venerdì 10 febbraio 2012

Svelato ufficialmente il nome del "professor De Tormentis", torturatore capo del Ministero degli Interni

Lo chiamavano il prof. De Tormentis
«Bisognava far sentire l’interrogato sotto il tuo dominio»
«Sono io l'uomo della squadra speciale anti Br»
di Fulvio Bufi Corriere della Sera 10.2.12

NAPOLI — Per chi lavorava in polizia non c'era niente da scherzare negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando le Brigate Rosse sparavano e lo Stato combatteva contro i gruppi della lotta armata la sua battaglia più difficile. E non scherzava certo l'allora vicequestore Umberto Improta — che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo — quando affibbiò a un suo collega specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Sapeva quello che diceva, Improta, e stando alle denunce (tutte archiviate) presentate in quegli anni da alcuni brigatisti interrogati dal professore, il soprannome sintetizzava bene i suoi metodi di lavoro.
Metodi che, per come li raccontarono i brigatisti che li subirono, e per come li conferma oggi l'ex dirigente della Digos Rino Genova nelle testimonianze rilasciate prima a Nicola Rao, autore del libro «Colpo al cuore» (Sperling & Kupfer), e poi alla trasmissione «Chi l'ha visto?», che l'altro ieri si è occupata del professor De Tormentis, hanno un solo nome: torture. Con la tecnica del waterboarding, per la precisione, e cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell'annegamento e in qualche caso anche gli effetti.
Il programma condotto da Federica Sciarelli ha raccolto anche la testimonianza di Enrico Triaca — br che nel 1978 subì il trattamento della squadra guidata dal professore —. Inoltre ha preferito per ora non diffondere il nome di De Tormentis. Il Corriere sceglie invece di farlo dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato.
Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell'Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l'avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: «Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità».
Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere.
Se — come dicono — era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette. Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato». Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l'interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome».
Ciocia sostiene che «non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi». Arriva a dire che «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia», e su Triaca si lascia scappare un ambiguo «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». E insiste pure: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».
«Quei metodi», «quei sistemi», «quelle pratiche»: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: «Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».

Torture in Italia

Paolo Persichetti Liberazione 11 dicembre 2011

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