lunedì 28 maggio 2012
Manipolazioni della memoria
Solidarietà ad Alessandra Kersevan, che qualche giorno fa ha contestato pubblicamente Paolo Mieli e che è il chiaro bersaglio di alcuni passaggi di questo articolo [SGA].
Porzûs
Il crollo dell'ultimo muro della memoria
di Giovanni Belardelli
Corriere 28.5.12 da Segnalazioni
È davvero il caso di dire che domani, con la visita del presidente
Giorgio Napolitano a Faedis, in provincia di Udine, crolla per il nostro
Paese l'ultimo muro della memoria, almeno in relazione ai fatti legati
alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza. Fu infatti nei pressi di
quel luogo, alle malghe di Porzûs, che nel febbraio 1945 un centinaio
di partigiani comunisti uccise una ventina di partigiani di orientamento
diverso, cattolico e azionista, appartenenti alle formazioni Osoppo. Si
trattò del più grave scontro interno alla Resistenza italiana,
destinato da allora in poi ad alimentare infinite polemiche. Ancora
negli anni 90 il regista Renzo Martinelli, dopo il rifiuto di molti
sindaci della zona a concedergli i necessari permessi, fu costretto a
girare in Abruzzo il suo film «Porzûs». La stessa storiografia ha spesso
evitato di ricostruire la dinamica e le cause dell'eccidio: nel libro
«Una guerra civile», l'opera assai nota che Claudio Pavone dedicò alla
Resistenza venti anni fa, ci si limitava a un cenno, del tutto
eccentrico, in nota. La ragione principale, quella che agli occhi di
molti ha reso l'eccidio di Porzûs un vero e proprio tabù storiografico,
ha a che fare con la difficoltà o l'imbarazzo di riconoscere che, sul
confine orientale, la politica del Pci aveva sostanzialmente accettato
la strategia di Tito che puntava ad annettere il territorio italiano
fino all'Isonzo. Non a caso in quella zona le formazioni garibaldine,
cioè comuniste, erano passate alle dipendenze dell'esercito di
liberazione sloveno. E i comunisti giuliani non solo erano usciti dal
Cln di Trieste ma avevano scatenato contro quest'ultimo, cioè contro gli
antifascisti non comunisti, una violenta campagna diffamatoria (ad
esempio accusandone i componenti di «collaborazionismo») in accordo con
il Partito comunista sloveno.
Come ha di recente scritto uno storico, Raoul Pupo (nel volume «Porzûs»,
a cura di T. Piffer, Il Mulino), nel Friuli e nella Venezia Giulia
«accadde quel che successe non nel resto d'Italia, ma nel resto della
Jugoslavia»: vale a dire che quegli italiani che, come i partigiani
della Osoppo, combattevano i tedeschi ma cercavano anche di difendere
l'integrità territoriale del loro Paese vennero considerati da Tito come
un ostacolo per i propri obiettivi, dunque come «nemici del popolo» da
eliminare. L'eccidio di Porzûs non fu dunque il frutto di una generica
rivalità tra formazioni diverse, ma si legava appunto alla logica
terribile di uno scontro tra quanti accettavano la strategia jugoslava
volta al controllo della Venezia Giulia e del Friuli orientale e quanti
vi si opponevano. Tra questi ultimi vi furono anche dei militanti
comunisti i quali non accettavano che, nella lotta partigiana, la difesa
dell'integrità nazionale italiana dovesse essere sacrificata alla
solidarietà ideologica con gli jugoslavi.
Ancora oggi, soprattutto a livello locale, c'è chi non riesce a
inquadrare nel suo vero contesto la matrice dell'eccidio di Porzûs,
restando abbarbicato a una memoria conservatrice e nostalgica, troppo
spesso caratteristica di un Paese che fatica a lasciarsi alle spalle i
conflitti del passato. Ma certamente le cose sono molto cambiate
rispetto a qualche tempo fa: nel 2001, ad esempio, l'ex commissario
politico garibaldino Giovanni Padoan, incontrandosi con il cappellano
delle formazioni Osoppo, don Redento Bello, definì l'eccidio «un crimine
di guerra che esclude ogni giustificazione». La visita del presidente
Napolitano, che scoprirà una lapide in ricordo delle vittime di Porzûs e
del loro «sacrificio per la libertà del Friuli e dell'Italia intera»,
sta a significare come anche quell'episodio tragico faccia ormai parte
pienamente della memoria dell'Italia democratica.
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