenti nella Costituzione, malgrado il fine pratico che essa si propone, si vedono chiaramente nella preferenza per la costituzione data ad Atene da Solone. Questi «aveva reso il popolo libero per il presente e per l'avvenire», ma, pur simpatizzando per il popolo e attribuendo ai ricchi la causa delle guerre civili, tendeva a un accordo fra popolo e nobili, ricercando quella che oggi si direbbe, con forte approssimazione, ma non troppo male, una soluzione centrista per il governo della città. Per Aristotele una duratura stabilità politica era sempre nelle mani di governanti che amassero il regime in vigore e ne rispettassero le regole. La costituzione ateniese era stata, in pratica, una marcia verso la democrazia, ossia verso un regime in cui la libertà dei cittadini, non la ricchezza o altro, fosse l'unico fondamento dei loro diritti nel governo. Il conferimento delle cariche per sorteggio, disposto da Solone, era l'applicazione di questo principio.
Si erano realizzate tutte queste condizioni nella democrazia ateniese ristabilita nel 403 a. C. che Aristotele ci descrive? La risposta di Aristotele sembrerebbe affermativa, ma nel 322 i macedoni sottomisero di nuovo Atene e le altre città, insorte nel 323 alla morte di Alessandro Magno, e imposero un regime fondato sul censo, sopprimendo le libertà.
Un epilogo che spinge il lettore della Costituzione a riflettere al di là delle ragioni interne cui sono dovute per Aristotele la natura e la durata di un regime; e a pensare che in questo calcolo debbano rientrare anche gli elementi non interni costituiti dagli equilibri e dai rapporti di forza nell'area storica in cui un regime è inserito. È un punto che la stessa Costituzione comprova: ad esempio, con il regime tirannico imposto dagli spartani nel 404 a. C. dopo la sconfitta di Atene nella guerra dei Trent'anni. Ed è, dunque, anche perché, oltre a fornire numerosi spunti e motivi di interesse storico e teorico, la Costituzione induce a ulteriori considerazioni, che essa è ancor oggi una lettura storica e politica che vale la pena di fare.


Il demone dei calcoli applicato alla vita
di Armando Torno  Corriere della Sera 28.2.12 da Segnalazioni

Chissà perché Aristotele lasciò una specie di ipoteca sui matematici nella Metafisica. Scrisse che essi danno vita alle loro teorie «per mezzo dell'astrazione» e non si curano di «tutte le qualità sensibili». Kant rivide l'antica posizione, ma non la volle debellare completamente. Ricordò che la filosofia procede «mediante concetti», mentre la scienza dei numeri con la «costruzione di concetti». Hegel potè così tranquillamente ripetere che la matematica è la disciplina delle quantità. Non perse l'occasione di ribadire l'antica formula Benedetto Croce, anche se ormai i tempi erano maturi per altre considerazioni. Nella sua Logica (1905) asserisce: «Le matematiche forniscono concetti astratti che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sintesi a priori che è la numerazione degli oggetti singoli».
Sono frammenti di una storia infinita. Del resto, che cosa sia la matematica lo ignorano anche i sacerdoti che ne officiano il culto e quando chiedete a uno di essi quali certezze abbia ghermito, vi risponde in genere con un sorriso. Né va dimenticato che per la concezione formalista, sviluppata da Hilbert e dalla sua scuola negli anni Venti del '900, la matematica può essere costruita come semplice calcolo, senza che ad esso si dia un'interpretazione. Volete aggiungerla? Problemi vostri, replicherebbero quei sacerdoti appena scomodati.
Gli innamoramenti per questa scienza, i tentativi di interpretarla o definirla non potranno mai essere narrati nei dettagli; difficile stilare anche un inventario di stravaganze e topiche che ha alimentato. Sarà per molti sorprendente il saggio di Giulio Giorello dal titolo Il fuoco fatuo di Hobbes e il chiaro labirinto di Spinoza, dedicato al «fare filosofia con la geometria». È contenuto nel terzo volume della vasta opera La matematica, pubblicata da Einaudi e curata da Claudio Bertocci e Piergiorgio Odifreddi, con cui si completa il progetto dei quattro tomi previsti (ha come titolo Suoni, forme, parole, pp. 892, 110). Hobbes, oltre il Leviathan, è colto tra le battaglie con figure, numeri, deduzioni: reinterpretò gli Elementi di Euclide, intraprese polemiche con i matematici di Oxford e per i suoi errori venne stroncato da John Wallis («fatto a pezzi ma non domato», nota Giorello). Nel saggio si ricorda, tra l'altro, l'esame che tentò di una «meraviglia» di Evangelista Torricelli ed è posta in evidenza, oltre a qualche pasticcio e a non pochi fraintendimenti in geometria, quel suo ingarbugliarsi con le frazioni. E questo anche se ebbe l'onore di «iniziare alle matematiche» il Re. Ma non si creda che Hobbes fosse uno sprovveduto: dai suoi errori si impara, soprattutto quando ricorda, per illustrare le prepotenze della politica, che se un giorno si scoprisse un proposizione contraria agli interessi del potere, potrebbe «essere soppressa, bruciando tutti i libri di geometria».
Poi Giorello si dedica a Spinoza. Il filosofo che conforma la sua Etica agli Elementi di Euclide ammonisce chi «ascrive a Dio i propri attributi» e in una lettera a Hugo Boxel, funzionario a Gorcum, nota: «Se il triangolo avesse la facoltà di parlare, direbbe parimenti che Dio è triangolo in modo eminente». La geometria, in tal caso, è utilizzata per mettere in guardia contro le celesti raffigurazioni. Nella medesima lettera Spinoza precisa: «Alla tua domanda, se io abbia di Dio un'idea tanto chiara come quella del triangolo, rispondo di sì. Se invece mi chiedi se ho un'immagine di Dio tanto chiara come quella del triangolo, rispondo di no: perché non possiamo immaginare Dio ma certo possiamo conoscerlo».
Giunti a questo punto sembrerebbe che la matematica sia entrata — lo scrisse Robert Musil ne L'uomo senza qualità — come un demone in tutte le applicazioni della vita. È vero? Conviene replicare aprendo un libro appena uscito dello stesso Bartocci, Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Raffaello Cortina, pp. 418, 29). Porta in un mondo di idee in cui aumentano le domande e diventano «più elusive e sconcertanti le risposte». Che dire? Dove le piramidi si rovesciano, è bello smarrirsi. Succede anche nelle storie d'amore.

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