venerdì 25 maggio 2012
Emanuele Severino su ermeneutica e Nuovo Realismo
Verità e relativismo, la sfida impossibile
La fallibilità della scienza secondo Karl Popper
Non può esistere l'Essere assoluto e la «conoscenza come congettura» è solo un'ipotesi
di Emanuele Severino
Corriere 25.5.12 da Segnalazioni
Verità e relativismo, dunque: se ne sta parlando di nuovo anche sul
«Corriere». Il relativismo, si dice, nega che l'uomo riesca a conoscere
una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa definizione,
tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è
relativista. Ma allora va anche detto che quella negazione della verità
era già sostenuta 2.500 anni fa, e in grande stile, dalla sofistica.
Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per
quanto grande fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci
si può fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi
afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli stesso che
nemmeno questa sua affermazione è una verità assoluta. (Le cose non sono
però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare
che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità, perché
no? — visto che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il
«principio di non contraddizione» potrebbe daccapo rispondere che quel
principio, così semplicemente affermato, è un dogma; e bisognerebbe
allora darsi da fare per mostrargli che non lo è).
Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt'altra cosa. Nega tutto
l'antirelativismo che c'è stato nel frattempo. Si crede che il
relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per il quale la verità
assoluta non potrà mai esser trovata perché «tutto muta col tempo». Ma
Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non
può esistere nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il
quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non
giunge a tanto, perché per lui quel «tutto che muta» è, propriamente, il
mondo. Nietzsche arriva a tanto perché, fondandosi sulla persuasione
che nel mondo tutto muta, mostra l'impossibilità dell'esistenza di un
qualsiasi Essere eterno e assoluto.
Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la
cultura e la civiltà dell' Occidente — e, ormai, del Pianeta. Sin
dall'inizio l'avanguardia dell'Occidente — la filosofia greca — è
persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e
che il mutamento sia un passare delle cose dal non essere all'essere e
viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del modo
in cui esso era stato precedentemente inteso dall'uomo). O gli odierni
relativisti ritengono, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che
il mutamento del mondo sia il contenuto di una «conoscenza fallibile,
congetturale» (per usare una nota espressione di Popper)? E la «ricerca
della verità», che i relativisti preferiscono al suo «possesso», tale
ricerca, dico, non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E
l'esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto di
una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O vedano loro
che cosa intendono sostenere).
Sennonché sono soltanto Nietzsche e pochi altri a saper mostrare perché,
dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario concludere che non
esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile oltre a quella che consiste
nell'affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e
assoluto oltre agli esseri che mutano nel tempo. (In altra sede si
tratterà di capire in che consista quel perché). Nietzsche e pochi altri
— abitando quello che son solito chiamare il sottosuolo essenziale del
pensiero del nostro tempo — san fare cioè quel che i relativisti
d'oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche perché, per lo più e
più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è
una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose mutano
col tempo.
Antirelativisti sono coloro che lungo la tradizione dell'Occidente
condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del mondo è
una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono che
verità irrefutabile sia anche l'esistenza di un Essere eterno e
assoluto al di là o all'interno del mondo. Sono gli amici della
«metafisica». Ma nel sottosuolo essenziale del nostro tempo appare
l'impossibilità della metafisica. D'altra parte, ai relativisti che
stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i
metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se tutta la
nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche
l'affermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e
congetturale.
Per trarsi d'impaccio, i relativisti più spregiudicati di superficie
hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e
congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell'atteggiamento critico — ma
allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto. Inoltre, anche
in superficie, si tratta spesso di esclamazioni inconsapevoli della
complessità della questione rispetto a cui sembrano spregiudicate). Il
filosofo liberale americano Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia
lo aveva riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito,
che però aveva il difetto di non essere americano e di essere fascista,
come il suo maestro Giovanni Gentile — che invece, insieme a Nietzsche, è
uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da
insegnare a tutti i Popper. Comunque, se il relativista riconosce che
tutto quel ch'egli sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e
congetturale, pronta ad «abbandonare i propri valori» teorici e morali
«se altri si rivelano più credibili», ascolto con interesse
(condividendo anche i suoi buoni sentimenti) e ritengo che abbia ragione
a credere di dire cose fallibili (che poi son cose false, dato che il
relativista di ogni tipo non può credere che in futuro le sue opinioni
abbiano a rivelarsi verità incontrovertibili).
Ma aggiungo che anche questa sua autocritica è apparente. Domando: chi
si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se altri si rivelano
più credibili è uno che dubita di esser così pronto? È uno che dice:
«Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?» È uno
che dice: «Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne vedessi
di più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si son capite le
domande, la risposta non può che essere negativa. Anche questo
relativista, cioè, non mette in dubbio, è sicuro del fatto suo: più o
meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e
dunque assolutamente vero il proprio trovarsi nello stato in cui egli è
disposto ad abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori.
Infatti l'uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se dice:
«Dubito di quel che dico», egli non dubita di dubitare. (Che è cosa del
tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l'uomo apre bocca solo se
non dubita, la maggior parte delle volte che l'apre dice però cose
false; mentre le considerazioni di Cartesio sul cogito intendono
pervenire alla suprema verità incontrovertibile).
A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di tutta la
nostra conoscenza va dunque replicato che, d'altra parte, l'uomo —
dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo — è sempre
convinto, più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute e
incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne sono convinti
anche quei logici che avrebbero mostrato (e anzi dimostrato!) «che non
ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria».
Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans
Kelsen, che sostengono un'implicazione necessaria, cioè assolutamente
vera, tra relativismo, libertà, democrazia. E allora?
Allora, nella folla sterminata di coloro che — senza saperlo e anzi
spesso negandolo — sono convinti di conoscere verità assolute, si
trovano anche gli uomini dell'Occidente, per i quali la verità assoluta e
incontrovertibile dominante è che le cose del mondo mutano col tempo; e
son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità
che tutte le cose mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non
esiste alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire e
il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità.
Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione
antirelativistica dell'Occidente, consistevano nell'adeguare la vita
dello Stato e dei singoli individui alla verità immutabile ed eterna.
Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare «con verità».
Se oggi qualcuno auspica una politica capace di parlare «con verità»,
deve tener presente che quella della verità è, si è intravisto, una
faccenda parecchio complessa. Per questo, molti mesi fa, in un mio
articolo sul «Corriere», avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia,
che cosa intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto
auspicato una politica capace di parlare «con verità». Glielo avevo
chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa — ad esempio —
usano questa espressione, intendono un politica e una morale che,
contro il relativismo, siano legate alla verità incontrovertibile e
assoluta della metafisica tradizionale (aperta alla rivelazione di
Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è
la democrazia procedurale, una «libertà senza verità».
La risposta di Galli della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha
detto — c'era ancora il precedente governo — che una politica che parla
con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato miserando si
trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che
(a parte il fatto che non riguarda la verità, ma la «sincerità», giacché
se non c'è verità senza sincerità, si possono invece dire con sincerità
cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del rapporto
tra relativismo e antirelativismo — visto che l'accentuata corruzione
della politica e della morale è una conseguenza dello stato di
transizione in cui il mondo si trova: tra la tradizione, dove anche i
corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della
verità, e il tempo futuro.
Il tempo in cui — con l'inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e
di ogni eterno Signore del mondo — quella forma suprema dell'agire
umano che è la tecnica viene autorizzata a prendere in mano, essa, le
sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la
«vera» o «buona politica». (Un processo, questo, in cui consiste il
senso autentico dell'«antipolitica». Ne parleremo un'altra volta).
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